Questa puntata di Sillabe è dedicata alla sesta rima, e siccome la poesia è lunga ci sarà spazio solo per la Scatola di montaggio.
Il resto torna la settimana prossima.
Scatola di montaggio: la sesta rima
Da non confondersi con la sestina lirica, a cui sono state dedicate le puntate 21 e 22, la sesta rima è una composizione strofica in cui la strofa è una specie di “ottava corta”: è composta di sei versi endecasillabi disposti in rima secondo lo schema ABABCC.
È la struttura usata dal giovane Leopardi nella sua Batracomiomachia, che comincia così:
“Mentre a novo m'accingo arduo lavoro,
O Muse, voi da l'Eliconie cime
Scendete a me ch'il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia de' topi e de le rane.”
E, visto che si presta all’epica e abbiamo cominciato a parlare di topi, ho pensato di dare una versione ridotta e in sesta rima del celebre poemetto “Il gatto e i topi” di Obeyd Zakani, poeta persiano contemporaneo di Dante noto per la sua vena satirica con cui non temeva di dileggiare il potere clericale e politico.
Una versione più aderente all’originale Moosh-o Gorbeh può essere trovata in Dissertazione letifica. Racconti e satire dalla Shiraz del Trecento, Carocci 2005, a cura di Giovanni M. D’Erme. Una versione in prosa e in inglese può essere letta qui.
Ecco dunque Moosh-o Gorbeh di ‘Obeyd Zakani, nella versione ridotta e in sesta rima di Elena Tosato.
Di qui la storia famosa si narra
d’un gatto e poi di moltissimi topi:
che fecero incredibile gazzarra
onde raggiunger bene i loro scopi,
fidandosi però di un’illusione.
Il che fan pure spesso le persone.
Un gatto vive in città, bello e forte,
feroce, greve di stomaco e bocca;
abituato a gestire la sorte
d’ogni accidente vario che gli tocca,
impavido e ruggente cacciatore
privo di scrupoli e forse di cuore.
Raggiunge ruzzolando una cantina,
ebbro di caccia, di fame e di voglia.
L’apostrofa sornione una vocina
d’un topolino sbronzo sulla soglia:
”Ti sfido! Voglio staccarti la testa!
E poi scuoiare tutto quel che resta!”
Il gatto, beh, nemmeno si scompone.
Acchiappa lesto quel malcapitato,
s’appresta a farne un unico boccone.
Ma il topo già si sgola, disperato:
”Mi pento! Sarò docile, uno schiavo!
Non so nemmeno cosa blateravo!”
Il gatto se lo mangia, e se la gode.
Indi gli viene l’impulso, o l’idea,
d’andare a rendere valida lode
al Dio che già l’aspetta alla moschea.
E vi si reca e qui gli manca il riso:
fa voto di pentirsi, all’improvviso.
“Non voglio più mangiare topi, mai!
Io fui cattivo, ignobile ed empio!
Ti supplico mio Dio! Di questi guai
io voglio farmi mondo, e come esempio
d’amabile bontà propormi, e pace!”
Quindi sospira e prega, e prega e tace.
Un topo, lì nascosto, sta e l’ascolta.
”Che odono l’orecchie mie, che sento?
Il gatto che a se stesso si rivolta?
Ma questo è un vero prodigio, un portento!”
E va felice, correndo, ed inizia
a dare agli altri topi la notizia.
E dal congresso dei topi son sette
d’alto lignaggio a partire, di corsa:
le menti sgombre di nubi sospette,
vedendo nel futuro una risorsa.
”O gatto! Ti portiamo molti doni
per festeggiar le tue nuove intenzioni!”
E recano con sé arrosti e vini,
datteri dolci, ed aromi fragranti,
delizie per palati sopraffini,
pasti per ricchi felini eleganti.
E il gatto mangia tutto, e vuota gli orci:
e poi, già che gli va, si mangia i sorci.
Due soli topi riescono a fuggire.
Piangendo, si ritrovano fra loro:
”I gatti sanno soltanto mentire!
E non conoscono fede o decoro!”
”Andiam dal re a lamentare il danno:
sperando che ci salvi dal tiranno!”
Il re li vede arrivare, sgomenti.
Ascolta i loro pianti, e le ragioni.
”Darò vendetta e sollievo ai tormenti
vostri, topini; vi mando legioni
d’aspri soldati a combattere il gatto,
quel traditore del suo proprio patto!”
E nella piana forte si raduna
un battaglione di topi, un secondo;
un terzo, un quarto, tutta la fortuna
d’armi murine che muove nel mondo!
Un nunzio - topo anch’egli - dal felino
va e gli comunica il grave destino:
“Gatto tiranno, noi ti muoviamo guerra.
E possa la tua trista e brutta faccia
sparire già domani dalla terra,
e liberarci dalla tua minaccia!”
Il gatto ride, e raduna i compari.
Sarà battaglia enorme e senza pari.
La pugna infatti scoppia e presto infuria.
La quiete sulla terra si dilegua.
Ciascuno piange sulla propria ingiuria,
eppure si combatte senza tregua:
cadono topi, che pur sono forti,
cadono gatti, ché anch’essi son morti.
Il sangue lava il terreno e lo impregna.
Infine il gatto viene catturato:
urla la bocca sua di voce indegna,
ma vien dal re condotto, incatenato.
”È giunta la tua fine! Che tu muoia”
grida il re topo, “Chiamategli il boia!”
Il gatto sente il petto che gli avvampa.
Guarda con odio i topi e la sua pena,
e stringe quindi l’una e l’altra zampa,
e spezza d’un sol colpo la catena:
afferra i topi intorno e li maciulla,
finché di vivo non resta più nulla.
L’esercito dei topi va, dissolto;
il re non ha più regno, né corona.
Il gatto storna il sangue dal suo volto
e l’odio tuttavia non l’abbandona.
La storia non ha fine né morale,
così come non l’hanno il bene e il male.
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