Oggi Sillabe parla di ciò che si muove attorno al concetto di rima. Espediente mnemonico o artificio estetico, la rima è un vincolo stringente; ma, come tutti i vincoli compositivi, imparare a farne uso vuol dire regalarsi una grande libertà di scelta e di movimento, di scoperta e di analisi. Le rime costringono e incanalano, ma allo stesso tempo permettono di giocare con tutto il resto, di sfruttare la ricchezza della lingua per trovare sinonimi sorprendenti, perifrasi non banali, punti di vista fecondi.
Scatola di montaggio: rime, rime interne e allitterazioni
Una rima è, come si è detto nella puntata 7, quel fenomeno per cui due parole suonano allo stesso modo dall’accento tonico in avanti: due versi rimano tra di loro quando rimano le loro parole finali. E fin qui siamo quasi all’ovvietà. Ma da quand’è che ci siamo appassionati di rime?
La rima non era presente nella poesia latina e greca: anzi, sarebbe stata vista come una caduta di stile. Nelle lingue romanze invece c’è e fa parte addirittura di uno dei concetti ingenui che abbiamo di poesia, che consideriamo come una sorta di filastrocca di versi in rima. L’altro concetto ingenuo è quello di poesia come sequenza di pensieri intimisti carichi di aggettivi sofferti e scritti andando a capo prima del dovuto, ma questa è un’altra storia e se ne parlerà in altra sede.
Torniamo alla rima. In che modo la si impiega? I versi possono essere in rima baciata (AA BB…), incrociata (ABBA), come usualmente sono le rime delle quartine del sonetto, per esempio, o alternata (ABAB), come i primi sei versi dell’ottava. Può comparire in altre combinazioni più o meno articolate, la più famosa delle quali è probabilmente la terzina dantesca (ABA BCB CDC… che poi finisce, per non lasciare il verso centrale senza rime, in XYX Y).
La rima baciata ha il pregio di un’immediatezza quasi apodittica; quella incrociata dà un senso di compiutezza, di stesura del componimento in blocchi ordinati e autosufficienti, mentre la rima alternata spinge ad andare avanti ad libitum; le rime incatenate, come nella terzina dantesca, suggeriscono un senso di movimento più complesso.
Ecco un esempio che combina la rima baciata, quella incrociata, quella alternata e la terzina dantesca, nell’ordine.
Se mai dovessi dire del percorso
che va gettandosi sopra il gran dorso
del mondo, che farei? Di quale sorte
sono le strade, diritte o ritorte?
Di quale mansuetudine o stranezza
vive la strada, fin quando si spezza
nel brusco balbettare d’altri sassi
su cui non so contare più i miei passi?
La mappa del terreno si frammenta
in tagli di montagne e strade scure.
Disegna le speranze e le paure
e sembra quasi esserne contenta.
Con arte programmatica e violenta
dispiega i suoi colori e le figure,
i piani, i buchi d’acqua e poi le alture,
tutta la vita che sotto fermenta.
Cos’è che rende il disegno reale?
In cosa rende mozza e toglie via
quella parvenza incantata e banale
ch’è il resto della nostra fantasia?
Si spiana sulla carta ciò che sale
nel mondo, si fa pura geometria,
un universo allora originale
possibile, segnato purchessia
da tratti e numeri e da convenzioni,
dal cumularsi della conoscenza.
E ogni mappa dà le sue versioni
del mondo attorno; si rende parvenza
di regolarità del camminare,
e dice ciò che c’è; di quel ch’è senza
tace perché non lo sa immaginare.
A cosa serve, pertanto, la mappa?
A dire che sappiamo raccontare
lo spazio che s’incolla e che si strappa,
che sull’esterno vuoto s’è rivalso.
La carta mi conosce e mi si aggrappa:
anch’io proietto e scrivo un mondo falso.
