Introduzione
Sillabe oggi parla di versi parisillabi e imparisillabi, e si concede poi alcuni esercizi di stile. Al solito, in Sillabe dopo l’introduzione ci sono tre sezioni: Scatola di montaggio, che contiene una spiegazione di come funziona una certa struttura metrica (il sonetto, la ballata, eccetera) e qualche esempio scritto da me per l’occasione. Le altre sezioni sono Una prosa è una prosa è una prosa, che parla di miei vecchi lavori in prosa e Figure, in cui si espone un brevissimo componimento poetico (un haiku, un distico, una quartina…) scritto&illustrato da me.
Sillabe pubblica contenuti nuovi ogni venerdì, salvo eventi di forza maggiore.
Scatola di montaggio: versi parisillabi e imparisillabi
La musicalità di un verso dipende dagli accenti interni, ma in primo luogo dal numero di sillabe metriche che lo compongono. Questo numero può essere pari o dispari: avremo dunque versi parisillabi come il quaternario, il senario, l’ottonario o il decasillabo e versi imparisillabi come il quinario, il settenario, il novenario o l’endecasillabo. Versi più lunghi, di dodici, tredici o più sillabe, esistono ma sono usati raramente, spesso come unione di versi più brevi.
All’interno dei versi ci saranno poi accenti interni obbligati (quello sulla penultima sillaba, che definisce il tipo di verso) e altri più o meno comuni.
Ricordiamo infine a tal proposito che il numero di sillabe metriche di un verso è legato a dove cade l’accento sull’ultima parola: se la parola è piana, come perlopiù accade in italiano, il verso che chiamiamo di N sillabe ne avrà effettivamente N, ma se la parola è tronca ne avrà N-1, e ne avrà N+1 se la parola è sdrucciola.
La differenza principale tra i versi parisillabi e quelli imparisillabi è che quelli pari risultano all’orecchio molto più ritmati e cantilenanti, e si prestano pertanto molto di più allo scherzo, alla marcia, alla filastrocca. Essi hanno infatti gli accenti interni generalmente in posizione fissa.
Per farsi un’idea della loro orecchiabilità, ma anche della loro relativa scarsa duttilità, basti pensare ai quaternari (piano e tronco) di vengo anch’io / no, tu no,
o ai senari (piani) di: La vispa Teresa, Fratelli d’Italia, Sapore di sale (sì, si possono cantare in sostituzione l’uno dell’altro).
Se andiamo a pescare nei libretti d’opera gli ottonari si sprecano. Qui ne vediamo di piani e di tronchi: Bella figlia dell’amore / schiavo son dei vezzi tuoi, per esempio, dal Rigoletto, o Di Provenza il mar, il suol / chi dal cor ti cancellò, dalla Traviata.
E nel decasillabo piano manzoniano S’ode a destra uno squillo di tromba non sembra forse di sentirla suonare, quella tromba?
(Potete cantarla sul tema di Lady Oscar, è un decasillabo anche Grande festa alla corte di Francia.)
Anche per quanto riguarda il decasillabo si possono trovare brani celebri tratti dall’opera: Di quella pira l’orrendo foco, Cortigiani vil razza dannata, Questa o quella per me pari sono.
Nei versi parisillabi c’è enfasi, c’è sentimento. Non si ragiona molto, coi versi parisillabi. È con quelli imparisillabi che la poesia si stacca dalla cantilena e comincia ad articolare un discorso. Certo, un quinario può essere incalzante:
Sul ponte sventola / bandiera bianca. Anche qui, il primo verso ha sei sillabe ma contano come cinque perché la parola “sventola” è sdrucciola.
Un novenario, che ha gli accenti interni a intervalli regolari (seconda, quinta, ottava sillaba, o più raramente terza, quinta, ottava), richiama quasi il ritmo di un verso pari: Dante direbbe I’ vidi a voi donna portare / ghirlandetta di fior gentile.
Ma è con il settenario e l’endecasillabo, non a caso i metri storicamente più utilizzati della poesia italiana, che le potenzialità semantiche e musicali cominciano a schiudere interi universi, anche perché gli accenti interni sono molto più vari e liberi.
Ok, io abuso di endecasillabi e settenari e magari sono di parte. Però eccoli messi insieme, da Leopardi nel caso, e si può quasi sentire la musica che straripa da ogni singola cesura: Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / Di mirar queste valli?
E allora, che tipo di verso usare? La scelta dipende da ciò che si vuole esprimere e dal modo in cui si intende farlo: è come la scelta del soggetto e dell’inquadratura in fotografia, con la differenza che una fotografia ferma il tempo, una poesia lo attraversa e lo incarna.
