La ballata era apparsa su queste pagine all’inizio dell’autunno, nella quattordicesima puntata, ed era stata una ballata grande in endecasillabi. Si parla di ballate anche questa settimana, con una variante. Di varianti della ballata, in realtà, ce ne sarebbero tante: ma credo che un paio di esempi siano sufficienti per capire come ci si comporta!
Scatola di montaggio: la ballata mezzana
La ballata è una forma che ha riscosso ampio successo, ed è una forma antica, che si trova nella poesia italiana fin dagli inizi nel Duecento. Le sue varianti si distinguono, sostanzialmente, per le dimensioni della ripresa: erano quattro versi nella ballata grande vista in precedenza, e sono tre nella ballata mezzana che sperimenteremo oggi. Questi tre versi possono essere tre endecasillabi, oppure un endecasillabo e due settenari, o due endecasillabi e un settenario.
La ballata di questa settimana prevede dunque una ballata di tre stanze, in endecasillabi e settenari, strutturate ciascuna secondo lo schema ABAbaBAxXYy. La ripresa è quindi costituita da due endecasillabi e un settenario finale; è la stessa per le prime due stanze, e muta di una sola parola nella terza.
Il tema è un incontro amoroso, o non necessariamente amoroso, perché poi le poesie parlano sempre per metafore e per allegorie; questo incontro forse si farà e forse no, e intanto la ballata descrive l’attesa, e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina, eccetera.
Ballata dell’incontro sospeso
Insieme al mio respiro si è già mosso
un orizzonte lungo il marciapiede,
tingendosi di rabbia e pace, rosso
di vita che non cede,
per quanto spero e posso.
Non c’è nessuno che passa e mi vede
eppure sono qui, da sempre addosso
ai vecchi miei pensieri.
Ero già qui domani come ieri,
e annega dentro il tempo dell’attesa
la strada malintesa.
T’aspetto, sei venuto o forse ancora
aspetterò paziente, come devo;
la tua presenza assurda si colora
del sogno del sollievo,
aspetto un anno, un’ora,
e il vuoto non è quello che credevo,
ma un buco dove c’è la tua dimora,
sformata di misteri.
Ero già qui domani come ieri,
e annega dentro il tempo dell’attesa
la strada malintesa.
E non hai nome né spazio, ma quando
arriverai saprò che ti conosco,
come la verità cha va scherzando.
Dentro il mattino fosco
incanto il passo e sbando
e questa strada già diventa un bosco
nel quale perdo il mio tempo sognando
gli inganni dei sentieri.
Ero già qui domani come ieri,
e annega dentro il tempo dell’attesa
la vita malintesa.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Irene Cardin va dalla dottoressa Leoni e si emoziona per una pianta.
Erano quasi le sei e mezzo e ce l’avevo fatta a non tardare. Ho dichiarato la mia presenza all’accettazione e sono andata a sedermi. Un’infermiera ha fatto una fugace apparizione in fondo al corridoio, entrando in una stanza subito dopo essere uscita da un’altra. Attorno a me era quasi tutto deserto. Dove di solito s’affollava un nugolo di pazienti c’era solo un ragazzo sui vent’anni che dormicchiava con la testa male appoggiata al muro, i capelli che si allargavano a raggiera sull’intonaco lavabile, accompagnato dalla madre che leggeva una rivista. Mi sono sorpresa della quiete e anche della totale normalità del comportamento del ragazzo, mi sono detta che c’era qualcosa che stonava tra lui e l’ambiente. È censurabile diventare vecchi, diventare brutti, diventare malati, ma anche se i matti adesso sono oggetto di attenzione e simpatia, almeno fino a che non devi averci a che fare tutti i giorni, bisogna essere matti, malati, vecchi o brutti in maniera conforme a una serie di classificazioni che ti renda spendibile sul mercato dell’intrattenimento.
[…]
“Cardin?”
La solita voce che mi chiama, la solita faccia che scruta attraverso al corridoio, e io vorrei dire: sono sempre io, non sono mai cambiata, mi riconosce?