Uno degli aspetti più suggestivi delle rime, secondo me, è che non è necessario che si trovino alla fine del verso. La rima può essere anche interna: due parole che rimano tra di loro e vengono messe vicine, senza concludere alcunché, solo allo scopo di rafforzare a vicenda i propri suoni. Oppure si può usare una parente della rima interna che è l’allitterazione. L’allitterazione è una figura retorica che consiste nell’utilizzare più parole che comincino con la stessa lettera, o in cui una stessa lettera sia ripetuta più volte, o in cui si ripeta un gruppo di lettere, creando un effetto sonoro particolare. È come se le parole rimassero a pezzi, e non nella loro interezza.
A differenza della rima, l’allitterazione piaceva molto ai poeti latini: ho dei ricordi dei tempi del liceo in cui Ennio scriveva At tuba terribili sonitu taratantara dixit, che si traduce con e la tromba con suono terribile disse “taratantara”. Ennio in questo verso oltre alle allitterazioni usa anche un’onomatopea, cioè quel fenomeno che consiste nel creare o usare parole i cui suoni suggeriscono il concetto che la parola esprime. In effetti, il risultato con tutte quelle “t” è che sembra quasi di sentir squillare la tromba.
Un uso dell’allitterazione e della rima interna può creare una sensazione di eco e ridondanza, può dare l’idea di un suono che non ci sta ad essere effimero e vuole continuare a dire la sua. Un suono che riverbera può dare a sua volta un senso di insicurezza, o di lontananza, o di tempo che fugge o è già fuggito.
Proviamo con un po’ di endecasillabi:
L’insicurezza della mia vecchiaia,
per quanto mi compaia tutta addosso
nell’osso, nella carne, un po’ mi sembra
la stessa, nelle membra che mi restano,
di quella che sentivo da ragazza;
impazza, dentro queste braccia ebbre
di tenebre, di mantenute scabre
speranze e poi ricordi. In un vernacolo
ch’è tipico dei tempi dell’inverno,
verace e vano, mi parla e se ne resta
a frammezzare l’ampiezza dei giorni.
E cerco l’eco, spreco della voce,
che va cercando un ripetersi lungo
e già diverso, altrove, in questo verso,
e suona e poi balbetta, come ghiaia
battuta dalla pioggia, su cui il piede
cedendo sta e cammina. Mi va specchio
il vecchio suono di ciò che dicevo
un tempo, antico amico che ritorna,
ornato dalla voglia un po’ patetica
di essere ancora ciò che fui,
nei miei minuti bui, che se li guardo
altrui diventano, e ancora ci si poggia
una parola sola, o forse poi migliaia.
Una prosa è una prosa è una prosa: Per ogni passo non replicato
Per ogni passo non replicato è un breve racconto che fa parte di Sono racconti per nessuno (2021). È la storia di Lino Zanchi, insegnante di educazione fisica in pensione, che impiega la parte finale della sua vita per imparare a ballare.
I primi passi furono difficili, ma i primi passi lo sono sempre, perché sono modellati sulle idee e non sulla carne. C’erano un sacco di cose da imparare; c’era da verificare quali movimenti venivano ancora in scioltezza e quali no, prima di tutto, e qui Zanchi fu ancora fortunato, o poté godersi parte del merito della propria perseveranza fisica, perché il suo corpo rispondeva bene, anche tenuto conto degli anni, dalla metropoli ipogea degli intestini al cumulo parzialmente ordinato dei muscoli, dalle ossa robuste ai nervi assediati dagli anni. C’era da scoprire un bel po’ di concetti nuovi sul ritmo e sulla fluidità, per qualche tempo si sentì come se fosse in balia di liquidi sconosciuti e di ignote pulsazioni, sia del proprio cuore che dei propri muscoli volontari: e non aveva nemmeno ancora provato con la musica. C’era da ricordare a se stesso che non si sarebbe dovuto né potuto accontentare di niente di meno che dell’eccellenza anche se non aveva il genio d’essere eccellente, né tantomeno l’età, ma solo la pazienza. L’eccellenza a cui mirava non era quella dei risultati - non era così ingenuo, non più, non ne aveva il diritto né l’impudicizia - quanto piuttosto quella della dedizione. Ecco, dal punto di vista della dedizione voleva essere perfetto.
Figure
Distico inedito.
E se dovessi dire ciò che taccio
che faccio, cominciando a non finire?