Qui vorrei proporre dunque un esercizio di stile: immaginare una breve scena e raccontarla in quattro metri diversi, due parisillabi e due imparisillabi. Ogni componimento conta dodici versi. Non c’è rima; o meglio, c’è qualcosa nell’ottonario, perché l’ottonario è davvero una bestia, ti fa canticchiare anche se non vuoi, si tira addosso i versi tronchi e la struttura da filastrocca. Per questo sono uscita dai suoi soliti vincoli, che prevedono accenti interni sulla terza e sulla settima, o al più sulla prima, sulla quinta e sulla settima, e ho scelto qua e là soluzioni più moderne, come l’accento sulla quarta e sulla settima. Non voglio dilungarmi ora, però, perché nelle prossime puntate di Sillabe parlerò nel dettaglio di ciascun tipo di verso.
La scena intanto è questa: stanza d’albergo, una coppia che contempla la fine di una vacanza. Tutto somiglia a tutto, si somigliano gli oggetti, gli alberghi, le persone; e quindi è una scena eterna, almeno per quanto riguarda l’eternità umana, che è l’unica eternità a essere finita e limitata.
Settenario
Noi due, lasciati liberi
domani, in questa stanza,
colmi d’attrezzatura
che già ci definisce:
la stanza e così noi,
tutto somiglia a tutto,
parole altrui raccolte
nei manoscritti lenti
d’insipide lenzuola.
Noi due che ripartiamo,
e quest’eternità
che finirà domani.
Ottonario
Noi qui colmi di valigie,
da queste ormai definiti:
che partiremo domani
ciascun di noi forse sa.
Ne parleremo stanotte,
con le parole di un altro,
con le parole di un’altra,
simili a tutte di già.
Le lenzuola ci hanno detto
eternità sovrapposte
che finiranno comunque
con ciò che tempo non ha.
Decasillabo
La partenza fissata domani
liberati ci rende stanotte;
le valigie che sono già pronte
quanto sanno spiegare di noi?
Ogni oggetto del resto somiglia
a quel mondo che resta e che va;
all’ammasso dell’umanità
noi così siamo simili, pure.
Suona in ombra tra letto e lenzuola
la parola che detta verrà
da chiunque si scopra a contare
quest’eterno che adesso finisce.
Endecasillabo
Domani poi si parte; andare via,
ancora definiti dalla stanza,
dalle valigie nostre, nude e piene
d’oggetti a tutto il resto somiglianti,
così come noi qui, simili al mondo
che passa e vive in stanze uguali ancora.
Rimangono stanotte le parole
a tratti scritte sopra le lenzuola
dai corpi di chiunque sia passato,
e quindi da noi due, che ripartiamo,
costretti a ricordarci di un eterno
che finirà domani senza posa.
Una prosa è una prosa è una prosa: breve storia di una storia breve
E qui alzo le mani, che mi sono già ingarbugliata coi titoli. Restiamo nell’ambito delle variazioni sul tema. Breve storia di una storia breve fa parte di Cronache da un paese ipotetico ed è un succinto e lapidario racconto umoristico su uno scrittore, o apprendista tale, che è intento a comporre una storia breve e gli tocca pertanto essere aiutato dai fantasmi di Carver, Kafka, Poe, Hemingway, Čechov e Borges, introdotti da Febo Apollo in qualità di referente poetico delle Muse.
Borges si compiacque. “Dicevo, ho percepito la crisi di quest’uomo, e sono intervenuto. L’ho visto re, l’ho visto sacerdote e schiavo, smarrito nelle minuzie delle sue vicende. Mi dica” disse, rivolgendo gli occhi quasi ciechi allo Scrittore “Lei legge, mi figuro. Lei coltiva quel morbo rigoglioso che è l’immaginazione.”
Lo Scrittore quasi crollò in ginocchio: “Sì, sì!”
Borges allora: “E dunque, vi si appigli. Conoscerà per certo che v’è, nella genesi della dinastia Han-Pûkh, una sto-ria che rimanda alla sua, mio caro amico. È tràdita nell’opera Irenea o Dei sogni caotici di Marcel de Saint-Palanche, un oscuro libercolo che trovai un giorno nella vecchia villa della famiglia dei Maravan a Abbey-sur-Mer, in un vetusto baule dai colori screziati dei tegumenti della passiflora e che odorava delle mani mai guardinghe dei doganieri. Essa parla di un giovane principe ereditario, un uomo dal cuore di serpe consacrato alla protervia, per cui la vanità e la corruzione erano parte di quel processo inaccessibile ai sogni umani che...”
“Complicato” mormorò lo Scrittore, ingarbugliandosi con la penna mentre cercava di prendere appunti; alternava momenti di estasi ad altri di scoramento e già a ‘passiflora’ si era perso.
Figure
La poesia che segue, inedita, ha per soggetto il cielo di primavera. Rimane fedele al tema di questa puntata di Sillabe, cioè l’indagine sui vari tipi di verso, e ne usa tre: un quinario, un endecasillabo e un settenario, nell’ordine. Insomma, potevo anche definirla come “tre metri sopra il cielo”. Letteralmente.
Nuvole sparse
fatte di grembi di pioggia incompiuta
predavano profumi
E per questa settimana è tutto. Alla prossima! Nel frattempo, qui c’è il mio vecchio blog: Un’altra versione