Scatola di montaggio: il settenario
Un settenario è un verso in cui l’accento obbligato cade sulla sesta sillaba metrica. Se la parola in cui cade l’accento è piana, ne risulterà un verso di sette misure; se è tronca, le misure saranno sei, e se è sdrucciola saranno otto.
Il settenario è uno dei due versi più utilizzati nella poesia italiana, insieme all’endecasillabo. Condivide con quest’ultimo la caratteristica di essere un verso imparisillabo (cioè ha un numero dispari di sillabe metriche, se l’ultima parola è piana) e di poter vantare una certa variabilità negli accenti interni.
Un settenario è un verso abbastanza corto, scivola via in un attimo, ma è mobile, vivo.
Pensiamo alla Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo o a Silvia, rimembri ancora di Leopardi. Talvolta ritorna anche, quatto quatto, nel ritmo del verso libero: m’illumino / d’immenso è un settenario che Ungaretti ha camuffato spezzandolo in due.
In un settenario sai dove ci dev’essere uno degli accenti - sulla sesta sillaba, per forza di cose - ma sugli altri, quelli interni, puoi farti prendere in contropiede. È un verso, quindi, che ha un suo spessore, quasi volesse manifestare una sorta di terza dimensione dopo la bidimensionalità obbligata dei versi più brevi, che sono ritmicamente vincolati. Di fatto, dopo le regolarità metriche di questi ultimi, è col settenario che si comincia a vedere un po’ di movimento.
Da questo vorrei partire per il tema di questa settimana, che sono le ombre: a me infatti piace pensare al settenario, grazie alla mobilità degli accenti interni, come al primo verso capace di fare le ombre.
Penso all’allungarsi delle ombre al tramonto; penso a ciò che non si vede ma si deduce; allo gnomone che insegue il tempo senza intrappolarlo, agli inganni delle ombre cinesi proiettate dalle dita, e alle ombre vaganti e disilluse nell’Ade omerico; e penso anche alle Ombre di Rodin, al loro corpo ritorto e irrigidito, al collo innaturale, al braccio che si tende verso il basso come una mazza nodosa. Penso al fatto che queste ombre non hanno una casa né un corpo da cui dipendere ma li ricercano in sé, nel loro volume. Sono oggetti e persone al contempo, desideranti e potenti, e sole, e nude e irreali. Sono chiuse in se stesse, parlano solo a se stesse perché non hanno altra possibilità.
E come occupano lo spazio? Secondo Günther Anders le Ombre di Rodin non compiono gesti, esse sono dei gesti. Le Ombre sono cose, sono superfici che si prendono lo spazio e, di conseguenza, la luce. Rilke diceva a proposito di Rodin che la luce che tocca una di queste cose non è più una luce qualsiasi, non ha più cambiamenti casuali; la cosa se ne impossessa e la usa come se fosse la propria.
Lasciamo Rodin e restiamo sulle ombre e sullo spazio che si inventa e si manifesta. Ho pensato che l’ombra fosse un buon tema per scriverci sopra dei settenari; in particolare, l’ombra di cui si parla qui è quella del pugile che la insegue combattendola e la usa per allenarsi.
Il settenario deve fare le ombre, deve creare il suo volume. Può farlo soltanto variando la sonorità che produce. In questo esempio, dunque, si gioca con l’accento interno: a volte lo troviamo sulla prima sillaba, a volte sulla seconda, senza regolarità, in modo da spezzare il ritmo e ogni possibile prevedibilità della composizione. L’ombra scarta e fa le finte e suggerisce le potenzialità musicali del metro.
Sparring
L’ombra, che prende pugni
dall’aria solamente,
che ricopre i contorni,
esiste intorno a me.
Esiste dietro gli occhi.
È pulita, da sempre.
Magrezza leggendaria,
rumore bianco e lutto:
questo la definisce.
È lì, è qui, si sposta,
e congettura il buio;
il sole non l’aspetta,
non la riscalda mai.
Che fa, quando si guarda?
Oggetto senza casa!
Materia sconsolata!
Morto non scritturato
nel cinema dei morti!
Contiene un po’ di tutto:
se solo lo sapesse.
Lo spazio, che si palpa
tra pavimenti e muri,
torce l’ombra e le spezza
i pugni che mi copia.
Viene, rimane, che fa?
Un’ombra viaggia spesso;
nel tempo, va all’indietro.
Assenza, poi presenza,
poi assenza, chissà.
Ma il settenario è versatile, si adatta a tutti i temi. Se avete voglia di settenari buffi e ritmati, vi rimando a questo mio vecchio esercizio, Biancaneve in settenari, scritto nel 2016 mentre oziavo davanti a una Italia-Svezia degli europei di calcio, gol di Eder allo scadere. Lo trascrivo qui. Chissà che vorrà farne la Disney. Oppure potrei chiedere a Greta Gerwig per un cortometraggio.
