Questa settimana Sillabe si occupa della ballata, antica forma della metrica italiana che prevedeva un testo accompagnato dalla musica; la ballata fa parte anche del repertorio poetico di altre culture e lingue europee, ma ci concentreremo qui solo sulla nostra. Celebre autore di ballate fu Guido Cavalcanti: in quegli anni la ballata ebbe fortuna come alternativa di pari livello della canzone, mentre in seguito assunse una connotazione più leggera. Nel De vulgari eloquentia Dante istituisce una sorta di gerarchia di valori che vede al suo apice la canzone, a seguire la ballata e infine il sonetto, che rispetto alle prime due forme ha una struttura obbligata. Sono state scritte ballate d’amore, ballate d’argomento religioso e ballate storico-politiche: qui in Sillabe teniamo invece conto del fatto che siamo nel 2023 e che ci piace la scienza, e la ballata parlerà di questioni biologiche di un certo rilievo.
Scatola di montaggio: la ballata
La ballata, insieme alla canzone e al sonetto, è dunque una delle forme canoniche della poesia italiana antica, una di quelle con cui si riteneva di poter riprodurre la regolarità della poesia latina. La ballata è un componimento fatto di strofe, come la canzone, ma come peculiarità presenta un ritornello, o ripresa, che è posto all’inizio del testo. L’ultimo verso della ripresa rima con l’ultimo verso di ciascuna strofa, o stanza, della ballata. La stanza della ballata è composta da due o tre mutazioni e da una volta, cioè una prima parte di due o tre rime ripetute e una seconda parte con una diversa scelta di rime. Si dirà ballata grande quella in cui la ripresa è di quattro versi (tre endecasillabi e un settenario, o quattro endecasillabi), ballata mezzana quella in cui la ripresa è di tre endecasillabi, o due endecasillabi e due settenari, o due endecasillabi e un settenario; la ballata minore ha una ripresa di due versi e la ballata minima ne conta uno soltanto.
La ballata che propongo qui è una ballata grande di soli endecasillabi. La ripresa ha schema ABBX; le stanze sono invece composte secondo la struttura CDCDDEEX. In futuro torneremo sulla ballata e ci saranno esempi di ballata mezzana, minore e minima.
Il tema, si diceva, ha a che fare con questioni biologiche, e parla di morte: sarà l’atmosfera autunnale! Ma entriamo subito nel dettaglio: l’apoptosi è una funzione di morte cellulare programmata e controllata geneticamente, ed è posseduta dagli organismi pluricellulari. In questo processo, le cellule interessate si smembrano, si strizzano perdendo acqua, si staccano dal contesto in cui sono inserite e vengono fagocitate dall’organismo, lasciando spazio alle cellule rimanenti - o, per dirla in modo più aulico, alla persistenza e al rinnovarsi dell’esistenza. L’apoptosi si verifica durante lo sviluppo embrionale e durante il corso della vita dell’organismo, talora anche come risposta a fenomeni di stress cellulare continuato: il meccanismo è tale per cui una cellula lesa “si sacrifica” per permettere alle altre di continuare a vivere. Il processo di morte, in questo modo, risulta incruento, a differenza della violenza della necrosi che deriva da un accidente improvviso e non gestibile: durante l’apoptosi il contenuto della cellula non viene riversato all’esterno e ciò permette di non danneggiare le cellule vicine.
Per chi volesse farsi un’idea un po’ più approfondita, consiglio la voce apoptosi a cura della Treccani.
Intanto, ecco qui la
Ballata dell’apoptosi
Ancora non so quasi cos’è vita
che tocca già spiegare cos’è morte:
immagino, un inganno della sorte
per farsi strada fuori dal dolore.
Che morirà, da solo, certo un giorno,
s’è detto d’ogni corpo che perdura
e d’ogni corpo che al nostro va intorno;
s’è detto d’ogni cosa di natura,
ed è mistero di cui mi do cura,
atrocità inconsulta della carne.
Si cerca una morale, poi, da trarne,
e non ce n’è: c’è soltanto stupore.
Stupore immeritato, devo dire;
ché d’ogni cosa che nasce è prescritto
che trovi un tempo ignoto per finire
e vi si getti dentro a capofitto.
È stabilito in sogno, nel diritto,
nel calcolo, nella filosofia,
è detto che sia il colmo di follia
a cui conduce, distrutto, l’amore.
Ma noi, che siamo infine grossi ammassi
di cellule decidue, proveremo
a dire altro di morte e trapassi:
di quella morte pertanto diremo
che spinge fino al limite più estremo
la cellula che già di sé capisce
quand’è che il tempo incredulo finisce:
e va e si strizza, si sforma e poi muore.
E muore per un gravido programma
di vita che prosegue, e altrimenti;
è l’inesausta pagina del dramma
di vita cellulare, di tormenti
muti di senso morale; fermenti
di vita che già replica se stessa
in ogni morte, in ciascuna promessa,
con noncurante e trepido rigore.
La cellula s’attiva per morire,
per sacrificio in un mondo comune;
s’appresta dunque a non farsi sentire,
lasciando il corpo altrove tutto immune
da quel dolore e da quelle fortune.
