Puntata breve, per quanto riguarda la Scatola di montaggio, e con l’incursione di un haiku al posto delle Quartine al bar in occasione del 25 aprile (che era ieri, ma va bene lo stesso.) Oggi Sillabe parla del decasillabo.
Scatola di montaggio: il decasillabo
Verso parisillabo e ritmato, il decasillabo è un verso in cui l’accento obbligato cade sulla nona sillaba metrica. Gli accenti interni sono solitamente fissi e disposti sulle sillabe 3 e 6, dando al verso nel suo complesso una struttura solida e regolare e tripartita, 3-6-9. Talvolta, invece, il decasillabo compare come doppio quinario.
È scritta in decasillabi la più antica canzone della poesia italiana, anonima, che si trova nella cosiddetta pergamena ravennate; non si sa quasi nulla della sua composizione originaria, si sa solo che era musicata, che la sua trascrizione su pergamena risale alla fine del XII secolo o all’inizio del XIII, e che ha un’impronta riconducibile a schemi e temi della poesia provenzale, anche se il verso corrispondente provenzale, l’enneasyllabe, è piuttosto raro. La prima strofa comincia così:
Quando eu stava in le tu’ cathene,
oi Amor, me fisti demandare
s’eu volesse sufirir le pene
ou le tu’ rechile abandunare,
k’ènno grand’è de speranca piene,
cun ver dire, sempre voln’andare.
[…]
Il testo completo - o meglio, quel che resta del testo completo, perché la pergamena è a tratti illeggibile - può essere letto qui.
Tolte queste premesse storiche, il decasillabo, però, è intimamente legato a Manzoni. Se volete sapere come suona un decasillabo pensate a
S’ode a destra uno squillo di tromba,
e da lì il decasillabo vi si inchioda al cervello e non se ne va più, con tutto il resto del coro del Conte di Carmagnola.
Per questo ho deciso di dedicare i miei decasillabi direttamente a Manzoni, e di scriverci alcuni passi salienti dei Promessi sposi, in strofe di quattro versi secondo le rime ABAB.
Su quel ramo del lago di Como
che si volge, si sa, a mezzodì
c’è una donna che ama il suo uomo
ma non riesce a dirgli di sì.
Don Abbondio, i momenti son gravi,
e il coraggio non te lo puoi dar:
sulla strada ti fermano i bravi,
“Queste nozze non s’hanno da far!”
Cerca Renzo di essere scaltro,
di placar con la legge i subbugli:
ma i suoi polli si beccan l’un l’altro,
lui lo becca l’Azzeccagarbugli.
Vive a Monza la monaca persa
nel peccato, l’amante d’Egidio:
l’intrusione di una conversa
porge il destro per un omicidio.
Aspra e mobile sempre è la vita,
il futuro subentra al passato.
E Lucia che finisce rapita,
nel castello dell’Innominato?
La figura del bene prevale
con il nome di quel Borromeo:
vale a dire quel gran cardinale
che si staglia sul mondo plebeo.
Nella morte che tutte concilia
l’esistenze felici e moleste,
v’è la madre che porta Cecilia
deceduta per morbo di peste.
Fugga il tempo del mero rimpianto:
e subentri, tra poco, l’amor!
Don Rodrigo che muore, pertanto,
sconta il male del corpo e del cuor.
Alla fine l’intreccio si sbroglia,
ci si sposa; con ogni evidenza
quest’è quanto decide la voglia
di quel fato che fu Provvidenza.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Di come Irene Cardin cerca aiuto da una vecchia compagna di classe, una di quelle persone che riescono ad avere una vita sociale senza che ciò sembri macchinoso, faticosissimo, inumano, vano e misterioso.
Come nel caso del professor Ganz, anche stavolta la persona cui mi rivolgevo aveva avuto a che fare con il mio liceo e viveva ora in un’altra città: si trattava questa volta di una compagna di classe, una di quelle creature impossibili che sembrano aver trovato l’arte di conversare attaccata alla placenta, e con gli anni non solo non la perdono ma la fanno fiorire come se non vi fosse nulla di più naturale. Aggiungiamoci il fatto che tale arte costituiva la base di una buona fetta dei suoi risultati scolastici, e si può rapidamente fare un conto a spanne di quanto fossi intimidita nei suoi confronti. Per me era tutto diverso: l’incapacità di cogliere i desideri dell’interlocutore poco conosciuto, o mai del tutto intimo come per forza di cose era un insegnante, azzoppava la mia loquacità già asfittica e mi rendeva vittima degli stessi laconici grugniti con cui cercavo di
venire a capo delle interrogazioni rendendole grossomodo delle arringhe di monosillabi rarefatti. E la cosa andò peggiorando con gli anni, oltretutto: sempre più i miei buoni esiti scolastici furono legati soltanto all’impeccabilità delle prove scritte, giacché con quelle toccava rimediare al mutismo selettivo che ormai s’era fatto paralisi.
“È molto introversa” dicevano gli insegnanti ai miei genitori.
“Dovresti fare teatro” mi diceva mia madre. Suppongo che mi sarei rifugiata nel loggione.
“Dovresti praticare uno sport di squadra” mi diceva mio padre. E di questo parleremo più avanti, quando si vedrà l’inane crudeltà (e la comicità grottesca, anche!) che una frase del genere, in apparenza benevola e innocua, poteva manifestare se applicata a me.
Se si pone l’ipotesi che sia più facile creare dei legami umani con chi ci è fisicamente più vicino, già dalla disposizione dei banchi al primo anno di scuola superiore avrei dovuto capire la difficoltà che avrei fatto a legare con una persona del genere.
Haiku del 25 aprile
Haiku illustrato.
E con questo ci diamo appuntamento al prossimo venerdì, con un’occhiata alla Francia.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
eccomi, eccomi! ;-)
(due sono gli Egidio famosi: questo, e un calciatore - Egidio Calloni - cui Gianni Brera diede il soprannome molto manzoniano "lo sciagurato Egidio" per il suo sbagliare molti gol)