Questa settimana si torna a canticchiare in versi parisillabi. Tema della puntata è l’ottonario, che si lega a quanto s’è detto la settimana scorsa perché è stato spesso e volentieri un verso da ballata.
È anche un verso maneggevole e che sembra fatto apposta per scherzi, proverbi, sentenze inappellabili, inni, filastrocche e ricordi d’infanzia.
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non v’è certezza.
Tanto va la gatta al lardo
che ci lascia lo zampino.
Quanta schiera di gagliardi,
quanto riso nei sembianti1.
Con ‘sta pioggia e con ‘sto vento
chi è che bussa a ‘sto convento?
E mi astengo dal riportare una lunga serie di canzonacce goliardiche che sull’ottonario hanno fatto la loro fortuna.
(Osteria numero uno!)
L’ottonario è un verso la cui musicalità è immediata. Lo si impara in fretta. È un verso che va al piccolo trotto e può dir burle o verità:
È la fede degli amanti
come l’araba fenice:
che ci sia ciascun lo dice,
dove sia nessun lo sa.
Scatola di montaggio: l’ottonario
Dal punto di vista tecnico, l’ottonario è un verso di otto sillabe metriche, con accenti che generalmente si collocano sulla terza e, obbligatoriamente, sulla settima sillaba, in quanto è l’ultimo accento a definire il tipo di verso. La quinta può essere accentata o meno; la mancanza dell’accento sulla terza è rara, e in tal caso l’accento si sposta sulla quarta.
Giovanni Pascoli sperimentò ottonari con accenti sulle sillabe 1-4-7, accoppiandoli a novenari con accenti sulle sillabe 2-5-8: il novenario in questo caso è una sorta di “ottonario mancato”, una variazione sul tema dell’ottonario, e ne acquista quasi lo stesso ritmo.
L’ottonario della scuola siciliana non ha un ritmo così forte, all’inizio, ma lo acquista ben presto. Del resto l’ottonario pare fatto per avere una scansione stabile e inesorabile. Lo si vede anche in quei suoi antenati che si trovano nella poesia latina liturgica d’epoca cristiana, come nello Stabat Mater
Stabat Mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa
o in tutta la cosiddetta Sequenza dei morti:
Dies irae, dies illa,
Solvet seclum in favilla,
Teste David cum Sibylla.
Quantus tremor est futurus,
Quando judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus.
[…]
Che io leggo sempre cantando così oppure così.
Dai morti ci scostiamo subito per tornare a temi più lieti e lievi, ché l’ottonario sa essere anche allegro. Parliamo dunque del ruolo che può avere l’ottonario nelle filastrocche e nelle cantilene.
In distici di ottonari parlava il Corriere dei Piccoli, da Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura in poi.
Negli ottonari si cela talora la voce di Gianni Rodari (Filastrocca del gregario / corridore proletario, / che ai campioni di mestiere / deve far da cameriere, / e sul piatto, senza gloria, / serve loro la vittoria).
Ma, in generale, l’ottonario si presta alla filastrocca perché è rassicurante e prevedibile: è dunque uno dei casi in cui la forma si adegua al contenuto e lo plasma.
In tale contesto è naturale tentare una composizione in ottonari che parli proprio del ruolo degli ottonari nelle filastrocche, della capacità che hanno di accompagnarci col loro ritmo cadenzato, di tenerci compagnia e di infonderci una seppur impalpabile e irragionevole fiducia. Sono quattro strofe in ottonari: la struttura delle rime della prima e dell’ultima strofa è ABABCCAB, ABABCCBA quella delle altre due strofe.
Cantilene e filastrocche
sono fatte d’ottonari,
per suonare nelle bocche
con quei ritmi forti e pari
con i quali s’accontenta
ogni cuore che le senta:
sian profonde oppure sciocche,
vere o merce di falsari.
Son la polpa del coraggio,
filastrocche e cantilene:
l’incredibile ingranaggio
che solleva dalle pene
l’innocenza ch’è smarrita
nei meandri della vita,
al di là di male e bene.
Chi le canta si fa saggio.
Ci daran consolazione
con l’inganno d’un bel verso,
mentre l’immaginazione
va in un mondo un po’ diverso;
si lenisce con dolcezza
ogni timida incertezza
lì dov’era andato perso
il cantar della ragione.
E se forza non ci danno,
non dobbiamo disperare:
ché di un giorno, un’ora, un anno
questo tempo fan passare.
Le cantiamo e volan via
la paura e la follia,
con parole che si fanno
sol per questo ricordare.
