La sesta puntata di Sillabe si è occupata della canzone petrarchesca. Ma dai tempi di Petrarca la forma della canzone si è diversificata ed evoluta, e oggi cominciamo a tenere traccia di questi cambiamenti.
La canzone, in conformità alle sue origini, rimane una forma lirica composta da un certo numero di strofe, dette stanze, l’ultima delle quali è di solito più breve delle altre e prende il nome di congedo. A parte il congedo, le strofe hanno lo stesso numero di versi e le tipologie di verso stanno nello stesso ordine in ciascuna stanza. Le stanze possono essere a loro volta divise in fronte e sirima, come abbiamo visto per la canzone petrarchesca, o essere invece indivisibili. Il metro usato in genere non si discosta dai due grandi perni della poesia italiana che sono l’endecasillabo e il settenario.
Abbiamo avuto dal Cinquecento forme più irregolari; abbiamo avuto la canzonetta, in settenari, e la canzone-ode. Abbiamo avuto rifacimenti di Orazio e di Pindaro, e riprese moderne della canzone petrarchesca per esempio in Carducci.
Qui ci soffermeremo sulla cosiddetta canzone libera che, abbozzata dal drammaturgo Alessandro Guidi tra la fine del ‘600 e l’inizio del secolo successivo, fu poi resa grande da Giacomo Leopardi (che di Guidi aveva una pessima opinione, tra l’altro: lo giudicava un vacuo emulo di Pindaro, un poeta senza sostanza, capace solo di dare ai suoi tentativi poetici una patina formale corretta).
Da A Silvia in poi sarebbe quindi necessario parlare, più che di canzone libera, direttamente di canzone leopardiana.
Com’è fatta una canzone libera?
Scatola di montaggio: la canzone libera
La canzone libera ha le sue stanze di dimensione regolare, scritte in settenari e in endecasillabi, con una struttura fissa per ogni stanza. Su quale debba essere questa struttura, però, la scelta va a chi la scrive ed è una scelta, appunto, libera: ci si adegua al più alle esigenze espressive di partenza. L’importante è mantenere il vincolo metrico scelto all’inizio.
La canzone che propongo questa settimana gioca sui temi standard della poesia per come ce la si immagina: amore, pioggia, illusioni, fiori e natura. Ce n’è abbastanza per una bordata di banalità e melassa, e infatti la canzone si chiama Luoghi comuni, ma qui mi interessava, al solito, esplorare il metro.
Vediamo nel dettaglio.
Le stanze dispari hanno tutte una stessa struttura; anche le stanze pari ne hanno una comune, ma diversa da quella delle stanze dispari. Le stanze sono però tutte costituite da sedici versi, in endecasillabi e settenari, con qualche rima. La canzone si chiude con un congedo di otto versi.
Nelle stanze dispari il primo verso rima con l’undicesimo, il secondo col dodicesimo, e sono tutti endecasillabi. Il settimo è un settenario e rima con l’ottavo che è un endecasillabo. Il quattordicesimo è un settenario e rima col quindicesimo che è un endecasillabo. Il sedicesimo verso delle stanze dispari è un endecasillabo tronco che rima in -à.
Nelle stanze pari, il secondo verso è un endecasillabo e rima col terzo che è un settenario. Il settimo è un settenario e rima con l’ottavo che è un endecasillabo. L’undicesimo rima col dodicesimo, e sono entrambi endecasillabi, così come sono endecasillabi il primo e il quinto, che rimano fra loro, e il quarto e l’ultimo, parimenti in rima. Il congedo è di otto versi e, pur impiegando anch’esso soltanto endecasillabi e settenari, ha una struttura a sé stante: vi lascio scoprire quale.
Luoghi comuni
Ho visto gocce d’acqua venir nude
sopra di me che correvo per strada,
coi miei occhi di carta.
