La forma metrica della settimana è la lassa, che nasce nella poesia francese antica e, al solito, in breve tempo si trasferisce in Italia. La lassa è un buon modo di chiedersi quali siano i limiti espressivi della monorima, come sfruttare eventualmente l’assonanza per uscire da quei limiti, come impararne di nuovi.
Scatola di montaggio: la lassa
La lassa è un componimento in cui i versi sono raggruppati in numero variabile, a differenza della strofa che deve contare un numero di versi fissato. Nella lassa tutti i versi di uno stesso raggruppamento hanno la stessa rima, o sono assonanti; quando si cambia rima, o assonanza, si passa a un raggruppamento successivo. L’unità sintattica è dunque data dalla rima, o dall’assonanza.
È una struttura tipica delle chansons de gestes, perché è molto adatta alla memorizzazione, e della poesia agiografica. Il verso, in Francia, è generalmente l’octosyllabe o il decasyllabe; in Italia si passa generalmente all’ottonario, all’endecasillabo o all’alessandrino. È in lasse anche il Poema del Cid (e qui andiamo nella poesia spagnola), che però presenta un fortissimo anisosillabismo, in quanto i versi variano da un minimo di 10 a un massimo di 20 sillabe… e ci sono ancora dispute su come considerarne la scansione metrica.
La lassa è la forma del Ritmo Laurenziano, che è uno dei testi più antichi di poesia italiana.
Talvolta, nella lassa, alla fine di ciascun raggruppamento è presente un verso breve (orphelin, o orfano) che non rima con i precedenti, che è lungo quanto un emistichio e serve a delimitare ancor meglio il confine del gruppo di versi.
La lassa è una forma tipicamente medievale, e torna, come spesso accade a tutto ciò che ha un gusto arcaico o arcaizzante, nel tardo Ottocento. Tipico esempio è la Notte di Caprera di D’Annunzio, che indaga a fondo l’uso delle assonanze e le inserisce in versi fatti da due emistichi, di cui il primo è tassativamente un quinario e il secondo un settenario, e in altre lasse di metro variabile.
Si dà alla lassa anche Carducci (La canzone di Legnano), ma qui della struttura originaria rimane soltanto la forma arcaizzante dell’uso di raggruppamenti di dieci endecasillabi. Per il resto, né rime né assonanze. Dell’assonanza fa uso parziale Pascoli nella Canzone dell’Olifante.
La monorima può essere pesante da gestire per raggruppamenti lunghi: all’orecchio contemporaneo si adatta forse a cori da stadio o da manifestazione, o a divagazioni trap o hip hop con ovvio raddoppio della voce sulla rima.
Di poco più varia è la cosiddetta decima, struttura utilizzata da Brodskij in Gorbunov e Gorčakov, e che consiste in dieci decasillabi disposti secondo lo schema ABABABAB.
L’effetto, comunque, è quello di ingenerare nel lettore o nell’ascoltatore un senso di monotonia e di incalzante ossessione, il che può però essere perfettamente funzionale al contenuto del testo.
Partiamo con la sperimentazione: una lassa dedicata al viaggio, in endecasillabi, monorima.
Partire con il dubbio: sogno o viaggio?
Mi manca, come al solito, il coraggio
d’avere il mondo dentro, aspro e saggio,
d’averlo dentro intero, l’appannaggio
di questa primavera e questo maggio
che sale nella bocca, e io l’assaggio.
Il bosco aperto profuma di faggio,
cammino e dei miei passi sono ostaggio.
Andare avanti solo lentamente
io non potrei; si separa la gente
da me, mentre mi ascolta e non mi sente,
e io cammino, partendo, inclemente.
Chi vuole andare avanti, penso, vada,
e badi solamente che gli accada
la sorte di conoscere la strada.
Il sogno puoi tenerlo sempre a bada,
il viaggio invece no: questa sciarada
d’intenti e di percorsi, mentre guada
la notte, che pietosa poi degrada
nell’alba sopraffatta di rugiada.
Di qualche passo ho mancato l’innesco;
cammino come voglio e come riesco.
Attorno a me si schiude l’arabesco
di un giugno imberbe che odora di pesco.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Cercare parole vuol dire spesso andare a rimestare nella follia, e Irene ora fa i conti con quella che serpeggia nella sua famiglia.
Figlia di uno zio di mia madre, la cugina Ida era lo spauracchio psichiatrico della famiglia e il motivo per cui tutti noi, in un modo o nell’altro, avevamo finito almeno una volta nella vita col preoccuparci del funzionamento dell’ereditarietà e avevamo cercato di capire, con l’infarinatura scolastica che ci aveva introdotto alla genetica solo tramite l’incrocio mendeliano dei piselli, quanto e quale rischio si fosse insinuato nelle nostre cellule, al riparo dalla vista e pronto a scatenarsi nella più dirompente follia.