Una prosa è una prosa è una prosa: La Rana
Visto che questa settimana si parla di filastrocche e speranze, propongo allora una sorta di fiaba, e che Propp mi perdoni. La Rana fa parte di Cronache da un paese ipotetico ed è il primo racconto da me scritto in età formalmente adulta. Avevo vent’anni. Protagonisti della storia sono una candela profumata a forma di Rana, che mi era stata regalata davvero e che, confesso, trova in questo racconto la sua sorte migliore, una Tromba e un Gatto. È una storia di amicizia, di soffitte polverose, di illusioni d’amore, di nobili sacrifici e di implacabili tristezze che cercano un senso. È anche una delle prime volte, credo, in cui ho dato voce a degli oggetti rendendoli personaggi a pieno titolo di una storia. L’ho rifatto in versi, quest’anno, per un poema che uscirà a breve. Ma non anticipiamo troppo e torniamo al racconto: qui è quando la Rana e la Tromba decidono di uscire dalla soffitta e di andare a esplorare la città.
Le due amiche si ritrovarono d'un tratto all'aria aperta e fu un gran sollievo, per la Tromba, riscoprire che il cielo non era affatto quadrato così come lo si vedeva dalla soffitta. Lo strumento guardò le stelle, una distesa sfolgorante di stelle che luccicavano tremolanti. “Devono essere proprio tirate a lucido” commentò, osservando i suoi pistoni d'ottone, “chissà di quale metallo prezioso sono state fatte”.
La Rana sorrise: “Ma no” gracidò, “le stelle sono come delle candele sempre accese. Me lo diceva sempre il mio vecchio padrone.”
“Oh” fece la Tromba, un po' delusa “credevo si trattasse di lontanissimi strumenti musicali, di una Grande Orchestra”, e aggiunse ammirata “Però il tuo padrone doveva es- sere un grand’uomo, se con lui hai imparato tutte queste cose!” Le due stettero ancora qualche minuto a contemplare le stelle e la luna, poi l'incessante miagolio dei gatti le riportò alla realtà. “Bestiacce” sbottò la Tromba “non hanno il minimo gusto musicale!”
“Strillano come matti. Sarà l'amore!” fece la sua compagna, che il lungo viaggiare aveva reso assai esperta di etologia.
La Rana e la Tromba cominciarono, ritenendo più sicuro evitare le strade, a muoversi fra i tetti alla ricerca di uno spunto interessante. Nessuna delle due conosceva bene i luoghi e in più erano costrette a muoversi nell’oscurità quasi totale: spesso dunque finivano col chiedere indicazioni agli Oggetti che incontravano. Malgrado l’innata solidarietà tra le Cose, però, ben presto le Nostre si resero conto che nessuno degli avventori finora incrociati (una Scarpa Vecchia, una Bottiglia Rotta, una Molletta da Bucato e poco altro) aveva la più pallida idea di dove si potesse trovare un locale in cui suonassero della buona musica.
“Temo” si rassegnò la Rana “che dovremo chiedere a qualche animale”.
E, manco a dirlo due volte, proprio in quel mentre si stava avvicinando un grosso Gatto grigio con dei lucenti occhi dorati che piacquero molto alla Tromba. “Questa poi!” miagolò divertito il felino “Non mi era mai capitata: un lumino e una trombetta a spasso insieme. Vi siete perse, ragazze?” Nonostante la sorniona strafottenza non sembrava davvero un cattivo gatto, così la Tromba per una volta prese l'iniziativa e l'informò educatamente: “Buonasera, gentile animale. Io sono una Tromba in Do della famiglia degli Ottoni, e questa è la mia amica Rana della famiglia delle Candele.”
“Felis Silvestris Catus, ordine dei Carnivori, famiglia dei Felidi” fece la bestia “Sottotipo bastardo. Gatto, per gli amici.”
Figure
Si conclude la puntata con una breve poesia inedita sulla speranza. Sono endecasillabi.
È la speranza quel lusso feroce
che non si sa se è tardo, o se precoce:
che vive, come un canto trattenuto,
dentro i silenzi assurdi della voce.
vecchia fotografia da me scattata in un’area di sosta sulla autostrada A14
E qui chiudiamo. La settimana prossima si scuote l’universo e arriva ciò che muove il Sole e l’altre stelle: Sillabe si lancia nella terza rima.
A differenza delle altre citazioni, questa potrebbe essere meno nota. Si tratta dei primi versi dell’inno degli studenti del 1848, uno dei tanti canti che costellarono il Risorgimento italiano.