Questa settimana e la prossima Sillabe si occupa della sestina lirica. Ho scelto di suddividere il lavoro per non appesantirlo troppo: in ciascuna delle due parti sarà dato un esempio originale di una struttura poetica, la sestina lirica appunto, che è all’apparenza estremamente macchinosa, ma che può essere usata con una certa delicatezza.
Scatola di montaggio: la sestina lirica / 1
La sestina lirica, o canzone-sestina, nasce nella poesia provenzale con Arnaut Daniel, italianizzato in Arnaldo Daniello, poeta e trovatore che scriveva in lingua occitana e che era considerato da Dante uno dei massimi esponenti della poesia dell’epoca. Nella Divina Commedia figura nel Purgatorio tra le anime dei lussuriosi e gli è riservata parte del canto XXVI, in cui si esprime direttamente nella sua lingua:
El cominciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. 141
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. 144
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor1!" 147
La sestina lirica troverà poi fortuna in Petrarca - che nel Canzoniere ne scrisse nove, di cui una doppia - e in tutta la poesia europea, spingendosi rara ma indomita fino alla poesia contemporanea.
Come è fatta una sestina lirica? È un componimento di sei strofe (o stanze) in endecasillabi, chiusi da un congedo di tre endecasillabi. La peculiarità sta nelle parole finali di ciascun verso: sono solo sei, che si ripetono con diverse permutazioni lungo le sei strofe, e ritornano poi, due per ogni verso, nel congedo. Si comincia semplicemente scegliendo un ordine per le sei parole, che chiamiamo parole-rima, ABCDEF. Dopodiché le permutiamo secondo una regola fissa: nella seconda strofa avremo, nell’ordine, che i versi dal primo al sesto sono quelli che nella stanza precedente erano il sesto e il primo, poi il quinto e il secondo, poi il quarto e il terzo: la seconda strofa cioè avrà la struttura FAEBDC. Se vi torna meglio coi numeri, 123456 diventa 615243. Alla strofa seguente ripetiamo il procedimento, e facciamo così fino ad arrivare all’ultima strofa, quando dovremo prepararci per il congedo.
Chiarissimo, no? Siccome anche a me si sono annodate le dita per tenere il conto, lo scrivo per esteso che è meglio.
La struttura completa della sestina lirica è questa: ABCDEF-FAEBDC-CFDABE-ECBFAD-DEACFB-BDFECA. Seguendo le regole della permutazione, un’eventuale settima strofa avrebbe di nuovo la forma ABCDEF! C’è poi il congedo, in cui le parole-rima sono distribuite nei tre versi una all’interno e una alla fine, secondo uno schema del tipo BA-DF-EC (che è quello che vedrete qui sotto) o similari. La struttura prende il nome di retrogradatio cruciata.
Una curiosità: da dove deriva la regola della permutazione delle parole-rima? È noto che Arnaut Daniel avesse un debole per il gioco dei dadi, e la corrispondenza 6-1, 5-2, 4-3 è la stessa dei numeri segnati sulle facce di un dado da gioco. Il modo di comporre i versi in una stanza a partire da come erano messi nella stanza precedente non è dunque un caso, con ogni probabilità, anche se qualche critico ha sollevato dubbi sulla correlazione.
La struttura della sestina richiama altri concetti, anche questa volta riguardanti la matematica. E qui interviene un aneddoto personale. Per uscire da un periodo in cui avevo la gommapiuma in testa e un alone di depressione umidiccio scatenato dalla fine della stesura della prima parte di Teoria dei canti, nella primavera del 2017 mi misi a seguire un MOOC sulla teoria di Galois. Nata da considerazioni squisitamente algebriche, come la risoluzione per radicali di equazioni di grado superiore o uguale al quinto (che si dimostrerà generalmente impossibile), la teoria fa anche un sacco di altre belle cose, come porre in relazione campi e gruppi. Il punto cruciale è che, se una equazione a coefficienti razionali è soddisfatta da un certo numero di radici, qualsiasi equazione algebrica soddisfatta da quelle radici rimane soddisfatta una volta che le radici vengano permutate fra di loro.
La possibilità di permutare oggetti non poteva non richiamarmi alla memoria la sestina lirica, ed ecco quindi la mia versione della sestina lirica dedicata alla teoria di Galois2. Le parole chiave sono: muta (A), piano (B), forma (C), insieme (D), sente (E), mondo (F).
Le sei strofe si articolano in tre temi, anche se sviluppano un unico discorso: la prima e la sesta strofa parlano del numero, la seconda e la quinta del mondo, la terza e la quarta d’amore3. La chiusa finale, nel congedo, è come la morale della favola: si fa perché ci vuole, e comprende di tutto un po’.
E vedo un gruppo che in campo si muta
e il divagar d’un numero, giù, piano,
e il rivoltar che invariato si forma
del prendere radici, tutt’insieme
sicché per caso tra i corpi si sente
il primitivo elemento del mondo.
È un fatto antico, stranissimo il mondo
che il numero ci fa, di lingua muta
e pur che tutto, pervaso, si sente
dentro lo spazio, sopra d’un piano
nell’aggrapparsi al concetto d’insieme,
nel reggere del cielo senso e forma
e quindi si rinchiude. Mi si forma
un colpo stretto d’amore del mondo
che me con queste leggi vuol insieme
e vuol di sé vedersi corpo e muta
mentre la vita gli passa, pian piano,
fin dove la sua forza se la sente;
e quale amor si grida, dice e sente,
e ora è contenuto, e quindi forma,
improvvisato adesso, oppure piano
per far del caos dolcissimo nel mondo,
voce narrante d’accolita muta
che alfin si sogna di vivere insieme.
