Introduzione
Quasi. Forse. Ci sono parole che, stando agli stereotipi, suonano più poetiche di altre. Da che la poesia si è ormai identificata con la mera lirica, infatti, il senso di vaghezza e di potenzialità in parte inespressa sembra essere un marchio di fabbrica. La poesia lascia suggestioni, impressioni, orme sfumate, indizi: o almeno è quello che ci aspettiamo che faccia. Ma se è facile identificare queste impressioni nel contenuto di una lirica, può essere interessante vedere anche dove si palesano nella forma e nella struttura della composizione.
Scatola di montaggio: rime e quasi-rime
Il metro ci permette di giocare con la musicalità del verso. Si è visto che l’endecasillabo suona in un modo, il settenario in un altro; si è visto che i versi parisillabi sono più adatti alla cantilena di quanto lo siano quelli imparisillabi. Ma come si può giocare con la musicalità delle parole?
La poesia italiana possiede a questo scopo vari strumenti: uno è quello della rima, su cui ritorneremo meglio in una prossima puntata. Per farla breve, due (o più) versi rimano tra di loro quando le loro ultime parole sono uguali dall’ultima sillaba accentata in avanti:
così se c’è la rima
si può veder la stima
in fondo e non in cima:
la fine va e collima,
l’ho detto poco prima.
Le rime impongono un andamento sonoro, ma non sono l’unico mezzo per far risuonare i versi. In questa puntata di Sillabe parleremo di quasi-rime, che sono altrettanto importanti. Parleremo dunque di assonanze e consonanze, che sono il modo in cui l’andamento sonoro viene non imposto ma suggerito; e parleremo di rime ipermetre, che sono il modo in cui il suono lascia intendere universi simili e code inattese.
Due parole sono consonanti se hanno lo stesso finale ma con una diversa sillaba tonica:
Diremmo forse uguale
la sorte di parole
la cui chiusa crudele
è l’una all’altra ostile?
Sono assonanti se hanno uguali vocali e diverse consonanti.
Non lo diciamo, infatti:
ci sono troppi scarti,
troppi ritagli falsi,
vicini ma distanti.
La rima è ipermetra quando è composta da una parola sdrucciola e da una piana che rimano fintanto che hanno un accento comune: cioè non si considera l’ultima sillaba della parola sdrucciola.
Di questi casi dunque s’è parlato
qui dove del montaggio c’è la scatola.
Le quasi-rime dicono che c’è tutto un mondo da esplorare al di là della mera identità, e ci interrogano anche su che cosa voglia dire essere uguali.
I versi che seguono non hanno velleità poetiche ma sono un esercizio per utilizzare tutte le varianti di cui si è appena fatto cenno: ci sono rime, rime ipermetre, assonanze e consonanze. Come metri si utilizzano l’endecasillabo e il settenario. Entriamo nel regno della chimica e parliamo degli enantiomeri, ossia di quelle molecole che sono l’immagine speculare l’una dell’altra. Due enantiomeri hanno le stesse proprietà fisiche, ma si comportano in maniera diversa rispetto alla luce polarizzata: ne ruotano infatti il piano nei due versi opposti. Le proprietà chimiche che ne risultano possono essere molto differenti.
La specularità di certe forme
dice che cos’è vita e cosa no.
Ci sono leggi di chimica e norme
la cui natura spiegare non so;
un verso, una torsione,
la sovrapposizione
possibile con una riflessione.
E mi domando spesso, allora, come
capisca la materia d’esser tale,
costretta a presentarsi in varia mole:
se non è pari, e come la dirimi,
com’è ch’è disuguale ciò ch’è simile,
possibile, se sono gli enantiomeri
a dire il mondo doppio, e l’altro nome,
se ciò che non si può mai si potrebbe.
Giacché quel mondo, in qualche modo, crebbe,
e nacque - devo dire - addirittura,
io dico alla materia: va’, catturami
le possibilità dell’esistenza,
per quante ce ne siano in abbondanza.
E se questa natura, varia e tanta,
è come l’acqua che, distante, Tantalo
cercava, nel suo puro desiderio,
io pure cerco del mondo precario
di cogliere una bruta conoscenza.
Chi impara, quasi mai poi s’accontenta:
e cerca nomi e sorti differenti,
versi comuni e percorsi distinti,
in modo da quadrare i propri conti.
Così fa l’esistenza, e chi la imita,
così, nel regolarsi della chimica.
Ché tutto muta, si specchia, ma frode
non è per forza e per sempre un errore:
qualcosa che, piuttosto, crea la vita,
diversa e malleabile,
e così forte e flebile,
in ogni forma nuova, incalcolata.
Una prosa è una prosa è una prosa: Cronache da un paese ipotetico
Il racconto che dà il titolo alla raccolta Cronache da un paese ipotetico si innesta nel tema di questa puntata di Sillabe, che ha a che fare con il luogo del “quasi”. La storia è ambientata in un luogo tanto remoto quanto fittizio, quasi (appunto) una versione perennemente invernale della Fortezza del Deserto dei Tartari. Non c’è un Giovanni Drogo solitario in attesa, qui, però, ma un giovane e disilluso capitano di una prigione alle prese con l’arrivo di un prigioniero politico sufficientemente importante da stravolgere i ritmi e le consuetudini della vita carceraria. Il capitano Aguraal è malinconico e suona la grabosa, che è uno strumento a corde che esiste nel paese ipotetico, e che è quasi una chitarra, o quasi un liuto, o quasi chissà.
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Il motivo principale per cui il capitano ricorda la missione alla centrale elettrica è la grande luna che li ha accolti, tutti insieme, soldati e condannati, quando si sono riversati in strada e hanno lasciato che la centrale continuasse a lavo- rare, ligia, a malapena consapevole della piccola cesura. Quando era studente di filosofia e di retorica Aguraal avrebbe saputo fare un grande discorso sulla luna che vide allora, e anche se aveva dimenticato l’arte era comunque in grado di vedere il disco lunare come un ricettacolo di altre memorie, del primo amore, dei primi sogni, delle notti trascorse a studiare la forma dei sensi, dell’universo, e la storia delle nazioni e delle necessità, che erano materia di esame. Mentre badava che i suoi uomini caricassero i cospiratori sul furgone blindato la luna, ancorata al largo del suo pianeta come un cane gravitazionale da guardia, riassumeva al giovane tenente tutte le cose che aveva imparato sulla giustizia e sull’ordine.
Aguraal adesso non li sa mica fare più, quei discorsi sulla luna; è malinconico e qualche sera, se non suona la grabosa, si affaccia alla finestra della sua stanza e maledice il freddo pungente e vorace che gli cristallizza le punte della camicia e il bavero della giacca, senza riuscire a provare veri rimpianti nonostante il terrore aspro che da sempre prova nei confronti della nostalgia e l’odio invidioso per chi la sconta.
Figure
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Questa serata
amore mi promette
eterno quasi.
E per questa settimana è tutto.
Sillabe si prende una piccola pausa per Ferragosto e tornerà regolarmente a partire da venerdì 25 agosto, con una puntata sul senario. Nel frattempo, qui c’è il mio vecchio blog: Un’altra versione, dove potete trovare un bel po’ di materiale da scaricare liberamente. Poi, se avete voglia di qualche libro tutto intero, prosa o poesia, cercatemi su amazon.it!