Una breve introduzione
Sillabe parla di poesia, in prevalenza: di come funziona il meccanismo del verso, delle particolarità di questo o quel metro, delle domande che mi faccio quando compongo qualcosa. Questo, almeno sarà il contenuto della prima sezione di ciascuna puntata, che si chiamerà Scatola di montaggio: una spiegazione di come funziona una certa struttura (il sonetto, la ballata, eccetera) e un esempio a seguire, scritto per l’occasione. Le altre due sezioni sono Una prosa è una prosa è una prosa, che parla - ecco, sì - di miei vecchi lavori in prosa e Figure, che contiene un brevissimo componimento poetico (un haiku, un distico, una quartina) illustrato da me.
Sillabe pubblica contenuti nuovi ogni venerdì, salvo eventi di forza maggiore.
E adesso buona lettura con la prima puntata!
#1
Scatola di montaggio: l’endecasillabo
Cominciare un discorso sulla poesia in lingua italiana vuol dire sapere di doversi misurare con l’endecasillabo, prima o poi. Quindi partiamo proprio da lui.
L’endecasillabo è, con ogni probabilità, il verso più comune della nostra metrica. E, diversamente da quello che si potrebbe credere, non è sempre un verso di undici sillabe! O meglio, può anche non esserlo: l’unico vincolo dell’endecasillabo infatti è che ci sia un accento sulla decima sillaba. Siccome la maggior parte delle parole in italiano è piana, cioè ha l’accento sulla penultima sillaba, questo porta ad avere a tutti gli effetti un verso di undici sillabe: sem-pre-ca-ro-mi-fu-que-ster-mo-col-le. Undici. Ma se l’ultima parola è sdrucciola avremo un verso di dodici sillabe, e se è tronca risulterà di dieci sillabe: in entrambi i casi parleremo comunque di endecasillabo.
Notiamo anche che stiamo usando le sillabe metriche, che non necessariamente coincidono con le sillabe grammaticali. La poesia è un retaggio della lingua parlata, e ricorda a tal punto la musica da trascinarsene dietro il ritmo: per cui ecco che talvolta avremo vocali finali di una parola che si attaccano a quelle iniziali di un’altra, e concorreranno a formare un’unica sillaba metrica (eil-nau-fra-gar-mè-dol-cein-que-sto-ma-re). Questo fenomeno si chiama sinalefe ed è uno dei tanti strumenti ritmici a disposizione di chi compone una poesia.
L’endecasillabo è un verso lungo: la sua cadenza richiama quella del discorso in prosa
L’endecasillabo è uno strumento molto versatile. A parte l’accento obbligatorio sulla decima sillaba, ne ha generalmente uno sulla quarta (endecasillabo a minore) o uno sulla sesta (endecasillabo a maiore). Nel primo caso avremo un ritmo più tranquillo, nel secondo un ritmo più incalzante. Questi tipi di endecasillabi sono detti canonici. Esistono ovviamente altre possibilità: l’accento sulla quinta, per esempio (una cosa che avrebbe fatto rabbrividire Petrarca, ma che nel Novecento ha dato buoni spunti), che induce un ritmo spezzato, storto, in cui la voce cerca invano un equilibrio.
La scelta di un metro specifico - o la scelta di non utilizzarne uno in particolare - dipende da vari fattori: dal ritmo che si vuole imprimere alla poesia, dall’enfasi che si vuole dare a questa o quella parola, dall’importanza che si intende attribuire a questa o quell’immagine. L’endecasillabo è un verso lungo: la sua cadenza richiama quella del discorso in prosa, permette di prendere fiato, di ragionare su quel che si dice. Racconta delle storie, racconta delle avventure: è il metro delle ottave dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata e delle terzine della Divina Commedia. Si presta allo scherzo e alla parodia, come ne La secchia rapita di Alessandro Tassoni. Ma è abbastanza arioso e lungimirante da permettere ampie riflessioni personali: l’Infinito leopardiano è una concatenazione di endecasillabi sciolti.
Endecasillabi su una considerazione di Octavio Paz
Per far vedere l’endecasillabo all’opera ho scelto di partire da un verso di Octavio Paz. L’ho fatto perché Octavio Paz era uno di quelli che sapevano usare la poesia per scavare nella realtà, perché sa ibridare poesia e storia, perché la sua autobiografia si chiama Anch’io sono scrittura (edito in Italia per edizioni Sur, 2014, traduzione di Maria Nicola). A un certo punto, in El mono gramático (1974), il poeta messicano dice:
La crítica del universo (y la de los dioses) se llama gramática.
cioè: la critica dell'universo (e quella degli dei) si chiama grammatica.