Ida, in realtà, non era più un pericolo né per sé né per gli altri. Da ragazza era stata irrequieta e aveva subito dei ricoveri. Con il tempo e con le cure si era rimessa abbastanza in carreggiata. Aveva appena passato i cinquant’anni e viveva nella sua casa natale con la pensione di reversibilità del padre, a un paio di chilometri dalla zona in cui abitiamo io e i miei genitori. La madre era morta quando Ida era bambina e non se la ricordava troppo bene. Degli anni trascorsi in preda ai propri incubi era rimasto poco: una immarcescibile stranezza di fondo, una passione sbocciata in età matura per la pittura, che le aveva riempito la casa di quadri a olio di impostazione naïf, e l’antica vocazione per tutto ciò che odorava di misticismo. Andava in chiesa di rado (“Il prete mi guarda male”, sosteneva) ma era molto religiosa, pregava e leggeva libri che le potessero rinforzare la vocazione. Ci si sarebbe aspettato che dipingesse Madonne: e invece Ida aveva ancora una volta sorpreso tutti e ritraeva donne comuni, volti che vedeva solo lei nella sua testa. Qualche parente in vena di fare psicologia spiccia si peritò di verificare se almeno una di quelle donne ignote assomigliasse alla madre morta ma, per quanto si confrontassero le fotografie, non ne risultavano collegamenti.
Lungo il corso degli anni aveva avuto una serie di crisi successive. Urlava frasi sconnesse e non c’era verso di tenerla ferma. Dopo la fase delle urla arrivava quella dei lunghi silenzi: una volta non aveva parlato per quattro mesi di fila. Era questo uno dei motivi che mi avevano spinto a cercarla e a parlare con lei del manuale che stavo scrivendo. Le avevo telefonato per sapere se la disturbavo; stare al telefono con Ida non mi aveva causato nessuno dei miei soliti problemi, perché è oggettivamente molto più sconclusionata di me.
“Vieni, vieni, mia cara” aveva detto. E io ero andata.
L’avevo vista in vita mia poche volte, l’ultima delle quali risaliva a una decina di anni fa a casa dei miei, e nell’occasione c’entrava un gatto. La cugina Ida all’epoca aveva un gatto grigio che si chiamava Gastone, un animale grosso e pieno di sussiego, che sembrava essersi accorto della debolezza della padrona e badava a se stesso senza pretendere troppo. La sera si faceva coccolare, durante il giorno poltriva qua e là, era molto pulito e a modo, insomma, era quel che si sarebbe detto una brava persona. Ida si era affezionata a Gastone e, almeno in sua presenza, dava l’impressione di avere trovato un equilibrio. I vicini la vedevano spesso in giardino che gli parlava sommessamente, e il gatto la ascoltava paziente e non se ne andava che quando lei aveva finito.
Una mattina d’autunno alle sei mia madre venne tirata giù dal letto da uno scampanellio furioso e disperato. Per puro caso ero lì anche io; a quel tempo vivevo già per conto mio, ma avevo dormito dai miei perché nel mio appartamento avevo mandato l’imbianchino a ritinteggiare e l’odore di intonaco fresco nei primi giorni mi dava fastidio. Così fui tirata giù dal letto anche io, e per ultimo mio padre si alzò imprecando e pensando che fosse qualche idiota che faceva degli scherzi.
Nel tempo che impiegai a infilarmi una vestaglia e le ciabatte e a trascinarmi verso l’ingresso mia madre aveva aperto la porta e mio padre aveva smesso di imprecare e usciva dalla camera da letto strofinandosi la faccia. Ci ritrovammo, tutti e tre, davanti alla porta aperta e a un turbinio di aria fredda del mattino in mezzo alla quale si stagliava la cugina Ida scarmigliata, piangente, sporca di terriccio, agitata e più ammattita del solito. Aveva l’aspetto che poteva aver avuto una delle misere
creature appena uscite dalla Salpêtrière nel diciottesimo secolo, avvolta in un accappatoio liso e violetto che la rendeva simile a un lillà riverso per strada e lasciato a imputridire in una pozzanghera, e serrandosi i pugni al petto gridava: “Gastone, Gastone”.
Quartine al bar
Ho già bevuto oppure non ancora?
Non so; non ho bicchiere né ricordi.
Emetto dei pensieri muti e ingordi,
sorrido senza causa da mezz’ora.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.