Settimana dedicata a una autentica rarità, e che arriva sulla scia del numero 9 che ha caratterizzato il novenario della puntata precedente. Oggi infatti si parla di nona rima. Ma ci saranno anche delle novità nelle altre sezioni della newsletter: Una prosa è una prosa è una prosa si occuperà di un componimento che è sia prosa che poesia che narrativa che finto saggio, insomma un intruglio informe indefinibile ingegnoso, e infine Figure cederà spazio a una nuova rubrica.
Ma procediamo con ordine.
Scatola di montaggio: la nona rima
La nona rima è un componimento strofico, cioè fatto da una strofa, la quale a sua volta è costituita da nove endecasillabi secondo le rime ABABABCCB: possiamo dire di avere dunque tre piedi uguali, AB, e una sirma CCB.
Nella poesia italiana la nona rima si trova in un singolo testo anonimo toscano del XIII secolo chiamato l’Intelligenza; verrà poi riportata in vita molto tempo dopo da Giusti, Marradi e D’Annunzio, in un’operazione volta a recuperare antiche forme. La usa anche Pasolini, ma con qualche libertà: gli endecasillabi sono irregolari e talvolta alle rime si sostituiscono le assonanze.
Come si presenta una nona rima? Del metro si è detto, ma un esempio pratico ci vuole comunque. Siccome è rara, facciamola parlare di rarità:
Com’è che definisco ciò ch’è raro?
È solo una questione di frequenza?
O va con ciò che stenta, e ch’è più caro,
con ciò che si dissolve all’apparenza,
con ciò ch’è fragile e cerca riparo
in me, o che nasconde la presenza
per qualche timidezza, e di se stesso
invece pensa d’esser stato spesso,
o ch’è con noi eppur ne siamo senza?
Siffatte domande meritano risposta, e quindi tocca scrivere un’altra nona rima.
La rarità, già oggi come ieri,
s’appunta, con dolente irrequietezza,
a ciò che tocca i nostri desideri,
al loro farsi eterna incompiutezza
che poi così s’attanaglia ai pensieri.
La rarità si cerca e si disprezza,
adesso s’avvicina e poi si toglie;
e, come ciò che compone le voglie,
è fatta intera solo quand’è mezza.
Una prosa è una prosa e anche molto altro: Dell’eterno titillare
Visto che parliamo di rarità, eccoci dunque a rispolverare un vecchio pezzo su una cosa talmente rara da essere inventata. Dell’eterno titillare - apologia di Clitoride di Atene è un finto saggio che scrissi nel 2011 per puri scopi di cazzeggio, o un divertissement come dicono le persone più eleganti. Parla del grande cliché del manoscritto ritrovato, proprio come quelli che si trovano a Saragozza o che sono stati scritti dagli Anonimi del Seicento per parlare di due che si sposano in tempi di peste; e questo manoscritto ritrovato contiene parte dell’opera del più fondamentale e misconosciuto filosofo dell’antichità classica, l’ateniese Clitoride, contemporaneo di Platone che ovviamente su di lui non scrisse nemmeno mezza virgola, ma che dico, un dialoghetto, due battute, niente.
Siccome all’epoca avevo voglia e forza di cazzeggiare per bene, ci feci anche un video.
Di che cosa parla Dell’eterno titillare? Delle vicende del manoscritto durante il corso dei secoli, e del misterioso influsso che ebbe sui filosofi che ancora studiamo, nonostante il nome di Clitoride di Atene sia sparito nelle nebbie del tempo.
Comincia così:
1. Di come tutto è cominciato da un palinsesto
“Rispondo dicendo che la causa del male è il bene, nel modo in cui il male può avere una causa: infatti bisogna sapere che il male, di per sé, non può avere causa...”
La trattazione sul male o, in latino, la Quaestio disputata de malo, occupa la prima parte di un palinsesto rinvenuto nel monastero benedettino di D. che abbiamo da poco ricevuto in prestito dopo una serie di trattative di cui daremo cenno alla fine di questa narrazione, ma che sarebbe troppo lungo raccontare per esteso perché metterebbero a rischio le ambizioni di carriera di più di una persona. Il ritrovamento è stato del resto molto avventuroso: si è trattato di una caccia al tesoro durata decenni, i cui protagonisti si sono ripetutamente ingannati anche senza conoscersi l’un l’altro perché vissuti in epoche diverse. A noi è toccato il privilegio (e la fortuna) di raccoglierne i frutti.
Prosegue poi con un sacco di personaggi irrequieti e affascinanti, dal monaco medievale Gaudino da Copula, a Lubrico di Cunnisburg, al filosofo idealista Georg Friedrich Döderlein che scrisse il suo fondamentale Erster Entwurf einer Phänomenologie des Klitoridismus per introdurre il concetto di Dissoluto.
Tutta l’opera (è un centinaio di pagine, ci sono anche le illustrazioni) è disponibile in pdf cliccando qui.
Calicanto
E qui invece comincia una nuova rubrica. Il calicanto invernale (Chimonanthus praecox) è una pianta cara alla poesia persiana ma, in questi lidi, cara soprattutto alla mia infanzia. C’era questo alberello profumatissimo vicino a casa mia e d’inverno quando passeggiavo con mia madre lo sentivo da lontano. Mi è rimasto così attaccato come immagine di ciò che mostra la sua bellezza anche quando non ci si aspetta di vedere fiori in giro e di sentirne profumi, come sorpresa piccola ma fondamentale.
Calicanto è anche il nome che ho dato a una silloge di poesie a tema invernale che sta al momento cercando strade editoriali (e probabilmente non le troverà). Da questo numero di Sillabe, e fino all’arrivo della primavera, sarà dunque mio compito lasciare qui una delle poesie di Calicanto, con qualche nota metrica di contorno.
Endecasillabi sciolti, con due settenari usati per spezzare il ritmo e accelerare improvvisamente.
Aprivo la porta
Velluto lineare grigio argento
è la mia vita sociale stanotte:
m’incanta l’eleganza del non detto,
la faccia mia abusata dal sorriso,
l’economia dei gesti
che imparo antichi, pallidi, di vetro,
e tutto mi somiglia.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
E con questo è tutto. Per la prossima settimana si farà il verso al Giappone: chi non ha mai scritto un haiku in vita sua, in fondo?