E noi che siamo corpo, impuri e grezzi
moriamo per programma a volte a pezzi,
ignoti d’un processo assolutore;
la cellula morente già si sfrangia,
si perde in tanti frammenti di sé,
e il corpo esterno la scioglie e la mangia,
e quel che c’era adesso più non c’è.
E tutto ricomincia, come se
la vita solo in questo avesse senso,
in un continuo silente compenso
di scambi interni d’urgenze e valore.
Chi va, chi resta un poco, chi poi viene
in cambio d’una sorte sconosciuta,
forma imperfetta di male e di bene,
di vita che si replica e poi muta.
Noi siamo questo, polpa deceduta
che poi si ripropone, amica e strana,
a far di sé esperienza ancora umana,
tempo rubato, quindi, e ulteriore.
Restiamo vivi intanto a blaterare
di spiriti, dell’anima bruciante,
di ciò che fraintendiamo nel cercare
altre risposte e domande, fra tante
nel corso di una nobile estenuante
voglia di vita di cui siam furiosi.
E invece siamo storia d’apoptosi,
di metamorfosi e calchi d’errore.
Una prosa è una prosa è una prosa: La pornografia delle grandi domande
Visto che siamo in tema di morte e di ripresa della vita, questa settimana propongo un racconto che fa parte di Cronache da un paese ipotetico. La signora Marta Lovison, recente vedova Masetto, in questa storia si comprerà un pesce rosso, Ninetto. E gli farà delle domande sulla vita e sul destino e sulle cose, e il povero Ninetto cosa avrà da rispondere, che è un pesce. Solo che poi il pesce diventa inquieto, e anche Marta Lovison diventa inquieta.
Non dirò come finisce, ma come comincia invece sì:
Dopo la messa per il trigesimo camminava a braccetto con la sua vecchia amica Fiorenza Cecchin e fu mentre svoltavano per via Dante, dove c’era la pasticceria in cui il suo defunto marito andava sempre a comprare dei dolci la domenica, che la vedova di Masetto decise che era arrivato il momento di cominciare a mettere via il lutto. Comprò per se stessa e per l’amica una pastina alla ricotta e, quando fu arrivata a casa, scrostò dal citofono la vecchia etichetta che si era ingiallita nel corso di trentacinque anni di matrimonio e ne appiccicò una nuova, bianca e verginale, con il suo nome per intero: Marta Lovison. E la vita continua.
Ma non era tipo da saper stare da sola, lei. La sua amica Fiorenza, per esempio, dopo il divorzio era rifiorita, aveva perso dei chili, tutti a dire quanto la solitudine le donasse, e giù a complimentarsi; ma lei, Marta, no. Era di un’altra pasta. Voleva bene all’amica, si conoscevano da tanti anni, le aveva dato una mano durante la malattia del povero Masetto (segno della croce), che il Signore lo accolga, ma proprio di stare sola Marta non se la sentiva.
Avrebbe avuto anche un figlio, a dirla tutta. Carlo era grande: ventotto anni lo scorso luglio, sembrava ieri che faceva da chierichetto, a suon di messe e fioretti lo aveva tirato su. E poi era andato via da un pezzo, buon per lui, naturalmente, a pensare che invece i figli della Fiorenza pro- mettevano di stare a casa vita natural durante; mentre il suo aveva fatto le valigie dopo la laurea in lingue, e se ne era andato a Londra, màriavergine. Tornava per Natale, e di tanto in tanto lei e suo marito (altro segno della croce) erano andati fino in Inghilterra a trovarlo, e avevano visto Londra e avevano fatto un sacco di fotografie.
Insomma, niente marito e niente figlio, Marta Lovison era a casa da sola, ormai. I primi tempi dopo la morte di Guerrino erano stati un avanti e indietro di burocrazia, che viene quasi da pensare che la burocrazia sia fatta per elaborare il sentimento di cordoglio: e vai in comune con l’atto di morte, e vai in banca a chiudergli il conto, e vai all’INPS a bloccargli la pensione, e corri in sindacato, e le carte della casa, e l’assicurazione della macchina, e fai venire Carlo giù da Londra, e ricordati di scrivere a tutti quelli che ti hanno mandato le condoglianze, e intanto lavora, che non puoi mica fare a meno, che tu in pensione ci vai fra quattro anni, che con i tempi che corrono chissà se ti ci fanno andare, in pensione, e corri e briga e fai, che alla fine si era quasi dimenticata di andare a cambiare i fiori sulla tomba del morto.
E poi, all’improvviso, era tutto finito, e si era ritrovata sola.
Figure
Da Haiku in bianco e nero (2023). L’immagine è una mia variazione della Tentazione di Adamo ed Eva, affresco quattrocentesco di Masolino da Panicale che è posto nella Cappella Brancacci a Santa Maria del Carmine a Firenze. Haiku in bianco e nero si trova in PDF gratuitamente sul mio blog Un’altra versione. Il cartaceo è disponibile su Amazon.
Com’era dolce
pensare di trovare
noi due da vecchi.