S’è punta la regina,
mentre cuciva, un dito:
“che il voto sia esaudito
d’avere una bambina!
Così mostrarsi deve:
nera di chioma, rosse
le labbra e poi che fosse
bianca come la neve!”
Col re s’accorda e tromba,
ma sorte l’è funesta:
a partorir s’appresta,
si sgrava e va alla tomba.
La bimba nasce e frigna;
il re, pria che sia tardi,
(d’accordo Giovanardi)
le offre una matrigna.
La donna prende impegno
di far da moglie al vecchio.
Chiede però allo specchio:
“chi è la più bella in regno?”
“Sei tu, sei tu, padrona”
risponde un po’ ruffiano,
ma un giorno non lontano
del tutto si sbottona:
“Dirò che sei un tipo,
più bella è la ragazza.”
La donna assai s’incazza
e sbatte su uno stipo.
“Qui svelto, cacciatore!
Ammazza la smorfiosa!
Farai gradita cosa
se porti indietro il cuore.”
Il cacciator s’attrista
e vìola un poco il patto:
sacrifica un cerbiatto
(non era animalista).
E Biancaneve scappa
tra sconosciute fronde,
finché poi si nasconde,
si ferma e fa una tappa
in una casa vera
tanto piccina e storta
che ha con fatica scorta
vicino a una miniera.
Qui son sette nanetti
che fregansi le mani:
“Ti tratterem da cani,
ci laverai i calzetti!
Soddisfi tutti quanti,
ma salva sei però:
ehi-ho, ehi-ho, ehi-ho”
e seguitano i canti.
E Biancaneve avvezza
al polo e pure al golf
s’adatta a far la colf
e vuota la monnezza.
Mentre un bel giorno piega
i panni che ha lavato
s’accosta al suo selciato
la vecchia e brutta strega.
(Questa ch'è sulla soglia
è la matrigna invece:
lo specchio pur le fece
mangiare un dì la foglia.)
S’accosta con cautela
ché vuole avvelenarla:
tanto le dice e parla
che l’offre già una mela.
Mangia, la sventurata!
Il sangue dalle vene
le scema e quindi sviene:
per morta vien lasciata.
I nani alla magione
la sera ritornando
la scoprono gridando:
“non ha assicurazione!”
Chi l’ha seccata? È giallo!
Ma pria che il corpo olezzi
le fanno con gli attrezzi
la bara di cristallo.
E qui giace d’estate
qual morta pur da viva
(la mela è inoffensiva:
fa come Mitridate,
manco le viene il tifo:
ché la matrigna inetta,
per quanto ci si metta,
in chimica fa schifo.)
Che sorte alfin le tocca?
Un principe l’aggancia,
la sfiora sulla guancia
e giù di lingua in bocca.
Così più non riposa,
si sveglia in gran tormenti.
“Almen lavati i denti!”
gli dice. Poi lo sposa.
Una prosa è una prosa è una prosa: il vuoto e il pieno
Il vuoto e il pieno è un racconto che potete trovare - e scaricare - in Sono racconti per nessuno. È una storia presentata dall’alternarsi di due punti di vista: quello, in prima persona, di una anziana donna che parla del suo cane, e quello, in terza persona, di un giovane sbandato, S. , che passeggia nella stessa città della donna col suo cane. Ombre che si rincorrono, si incontreranno, a modo loro, alla fine.
S. guarda ancora un po’ le destinazioni dei viaggi che non farà, si mette le mani in tasca, le toglie, s’incammina verso destra, poi cambia idea e va a sinistra. Canticchia. Se pensa a quello che gli sarebbe piaciuto fare deve fare fatica, sforzarsi di focalizzare un punto lontanissimo all’interno di se stesso. Forse il musicista, sa suonare, non molto a dire la verità, sa suonare il basso, una volta aveva fatto parte di un gruppo, avrà avuto sedici anni, diciassette, poi ciascuno è andato per la sua strada; e comunque non ha tecnica, ha solo rabbia e un discreto senso del ritmo. Avrebbe potuto scrivere la sua musica, le sue canzoni. Chi lo sa. Su cosa si scrive una canzone? Le canzoni che conosce lui sono tutte uguali: amori che vanno male, vita di strada, speranze. Che è poi la stessa esperienza di vita che ha lui, e invece per un attimo pensa che le canzoni potrebbero anche parlare d’altro, di qualcosa di completamente diverso. Eccolo il problema: S. sa che ci potrebbe essere qualcosa di diverso, ma non ha abbastanza fantasia per andare oltre.
Figure
Distico inedito che parla anch’esso di ombre.
I nomi hanno un’ombra?
Se sì, con quale luce?
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