Mi piaceva l’idea di usare l’endecasillabo per rifletterci sopra, per divagare sui rapporti fra parola e percezione. L’endecasillabo si presta a parlare con se stessi. Intendiamoci: siccome sono una persona arida intrisa di scienze dure ben oltre la sua capacità di sopportazione, tutte le volte che penso a questi argomenti mi viene in mente che l’universo ha quattordici miliardi di anni, che si espande, che ha miliardi di galassie, e che noi siamo una singola specie che esiste da duecentomila anni insieme ad altri milioni di specie su un pianeta periferico che alla fine verrà fagocitato dalla sua stella morente mentre l’universo proseguirà nella sua indifferenza ricolma di entropia in aumento, e quindi le potenzialità della grammatica, e della parola in generale, nell’arduo compito demiurgico di maneggiare l’universo potrebbero essere, come dire, leggermente sovrastimate.
Però siamo anche esseri intrinsecamente antropocentrici, oltre che narratori, oltre che affascinati da tutto ciò che ci ricordi la storia secondo cui in principio era il Verbo, per cui andiamo avanti e buttiamoci nell’endecasillabo.
Parole non ho più: potevo averne?
Undici sillabe, poche alla volta,
e l’universo attorno, e dentro, e fuori,
parole non ho più, né più le cerco,
perturbano quadrate il labirinto
del tatto mio ch’è tondo, e della vista,
son buie come il rapido ricordo
del gioco degli astragali di un tempo;
parole non ho più, mi sono vedove,
e non è stato amore ma pazienza,
contatto, apologia e castità
reciproca, finale e soddisfatta.
Se parla l’universo, non so dire:
parole non ha più, o non ancora.
Una prosa è una prosa è una prosa: le parole perdute del signor Marinucci
Le parole perdute del signor Marinucci è un racconto che si trova nella silloge Cronache da un paese ipotetico (2018).
Gaetano Marinucci è un uomo comune: un signore di mezz’età con dei baffi a cui tiene molto, una moglie a cui tiene molto, un lavoro a cui non necessariamente tiene molto ma che gli dà sicurezza. A un certo punto della sua vita comincia a perdere alcune parole. Si ricorda il concetto che esprimono, ma gli vengono alle labbra solo penose perifrasi. Il racconto gli va dietro, va dietro alle preoccupazioni della moglie, e lascia uno spiraglio sulle possibilità della poesia. Qui un estratto:
La consapevolezza gli venne una mattina facendo colazione. Era seduto al tavolo della cucina con il suo caffè e i suoi biscotti secchi della stessa marca che comprava sin da quando era ragazzo, e s’era voltato verso l’Angelina già in piedi davanti al lavello che sciacquava la sua tazza, perché l’Angelina faceva colazione senza metterci tutto quel tempo a soppesare i biscotti e a esprimere dei pensieri profondi su ciascuno di essi; e dopo essersi voltato verso l’Angelina aveva cercato di chiamarla, come faceva di solito, ‘amore’. Il signor Marinucci era l’unica persona al mondo che avrebbe mai potuto chiamare ‘amore’ l’Angelina, una donna quadrata e spiccia e in più brutta come il peccato, ma lui l’amava davvero teneramente e poi l’aveva sempre chiamata così, perché cambiare? Fatto sta che cercò di chiamarla ‘amore’ e non gli venne la parola. Si sforzò un paio di volte e alla terza gli uscì un piccolo sbuffo di lettere a caso, un verso che suonava come ‘amppffh’. Fu sufficiente per destare l’attenzione dell’Angelina, e infatti quella gli si rivolse chiedendogli cosa volesse, e lui chiese mortificato se poteva passargli un bicchiere d’acqua; sta di fatto che anche quando si ritrovò per le mani il bicchiere, e l’Angelina fu ritornata alle sue faccende, provò e riprovò a pronunciare la parola ‘amore’ e non fu in grado.
Figure
Haiku. Tratto da Haiku in bianco e nero, 2023. La versione in PDF è liberamente scaricabile qui. Il cartaceo è disponibile qui.
A spazi nudi
così risponderemo:
con nudi fiori.
E per questa settimana è tutto. Alla prossima! Nel frattempo, qui c’è il mio vecchio blog: Un’altra versione