Pensavo, come da sempre si pensa
correndo senza voglia,
col fiato che dà il tempo alla ragione,
coi soliti miei passi
riuniti in dieci ammassi
di metri e poi di asfalto reso lustro.
Pensavo e mi parlavo, frastornando
la testa, che così ronza e si illude
di andare dove vuole che si vada
per ottimismo conforme o per noia.
E mi dicevo poco,
la selva d’illusioni resa gioco
dai tanti onesti colpi dell’età.
Tu eri, credo io, da qualche parte
attorno a me, non so per qual motivo;
ricordo amaro e vivo
che grande non diventa, ma costante.
Ti sopportavo, con vario mestiere,
tenendoti con me
come se fossi scorza
di quello ch’è rimasta la mia forza:
intarsi d’abitudine salata,
la preferenza di una compagnia,
la voglia di trasmettere all’ingrosso
dei pezzi di futuro privi d’osso,
fatti di carne e nervi, fragorosi,
adatti eternamente a rimestare
un impreciso numero di carte
su cui ho scritto un passato assordante.
La pioggia è un ornamento banale
dei miei pensieri e quindi della corsa,
e tu lo sei già pure.
Un’illusione fuori dal comune
ci rese grandi insieme,
e non lasciò nient’altro da inventare:
rimangono deserte
le ultime scoperte,
di certo utili e già ripugnanti,
feconde come solo sanno essere
i frutti acerbi del mondo reale.
E la ragione nostra è poi trascorsa,
sacra e perduta in mezzo alla natura
di tutte queste cose
ai cui discorsi nessuno rispose:
o io non lo intesi, o tu, chissà.
Adesso guardo intorno, ché credevo
che non ci fosse davvero nessuno
sopra l’asfalto bruno,
e invece la città viva formicola.
Leggi felici del moto dei corpi,
botti caotici muti.
Come arsi nei mari
i lumi soli e avidi dei fari,
così spiccavano ignobili i sogni
che ancora avrei voluto forse avere:
morenti, salme senza carapace
di bestie, in cui nessuno trova pace.
Di questa corsa, e pioggia, come un vezzo
purtroppo necessario faccio uso:
mi avvolgo in loro, trovando sollievo,
scambiandole per metri di pellicola.
Tu corri sotto il sole, dico io;
un fiore inoperoso che scompiglia
il prato incatenato
ai ritmi della propria biologia,
sporco di pioggia mai.
E poi sotto di te si ricompongono
degli angoli più bui,
e tiepidi e altrui,
limpidi odori passati lontani,
simili a noi in tutto ciò che non conta.
Ricordo il loro caro borbottio,
il loro suono ingrato di famiglia
adesso morto indifeso, di nebbia
sonante e senza trama.
Sarà così per chiunque si ama,
mi dico e corro ancora, qua e là.
La storia che la pioggia mi racconta
è quella d’ogni ora e d’ogni gente:
pezzi d’amore e niente,
è quella d’ogni sfrenato incapace
e quella d’ogni illusa incerta e bella,
ultimo covo d’ansia,
luce d’un altro cielo
che venga sghembo, o almeno parallelo.
Non voglio storie di questa innocenza,
o pioggia, o sole, o fiori disarmonici,
o dei lamenti privi di rimorso,
o i metri sopra i quali ancora ho corso,
o dei tumulti vuoti, o del silenzio
scuro, animale, sciatto e commediante,
che posa ovunque infantile l’impronta
finché perfino il tempo urla e tace.
E non ho corso mai, nemmeno piove,
tu non esisti, nemmeno dovresti,
non sei che un dormiveglia, iconoclasta
mi rendi senza posa.
Un fatto di costume,
tu sei l’attesa del vento sul fiume,
tristezza folta che non si consola
di averti immaginato.