E invece non ho detto niente, o meglio, ho detto solo “Sì” e mi sono alzata e ho fatto un cenno al ragazzo che dormicchiava, che aveva smesso di dormicchiare, e a sua madre che aveva smesso di leggere la rivista, e sono entrata dalla dottoressa Leoni.
Ci siamo strette la mano, mi sono ricordata di guardarla negli occhi, mi sono seduta sulla poltroncina di fronte alla scrivania. Ho notato subito che la dottoressa aveva una pianta sul tavolo. La sua scrivania è, solitamente, ingombra di carte, ricettari, libri, timbri, penne di tutti i colori. Adesso c’era anche un vasetto di plastica da cui sporgeva una pianta dalle foglie tonde.
“Pilea peperomioides” mi ha detto la dottoressa. Sa che ci tengo a farmi spiegare le cose. Famiglia: Urticaceae, ordine: Rosales...
“Mi piace” ho detto io. “È bello avere una pianta sul tavolo. Non fa per me, io sono in grado di far morire anche le piante finte, però è bello vedere questa qui” e ho indicato la Pilea peperomioides sgranando gli occhi, che per l’occasione mi si erano addirittura inumiditi. Mi capita di emozionarmi per delle sciocchezze. La dottoressa ha dato segno di apprezzare e ho ricacciato indietro le lacrime senza nemmeno bisogno di tirar fuori di tasca un fazzoletto.
“Come sta, signora Cardin?” mi ha chiesto. E io ho guardato la pianta e poi la dottoressa Leoni e ho sperato con tutta me stessa che mi chiamasse Irene, almeno una volta, anche se non ero ancora vecchia e rimbambita, anzi, proprio perché non lo ero ancora.
“Sto bene” ho detto. Era vero.
“E il suo manuale come procede?”
E qui invece mi sono dovuta mordere la lingua. Il mio manuale non andava per niente bene, avrei voluto dire. “Mah” ho risposto “ci sto lavorando.”Il fatto che la dottoressa si fosse subito ricordata del manuale mi ha molto scoraggiata. Non avevo voglia di parlarne; a dire la verità, adesso non avevo voglia di parlare di niente, volevo andarmene via, tornare a casa, ma sono dovuta restare seduta a fingere di ascoltare le parole che mi venivano dette, e di cui captavo qualche stralcio soltanto. Fissavo la pianta e cercavo di non sentire. Il che mi è particolarmente difficile, dal momento che sento tutto, e tutto insieme, dalle parole della dottoressa Leoni ai passi di un’infermiera in corridoio al ticchettio della pioggia sul vetro della finestra, e poi la sirena di un’ambulanza, il vago borbottio costante del traffico cittadino in lontananza. La dottoressa stava parlando del mio manuale e diceva qualcosa sull’interazione continua tra la vita emotiva e i processi cognitivi, e io io ho ripreso a concentrarmi sulle foglie tonde della pianta. Erano di un bel colore verde scuro, lucide; se era una pianta che si poteva tenere su una scrivania, mi sono detta, allora non aveva molto bisogno di cure, e mi è venuto da ridere, e infatti ho riso senza farmi vedere, perché è buffo pensare a una pianta che non ha molto bisogno di cure in un luogo dove tutti vengono per farsi curare; beata lei, la piantina, chissà quanto si vantava, a vederci passare di lì, le sarà venuto un ego ipertrofico. Però se non aveva bisogno di molte cure avrei potuto comprarne una anche io e tenermela in casa, forse non sarebbe morta, e mi avrebbe fatto bene crescere una pianta, occuparmi di lei.
Quartine al bar
Visto che la ballata giocava sui temi e sui tempi dell’attesa, le quartine non vogliono essere da meno. Si sospende il caffè, certo; ma non solo, si sospende la presenza di una persona, l’attesa di un domani.
Entro nel bar, non sapendo che cosa
ci sia per me. Ti ricordo e sorrido,
bevo il caffè di un altro, e quindi grido
quest’incertezza svilita e preziosa.
La tua mancanza preme sulla soglia
con un rumore distratto e tremendo.
Non si promette il futuro sapendo
il nome suo, che dica e cosa voglia.
E con le ballate abbiamo finito: la prossima settimana si farà ancora qualcosa di barbaro, per rendere omaggio a Catullo. A presto!
Libri miei
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