…e ci siamo: siccome Sillabe sta arrivando alla fine, almeno in questa veste, oggi si chiude con la saga del sonetto e le sue tante varianti. Oggi tocca al sonetto doppio, ma prima di addentrarci nelle sue caratteristiche vediamo di fare un po’ il punto della situazione.
Le sperimentazioni metriche andranno avanti fino al numero 50, il che vuol dire grossomodo fino alla fine di giugno. Di lì in poi l’idea è di dedicare la newsletter più nello specifico alla poesia scientifica, cioè a quella forma di poesia didascalica che, ricalcando indegnamente le orme di Lucrezio, approfitta delle conoscenze matematiche e scientifiche per scriverci sopra dei versi.
Versi che saranno quasi sempre endecasillabi, vi anticipo. Per quanto riguarda la poesia scientifica ho tonnellate di materiale. Quindi pensavo di far uscire su questa newsletter parti del mio Teoria dei Canti, magari con qualche riga di prosa a mo’ di spiegazione, intervallandole con dei sonetti dal Piccolo canzoniere matematico che sto scrivendo in questi mesi.
Teoria dei Canti, in versione completa, rimane in vendita su Amazon insieme a tutto il resto. Per quanto riguarda il Piccolo canzoniere matematico non so dire: vediamo se sarà un’autoproduzione, se troverà altre strade, chissà. Non faccio piani a lungo termine.
E ora torniamo al sonetto.
Scatola di montaggio: il sonetto doppio
Il sonetto doppio, a dispetto del nome, non è un sonetto ripetuto due volte. È invece parente del sonetto rinterzato, la creatura di Guittone d’Arezzo che è stata il tema della puntata 38, nel mese di marzo. Anche qui, dunque, si tratta di raddoppiare alcuni endecasillabi con dei settenari in rima.
Lo schema delle quartine è ABAB: a questo punto il primo e il terzo verso, in A, vengono accoppiati a un settenario che li segue, formando il nuovo schema AaBAaB.
Le terzine seguono lo schema CDC CDC: stavolta si raddoppia il verso centrale, e il risultato finale è CDdC CDdC.
Il sonetto doppio avrà quindi la struttura complessiva AaBAaB AaBAaB CDdC CDdC.
Due esempi tratti da Canone Accidentale, la piccola biblioteca in versi che parla di grandi classici della letteratura occidentale trasformandoli in sonetto, e che potete trovare su Amazon o, in PDF, gratis da qui.
L’amore ai tempi del colera
Aspetto; il tempo nostro viene lento,
amore, mentre sento
e vedo il rifondarsi della vita;
ricordo in ogni singolo momento
il vecchio sentimento
che dice che tra noi non è finita.
Per quest’attesa ci vuole talento,
un cuore succulento
che sa guardare oltre la partita,
che resta, pur lontano, sempre attento
a che gli dice il vento,
e che non teme sconfitta o smentita.
T’aspetta mentre il tempo ne demarca
il ruolo, l’interesse ed il confine;
le anime vicine
le lascia scorrere, un poco s’inarca
a quei passaggi; l’amore già varca
intatto cinque decadi assassine,
su altre morti chine;
e noi, ci lascia amanti in una barca.
Antigone
È morto ed intoccabile: fratello
ucciso in un duello
e poi lasciato insepolto a dormire.
Riverso senza pace sul budello
divelto dal coltello
non mi è concesso comporlo. Subire
questo destino, quest’acre macello,
è l’ultimo tranello
d’un’altra legge. Non posso capire,
ancora si rivolta il mio cervello.
Lo guardo, lo cancello,
ma lui ritorna inesausto a morire.
È qui che dentro me pertanto inizia
la lotta clandestina, nella testa,
e poi si manifesta
tremenda come il verbo della Pizia.
Questa città che mi cresce e mi vizia
s’abbatte su di me, ma non arresta
il cuore che protesta
tra il suo dovere e l’umana giustizia.
E, già che ci siamo, concludiamo la sezione con un sonetto doppio e d’oppio, inedito.
Un sogno che non ho mi torna in mente,
così beffardamente
che non so cosa farmene, e lo bevo.
Mi scende nelle tempie: va e lo sente
quest’animo paziente
con cui non so spiegarmi e pur lo devo.
Avvolgo altrove l’incauto presente;
lambisce crudelmente
i bordi insoddisfatti del sollievo.
Mi guarda e non capisce, l’altra gente,
che gira in spire lente
nel tempo che non m’è già più coevo.
