Mi tremano un po’ le mani nel cominciare a scrivere il presente numero di Sillabe, perché è arrivato il momento di parlare del sonetto: e il sonetto è un argomento capitale nella poesia italiana e lo è anche nella mia esperienza creativa, avendo scritto sonetti a ripetizione su qualsiasi tema mi venisse in mente.
Quindi ho un sacco di cose da dire e mi affanno nella necessità di metterci ordine. Mi salva il fatto che del sonetto parlerò altre volte. Insomma, questo non è che un inizio.
Scatola di montaggio: il sonetto
Il sonetto è un marchingegno agile e compatto. Nasce nella Sicilia duecentesca ricca di influenze provenzali, riadattando i decasyllabes dei trovatori a una nuova forma di metro che nella poesia italiana avrà un enorme successo, cioè l’endecasillabo.
Il sonetto nasce in questo contesto come forma poetica originale, e si diffonderà poi in Europa: rapido, conta solo quattordici versi, ma con una varietà strutturale interna che lo rende estremamente versatile. Il suo ideatore è generalmente identificato in Giacomo (o Jacopo) da Lentini, detto il Notaro, che della scuola siciliana fu uno dei principali esponenti.
Il sonetto è strutturato così: comincia con due quartine di endecasillabi quasi sempre in rima incrociata (ABBA ABBA) e si conclude con due terzine la cui rima può essere gestita in vario modo, tipicamente usando la rima alterna (CDC DCD), la ripetizione CDE CDE o i versi speculari CDE EDC, o lo schema petrarchesco CDE DCE, o altri ancora. I primi otto versi si chiamano ottetto o fronte, e gli ultimi sei sestetto o sirima, in analogia con quanto avviene con la canzone. Le prime forme di sonetto avevano uno schema diverso, ABAB ABAB per le quartine, ma la versione ABBA ABBA si attesta già a partire dagli Stilnovisti. Minime variazioni si trovano in Petrarca e Cavalcanti, ma sono casi pressoché unici. Sin dall’inizio è stato oggetto di sperimentazioni metriche: Antonio da Tempo agli inizi del XIV secolo individua sedici tipi diversi di sonetto.
Jacopo da Lentini, immagine tratta da Wikipedia
Tra questi ricordiamo il sonetto caudato, quello doppio, il rinterzato; il sonetto si libererà talora addirittura degli endecasillabi per impiegare i settenari (sonetto minimo). Tutte queste varianti saranno trattate in successive puntate di Sillabe, ma per adesso concentriamoci sul sonetto nella sua forma base.
La suddivisione in quartine e terzine permette di usare il cambio di ritmo per spezzare gli argomenti da trattare: nelle quartine si fa una breve introduzione e la si chiosa nelle terzine, per esempio, o si parte con temi di carattere generale e si finisce nel particolare, o viceversa. Non è una regola fissa: nulla vieta di mantenere un’unità di intenti lungo l’intero corso del componimento.
Ma di che cosa si parla in un sonetto? Di tutto, naturalmente: si va dalla donna di Dante che tanto gentile e tanto onesta pare alle lepidezze vernacolari di Giuseppe Gioacchino Belli, dalle rime d’amore del Tasso ai sonetti in tempo di guerra di Caproni. Storicamente, poi, i primi sonetti erano fra le modalità di componimento che i poeti si mandavano l’un l’altro, per lettera, per discutere, punzecchiarsi, battibeccare. È un espediente comunicativo non troppo dissimile da quello che avrebbero utilizzato i musicisti hip hop (il dissing) alcuni secoli dopo, anche se l’ambiente di partenza - e con ciò la scelta degli argomenti di comune interesse che ne deriva - è radicalmente differente. Tra liriche amorose, disputationes filosofiche, politiche e religiose, collaborazioni e tenzoni più o meno fittizie, tra i poeti tardo-medievali di lingua italiana era insomma tutto un viavai di rime, spesso con l’utilizzo di formule fisse, col risultato di ottenere un grandioso affresco collettivo sull’esistenza umana.
Per gli esperimenti di oggi mi rifaccio a questa capacità del sonetto di fungere da mezzo di dialogo, di botta e risposta, e ne scriverò due: nel primo parla la Parola, e nel secondo risponde il Silenzio (hello darkness, my old friend). In entrambi i casi lo schema metrico è ABBA ABBA CDE CDE.
La parola
Io sono quell’urgenza, l’ingranaggio
su cui si forma allora tutto quanto:
sono l’accenno, l’apostrofe, il canto,
il verso sciocco e invece quello saggio,
la voce di paura e del coraggio,
e della timidezza e poi del vanto,
quel che si pone sopra, sotto, accanto
ai gorghi inesplorati del linguaggio.