Una prosa è una prosa è una prosa: Ripresa
Giacché s’è parlato di canzoni, presento un racconto che fa parte di Cronache da un paese ipotetico e che si basa su vicende reali. Ossia si basa sulla storia di due anziani vicini di casa di mia madre, tanto (o poco?) tempo fa, e sul pianoforte che suonava dalle loro finestre, e sull’età che avanzava, e sulla memoria che si perdeva, e di una malattia e di una ripresa e poi… mica posso dire come va a finire. Il racconto si chiama, appunto, Ripresa.
Se gli altri inquilini avevano registrato mentalmente la mia presenza di ospite, loro due invece non ci avevano quasi fatto caso, mi vedevano come si vede una pianta. Non davano confidenza a nessuno, ma non si può dire che fossero scontrosi o cattivi. Erano vecchi. Tra di loro parlavano molto: il caschetto a campanula di capelli grigi di lei si girava verso la testa giallognola di lui e allora il collo di lui si torceva e le orecchie con dei lunghi peli bianchi, da coniglio, si accostavano alla bocca di lei; e poi facevano di sì o di no con la testa e si scambiavano sorrisi, o qualcosa che io ipotizzavo, in mezzo a tutte quelle rughe, essere dei sorrisi. Siccome non davano segno di accorgersi in modo umano della mia presenza avevo preso a interessarmi a loro più che a tutti gli altri vicini. Era un mio puntiglio. Avevo cominciato a interrompere le mie sedute di lettura e riscaldamento del ginocchio per procurarmi informazioni; con discrezione, perché non volevo che i vicini pensassero che m’impicciavo della vita degli sconosciuti, e avessero da ridire sulla mia razza straniera o, peggio ancora, cominciassero a loro volta a prendere informazioni su di me, che ho una vita talmente piana e tranquilla che potrei destare sospetti atroci in qualsiasi paranoico, e non si sa mai quanti paranoici possano esserci in giro tra le persone che incontri e che fino a un momento prima si disinteressavano totalmente di te e ti avevano registrato soltanto come una presenza educata e di poche parole. Muovendomi con tutte le cautele del caso, quindi, avevo ottenuto a grandi linee quel che mi interessava. Il vecchio con l’impermeabile era un insegnante di pianoforte in pensione; della vita della moglie non mi era riuscito di ottenere notizie precise, se non che veniva da una città dell’est dove aveva ancora una sorella più giovane con la sua famiglia. Non avevano figli.
Alle nove in punto lui si sedeva al pianoforte e cominciava a suonare, tenendo la finestra aperta per fare entrare la prima brezza serale. Si diceva che, oltre ad insegnare al conservatorio, fosse stato un buon concertista. Una volta lessi il suo nome sul citofono e poi andai a cercare delle sue registrazioni; se mai ne aveva fatte, non ne era rimasta traccia, e così quello che usciva dalla finestra era tutto ciò di cui potevamo disporre, noi vicini, e includo anche me che ero ospite, per farci un’idea di lui al di là del suo impermeabile spiovente e dei sacchetti di stoffa con la spesa del negozio di alimentari, bottiglie di latte e scatolette e pane ai semi di girasole.
Cominciava con una serie di esercizi noiosi per verificare tecnica e scioltezza delle dita. I preliminari andavano avanti per qualche minuto, il più delle volte tendeva a tirar via in chiusura, affrettandosi. Poi si interrompeva per qualche istante; forse parlava con la moglie.
Figure
Da Haiku in bianco e nero (2023)
Città che muore
irregolare cresce
sui propri suoni.
La settimana prossima parlerò di una struttura metrica in quartine incatenate che ho utilizzato per un progetto personale. Sarà l’occasione per presentare il poema che con quella struttura ho scritto, e che rappresenta un punto di arrivo per il mio lavoro. Dopo di questo, credo che non mi cimenterò in progetti così lunghi per molto, molto tempo. Ho detto molto? Avrei dovuto dire moltissimo!
Nel frattempo, grazie per aver letto fin qui; ricordo sempre che sul blog Un'altra versione c’è un sacco di materiale vecchio e nuovo.