Silenzio e pace e torpore; si spoglia
l’inganno mio, la vista vede doppio,
solerte qui mi accoppio
ai modi umani dell’umana voglia.
E resta, come sempre, sulla soglia,
l’amor di te per cui io quasi scoppio,
nei vani fumi d’oppio
del tuo ricordo che vive e s’imbroglia.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Parte in cui Irene trova un lavoro a tempo determinato dopo mesi di disoccupazione, va a cena dai suoi genitori e viene a sapere che la bambina che la picchiava alla scuola materna ha una vita di grandi soddisfazioni lavorative.
“Ah. Sai chi ho incontrato la settimana scorsa?”
Mia madre si era rivolta a me. “No” ho detto. Che domanda era? Che ne potevo sapere di chi aveva incontrato? Bisognerebbe mettere delle parole chiave, nelle domande, che ti fanno capire se si tratta di una domanda retorica. In latino, mi par di ricordare, funziona.
“Forse non te la ricordi” ha detto lei. “Perché quando vi siete conosciute eravate molto piccole. Anna Pierobon...” Silenzio scenografico avvolgente. “Era la nipote della direttrice quando andavi alla scuola materna. Ma no, di sicuro non te la ricordi” ha aggiunto.
“Un po’ me la ricordo” ho risposto io. Dal cassetto recondito della memoria dell’odio eterno il nome di Anna Pierobon ha fatto capolino e mi ha riservato un sogghigno. Sempre meglio di due ceffoni, per carità.
“Sì?” ha detto mia madre, dubbiosa. “Era una bambina piuttosto brusca e volitiva. Credo che non andaste molto d’accordo.”
Ho detto che lo credevo anche io. Brusca e volitiva, quel mostro.
“Io non l’avevo riconosciuta, naturalmente. Non l’avevo mai vista adulta. Era con sua nonna, cioè la vecchia direttrice. Ho riconosciuto lei. Avrà quasi novant’anni, ma vedessi come fila via dritta! Fisicamente ammirevole.”
“E di testa?”
“Oh, lì è sempre stata un’idiota, la vecchiaia non poteva aver fatto troppi danni, o quantomeno non si sarebbero notati” ha cinguettato mia madre “Però è ancora abbastanza lucida, si è ricordata chi ero, ci siamo salutate. Pensa, si ricordava anche di te: Come sta sua figlia, era tanto una cara e buona bambina, ha detto.”
“Che gentile.”Per quel che me la ricordavo io, la direttrice era una donna alta, con due larghe spalle che teneva perennemente fasciate in un tailleur dai tagli obliqui come una fotografia di Rodčenko e dai colori carichi.
Camminava su tacchi sottili che schioccavano sul pavimento con un rumore caratteristico che non sono più riuscita a ricostruire in seguito. Dotata di zigomi appuntiti e naso aquilino, parlava con una voce possente che tendeva a salire di tono verso la fine della frase, quasi fosse intrisa dell’essenza dell’interrogatorio. Secondo me diceva delle banalità; ma all’età che avevo non potevo pretendere di cogliere eventuali sfumature di significato. Apostrofava le maestre con aria eternamente insoddisfatta. Di tanto in tanto però scoppiava a ridere e si prodigava in cordialità perché ci teneva a essere, “più che una dirigente, un’amica”. Non era né l’una né l’altra. Era lì per imperizia burocratica di qualcuno sopra di lei.“E che le hai detto?”
Mia madre ha risposto: “Eh. Ho detto che stai bene.”Il modo in cui descriviamo le persone influenza il modo in cui esse sono percepite. Mi sono domandata quindi, se la nonna già più di trent’anni fa aveva di me quell’opinione, perché la sua orrida nipote ritenesse opportuno picchiarmi selvaggiamente e con quella malsana frequenza. Tutte le risposte che mi sono data mi hanno riempito di sconforto per le sorti dell’umanità. In queste situazioni vorrei essere come i filosofi greci, che trovavano alle loro ambasce esistenziali soluzioni virtuose e inappellabili. Dovrei avere un Daimon anche io come Socrate. Solo che il mio Daimon sarebbe petulante e snob e ampolloso, e mi farebbe un sacco di proposte per interpretare l’universo senza mettermi nelle mani alcunché di concreto.
Quartine al bar
Brevi brevi.
E guardo intorno a me e mi chiedo dove
t’ho perso, come facile ricordo.
Questo caffè mi guarda oltre il bordo
della tazzina. Non bevo. Già piove.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.