Primavera garrula, e la poesia si adegua, e quindi io. Tema della settimana sono gli stornelli, oggettini poetici facili da assimilare e ottimi da rilanciarsi in compagnia. Qui si fa in solitudine, ma poniamo che vi sia una compagnia interiore, o dilazionata nel tempo e nello spazio tramite le potenti strutture delle reti telematiche.
Scatola di montaggio: gli stornelli
Gli stornelli sono una forma di poesia in genere satirica o amorosa; componimenti brevi e fortemente rimati, sono noti perlopiù nella loro variante romana, che consiste di tre versi: un primo, quinario, in cui s’invoca un fiore, e due endecasillabi in cui si enuncia il tema della poesia, facendo sì che il secondo endecasillabo rimi col quinario e il primo sia invece assonante: lo schema è dunque aBA. Si cantano volentieri.
Gli stornelli romani hanno bisogno di rapidità e di leggerezza, anche se nei loro argomenti possono essere sboccati. Essi sono però assai versatili. Infatti, con gli stornelli
Si può apostrofare l’ingordo:
Fiore d’acacia
dal non macchiarsi spesso la camicia
si vede nel mangiare la sagacia
Si può dileggiare il vacuo pensatore che pur ci prova:
Fior d’azalea
in questa dolce e vuota testa tua
non nasce neanche l’ombra di un’idea
Si può irridere un voyeur che spia dalla fessura d’una porta:
Fior di sambuco
sembrava che lo sguardo fosse cieco
ma s’era solamente chiuso il buco
(lo stesso stornello può essere usato per compatire uno stitico all’ennesimo sforzo: vedete che sono versatili!)
Si può apostrofare un cattivo meteorologo:
Fiore di campo
sembravi un grande esperto di maltempo
e poi scambiavi il tuono con il lampo
O fare body shaming su eventuali proporzioni sfavorevoli del volto:
Fior di narciso
se non avessi in mezzo tanto naso
avresti posto per un altro viso
Invitare il prossimo a non dire sciocchezze:
Fior di mentuccia
dice parole tali la tua faccia
che sembra più un sedere che s’accuccia
…fino a ricordare le buone maniere ai molestatori:
Fiore di mela
volevi dirle solo una parola
e poi ti sei beccato una querela
Scoraggiare un Tarzan ormai attempato:
Fior di verbena
volevi dimenarti su una liana
ma t’è venuto ancora il mal di schiena
Ammonire un amante con l’alitosi:
Fior di spinacio
se non cominci a usare il dentifricio
ti puoi scordare che ti dia un bacio
E infine ricordare a me stessa:
Fiore d’ulivo
Sembrava vita quella che vivevo
e invece è solo quella che mi scrivo.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
E, a proposito di vite che si vivono e che si scrivono, andiamo verso la fine delle avventure di Irene Cardin e del suo Manuale di conversazione, e troviamo la nostra eroina in procinto di andare a un mercatino dell’usato - luogo in cui farà un incontro importante, e che tornerà negli ultimi capitoli.
Odio i mercati di roba vecchia. È pieno di gente assemblata male che cerca di rifilarti patacche a prezzi improponibili. Ci si fanno delle idee strane sull’economia, in questo modo. O forse non tanto strane, non lo so. Il piano era di andare comunque in mezzo alla folla, sperando che non fosse troppa, e cominciare a intrattenere qualche tipo di conversazione sfruttando le nozioni che stavo accatastando nel manuale. Se qualcuno ti deve vendere della merce è più propenso a starti ad ascoltare e ad attaccare bottone, avevo pensato, e quindi il mercatino poteva essere una buona occasione per fare pratica. Purché non mi si chiedesse di contrattare: non sono capace, mi sento falsa e truffaldina, avida, insomma, sporca, mi è capitato una volta soltanto da ragazzina, ero in compagnia di mia madre e volevamo portarci via un lampadario, e mia madre si era messa a tirare sul prezzo, e poi mi aveva detto che si faceva così, che è una recita, una danza, un grande teatro, e sarà stato anche un grande teatro ma secondo me il grande teatro è Eschilo col Prometeo incatenato o Shakespeare col MacBeth, tanto per dirne due, e ci devono essere delle battute calibrate e lo spettatore non deve sentirsi sporco che non basterebbero tutti i balsami d’Arabia, e a farla breve mia madre il lampadario l’aveva comprato quasi al prezzo che voleva lei, e anche la vecchia che gliel’aveva venduto era contenta, tutti contenti tranne me, che ero ritornata a casa e mi ero dovuta mettere a letto perché mi era salita la febbre.
Ecco, quindi non avrei comprato niente, perché c’era il rischio di dover contrattare. Però avrei guardato gli oggetti esposti, mi sarei fatta raccontare la loro storia, avrei fatto domande sul loro utilizzo, e poi chissà. Era per fare esercizio.
Sabato, mi sono detta. E così è arrivato anche il sabato. I giorni si susseguono e sono uguali tra di loro, a blocchi, ci si possono fare le classi di equivalenza come con le ore della radiosveglia e i loro trattini luminosi e rossi. Il fatto che i giorni siano uguali a blocchi vuol dire che li puoi scambiare l’uno con l’altro, all’interno dello stesso blocco, senza avvertire la differenza; e così un giorno ti trovi bambina e il giorno dopo vecchia e il giorno successivo adolescente, immersa in un delizioso disordine. Una volta succedeva solo alle domeniche, di essere tutte uguali. Poi, piano piano, si è passati a cesure più ampie, grandi panneggi stesi sulle settimane, sui mesi. Mi ha colto la necessità di suddividere in classi di equivalenza non solo i numeri dell’orologio, non solo i giorni, o il tempo in generale, ma anche le persone e le parole e i libri, e su questa suddivisione costituire l’ossatura dell’universo. E alla fine, solo alla fine, si poteva dotare questo universo di una coscienza.
Serviva davvero? Non ero rimasta, io alla fine, l’unico elemento spaiato?
Quartine al bar
Colazione al tavolo, tarda mattinata di primavera.
Si schiude un orlo d’acqua nel bicchiere,
e sotto l’aria vuota si riscalda.
Il sole sparge briciole di cialda
su quel che posso, vegliando, sapere.
Libri miei
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