A volte suono vuota; potenziale
di verità e di falsi, tutto insieme,
e mille mondi ancora tengo in serbo,
dico del bene intero e poi del male,
e sono frutto, vertigine e seme,
tutta la carne che qui si fa verbo.
Il silenzio
Io sono invece vuoto. Dico e taccio
dicendo, con quell’arte un po’ fasulla
che mi fa colmo soltanto di nulla.
Pesante, sono a volte, mentre abbraccio
parole fatti in tumuli di ghiaccio,
dentro le quali l’eco forse culla
antiche verità, e le maciulla.
Io sono agglutinante, buio laccio
di gola che si stringe e non sa dire,
di mente che non sa cosa pensare,
io sono ciò che azzera le parole
eppure le rinforza, e le fa uscire
sbattute come la schiuma di un mare
di potenzialità lasciate sole.
Un silenzio che parla, così come una parola che non dice nulla, sembrano dei risultati paradossali, almeno fino che non ci capita di seguire una campagna elettorale o di vedere una storia d’amore che finisce. E questo fatto dei paradossi mi ricorda che proprio ai paradossi ho dedicato trentadue sonetti raccolti in un libro che si chiama E tutto sembrò falso e sembrò vero che è uscito nell’estate del 2022 per Scienza Express, e che potete recuperare in libreria oppure nei punti vendita di libri online se volete. È solo in cartaceo.
Nell’ottobre dell’anno scorso ne lessi alcuni pezzi al Festival della Scienza di Genova: siccome ero agitata e non sapevo bene cosa avrei detto, durante il viaggio mi preparai altri quattro sonetti sui paradossi, che sono rimasti inediti. Ne lascio uno qui.
Appare differente ciò che vedo
da ciò che so; per questo mi confondo.
Eppure: stessa vita e stesso mondo,
quello nel quale comunque mi siedo
ad osservarmi ancora. Cosa credo?
Cos’è che temo: un abisso fecondo,
lo sgretolarsi immane dello sfondo?
Guardo, ricalcolo, stimo e poi cedo:
paure un poco disarticolate,
l’avvicinarsi di un nuovo valore,
legami altri, l’aspra pulsazione
di storie che credevo già narrate.
Un paradosso scardina il pudore,
e non so dargli torto né ragione.
Una prosa è una prosa è una prosa: il fiore
Il fiore fa parte della mia lunga e variegata serie di racconti di personaggi borderline, miti e silenziosi e innocui e radicalmente incapaci di inserirsi in società. Con ciò non vorrei dire che è una compulsione autobiografica, però senza dubbio si tratta di personaggi su cui è facile lavorare perché ciascuno ha sfumature particolari. Parafrasando Tolstoj, ciascun anormale è anormale a modo suo, e non è nemmeno detto - aggiungo io - che sia infelice. Il racconto si trova in Cronache da un paese ipotetico. Qui, dunque, la giovane Cornelia Settepani e le sue regole per tutto e il suo bisogno dei fiori recisi e i suoi disegni sui muri. È uno dei racconti a cui sono più affezionata.
Dalle alleanze provvisorie che si stringono tra gli abitanti di una piccola città la famiglia dei Settepani era sempre rimasta tagliata fuori. Si può pensare che vi fossero legami almeno al loro interno ma non è così, perché i Settepani sono tutti matti, inclusi i parenti acquisiti, e matti ciascuno in modo diverso, chi felice e chi no, comunque matti in modo tale che i rapporti si sbrecciano non appena provi a costruirli, un po’ come succede ai castelli di sabbia quando provi a farli con la sabbia asciutta. L’unica differenza in quella stirpe di schegge esplose era rappresentata dalla nonna e dalla nipote, che erano matte in un modo simile. La ragazza si chiamava Cornelia ed era più che altro una lunga bambina; non era brutta, aveva gli occhi spiritati, e so che aveva quindici anni perché fino a poco prima era stata in classe con mio nipote, il figlio di mia sorella, Giacomo, che ha appunto quindici anni anche lui, adesso. Questa Cornelia aveva due trecce marroni e dure come il legno. La notavi perché era l’unica di quell’età ad andare in giro con le trecce; non potevi dirle nulla perché sembrava tenerci moltissimo, se le lisciava con le mani fino a che non erano tutte unte, e poi cosa vuoi dirle, che i Settepani sono tutti matti?
Figure
Da Haiku in bianco e nero, 2023.
Oggi sentivo
voci senza presente.
Che meraviglia!
E per questa settimana è tutto. Arrivederci alla prossima!
Nel frattempo, potete fare un giro sul blog: Un’Altra Versione