E malridotto, costretto d’insieme,
vedo ed osservo, per come si sente
e come si presenta, vivo, muta
pur trattenendo di sé questa forma,
nei numeri l’usato, amico mondo
ch’è liscio, squadernato, vòlto e piano
e il numero lo narra, lento e piano
e, dice, si fa classe, gruppo, insieme,
sì quasi che del corpo fosse mondo;
ma in calcoli si finge, lo si sente
sconvolgere la terra; e qui la forma,
la vede, la descrive, poi la muta.
Parola, tu che piano ti fai muta
raccontami l’insieme di quel mondo
che d’algebra si sente peso e forma.
La sestina lirica ritorna la settimana prossima, in un numero di Sillabe in cui si dirà qualcosa in più sulla fortuna della sestina. Adesso invece ritornano le consuete sezioni Una prosa è una prosa è una prosa e Figure, che la settimana scorsa si erano prese una vacanza forzata a causa dello straripare delle quartine incatenate di Forme e discorsi di oggetti e persone. (Lo state leggendo? Zia Guidalberta è contenta?)
Una prosa è una prosa è una prosa: Contagio
Siccome scrivo queste righe il giorno dopo aver fatto il richiamo della vaccinazione antinfluenzale, il pezzo in prosa di cui parlo oggi è un racconto che si chiama Contagio e che fa parte di Cronache da un paese ipotetico (trovate su Amazon anche quello). La storia racconta di un misterioso anacronismo rinvenuto altrettanto misteriosamente in una biblioteca e scritto da mani ancor più misteriose. Giusto per sovrabbondare con i clichés letterari.
Questo è l’inizio.
La strana vicenda che devo raccontare ha avuto origine nell’estate del 1963 quando, da poco salito in cattedra, fui chiamato dalla mia Aberdeen a compiere per lavoro un viaggio in Svezia. Intrapresi l’avventura col mio giovane assistente Paul Manson, che era elettrizzato quasi quanto me. Avevano trovato lo scritto in calce ad una vecchia edizione degli Arcana Coelestia pescata dalla biblioteca dell’università di Lund, dove ci eravamo recati in visita al Professor Martin Bjurman, che ci lavorava come fisico matematico; alcune annotazioni in svedese si infilavano in mezzo ad un elaborato scritto in un latino scabro ma corretto. A differenza del libro di Swedenborg, il testo che vi era stato aggiunto a mano sembrava essere relativamente recente: da una frase rimasta incompiuta sul margine sinistro che si riferiva al primo ministro Tage Erlander e al Re Gustavo V fu possibile datare la composizione tra il 1946, anno in cui il primo assunse l’incarico, e il 1950, anno della morte del secondo. Se ve ne fosse stato lo spazio, lo si sarebbe ritenuto l’abbozzo di una lettera, o l’intenzione di scriverne una, direttamente al re e al primo ministro in carica. Messi lì senza altri riferimenti, però, erano solo due nomi come due steli funerarie sulla carta, due invocazioni ai destinatari di un messaggio che era stato invece sepolto tra le pagine del libro di uno scienziato e mistico del diciottesimo secolo. L’intero lavoro, compresso in una calligrafia elegante e piccina, occupava in tutto due pagine.
Figure
Quattro settenari in rima incrociata.
Scrivevo in settenari
il mondo permutando,
invano ricercando
significati pari.
Riecheggia l’incipit della canzone Tan m'abellis l'amoros pensamen di Folchetto da Marsiglia, trovatore, monaco, poi vescovo di Tolosa e crociato contro gli Albigesi. La vendetta catara gli deve essere arrivata postuma, perché è venerato come beato il 25 dicembre, giorno in cui di lui ormai si ricorderà probabilmente solo qualche cistercense occhiuto e pedante. Dante lo mette in Paradiso, nel cielo di Venere. Torniamo per l’appunto ai versi in cui l’Alighieri fa parlare Arnaut Daniel:
Cortese il domandar vostro mi garba,
tanto che qui celarmi a voi non voglio e posso.
Arnaldo son, che piango e vo cantando;
l’antica mia follia contemplo triste,
e lieto vedo innanzi il dì che spero.
Vi prego adesso io, per quel valore
che al sommo della scala vi conduce:
del mio dolore vi sovvenga a tempo!
(La versione italiana in endecasillabi è mia. Il folor, che ho molto liberamente tradotto come follia, è un termine occitano che, nella poesia provenzale, designa l’amore sensuale, ed è qui contrapposto allo joi, il lieto dì della grazia e della virtù. Arnaut Daniel si trova, come si diceva, in Purgatorio fra i lussuriosi, e attende il giorno in cui finirà di scontare la sua pena.)
Ah! Se avete letto, o avete intenzione di farlo, il mio Teoria dei Canti (su Amazon in cartaceo o ebook), a Galois e alla sua teoria è dedicato un canto intero, il diciassettesimo della seconda parte, e da lì estraggo:
Ancora resta un boccio di parole
che dalla sua coscienza s’alza e frana, 69
e parla, disperato, come vuole:
del fatto che la mera trascendenza
d’un numero fa sì che non si suole 72
doppiare un cubo o darsi la parvenza
d’un cerchio che in quadrato si sviluppi;
mi dice, la sconfitta adolescenza, 75
col cuore e gli occhi già pesanti e zuppi
di sangue e d’un concluso calendario,
ch’ebbe la voglia, tra i campi ed i gruppi, 78
di dare un inaudito dizionario.
Mi permuta radici e soluzioni
e tutto mi balbetta il suo breviario, 81
immerso nelle lunghe successioni
di gruppi risolubili, fra i tanti
che vede nelle decomposizioni; 84
s’avanza a calcolare gl’invarianti.
Ho scelto in questa occasione di far seguire la regola delle coppie 6-1, 5-2 e 4-3 anche agli argomenti e non solo alle parole-rima.