Introduzione
Questa settimana Sillabe parla di desideri. I desideri sono il motore di un sacco di belle cose, tra cui certa poesia, il sogno, il futuro, le relazioni umane. Sono altresì la scaturigine di cose brutte, tra cui le relazioni umane, il futuro, il sogno e certa poesia, ma il punto è che non se ne riesce a fare a meno, e quindi eccoci qui: a smontare e rimontare madrigali, a parlare di scelte mitologiche e di attrazione gravitazionale.
Al solito, ci sono tre sezioni: Scatola di montaggio, che contiene una spiegazione di come funziona una certa struttura (il sonetto, la ballata, eccetera) e qualche esempio a seguire, scritto per l’occasione. Le altre due sezioni sono Una prosa è una prosa è una prosa, che parla di miei vecchi lavori in prosa e Figure, che contiene un brevissimo componimento poetico (un haiku, un distico, una quartina) illustrato da me.
Sillabe pubblica contenuti nuovi ogni venerdì, salvo eventi di forza maggiore.
Scatola di montaggio: il madrigale
Che la poesia sia la parte della musica che rimane quando il suono se ne va via, è cosa risaputa; ed è cosa risaputa che, prima che ci abituassimo a vedere la poesia come qualcosa che se ne sta scritto su una pagina bianca, essa era voce cantante, o un insieme di voci cantanti. La sua struttura ricorda spesso questo passato sonoro, e il madrigale non fa eccezione.
Il madrigale è un componimento breve e dalla metrica varia. In Italia nasce nel Trecento con una struttura abbastanza semplice: è un susseguirsi di terzine che si chiude con un distico in rima, o con una quartina in rima baciata. Le terzine possono essere in rima incatenata o possono far rimare il secondo verso con il terzo. Il metro è, in genere, l’endecasillabo. Più avanti nel tempo lo schema si apre alle variazioni, e possiamo trovare anche dei settenari; col passare dei secoli anche la struttura si libera dai vincoli e si osservano versi singoli seguiti da sequenze di distici in rima, o intrecci di rime più elaborati, in cui il distico finale scompare.
Del madrigale nella sua epoca d’oro - il XVI e il XVII secolo - ricordiamo soprattutto le sue versioni cantate polifoniche: ecco allora che il madrigale si veste delle musiche di un Orlando di Lasso, di un Luca Marenzio o di un Claudio Monteverdi. Il suo uso poetico e musicale declina nei secoli successivi, salvo riemergere in tutta la sua gloria in Amici miei atto secondo, modulato secondo le esigenze di un ritmo quinario, coi nostri eroi tramutati in Cinque Madrigalisti Moderni che presentano al pubblico sacro e profano di Pistoia il loro Ma vaffanzum.
Ma a che serve, un madrigale? Di che parla? A chi si rivolge? Il madrigale, in origine, tratta d’amore: lo vedremo svilupparsi poi in rapidi idilli e scene bucoliche, che vireranno talvolta in lepidezze d’altra sorta; col passare dei decenni e dei secoli sconfina però anche nella filosofia, nella diatriba, prende la rincorsa ed esce nel mondo sposando la morale all’arguzia. L’amore, dal canto suo, si fa intrattenimento, è presentato con leggerezza, quasi come scherzo, come un gioco dei ruoli e delle interpretazioni. Un madrigale diventa un modo per tenersi compagnia fra amici e sodali, un espediente poetico su cui appoggiare l’allegria e spesso la malizia dei sottintesi amorosi.
Per il primo degli esempi che ho scritto questa settimana mi attengo allo schema originale trecentesco: terzine chiuse da una rima baciata, e distico finale. Il metro è l’endecasillabo.
Devotamente al canone, si parla d’amore. O meglio, di desiderio.
Ch’io tremi ancora contro al desiderio
è fatto che, pietoso, il corpo vuole
tacere, chiuso fra le sue parole;
e che l’antico pegno di un ardore
sia fatto d’aria storta, ovunque, e stanca,
è segno che la vita non mi manca.
Ma qui rido di me, poiché la voglia
si schiude alla paura e non ignora
il simile pallor che le colora:
e la risata stride, tale e tanta
che sale tra le labbra e ama e canta.
Anche il secondo madrigale parla di desiderio. Ma, siccome siamo in un mondo biecamente devoto al consumo (a proposito: potete comprare quello che scrivo!), ecco che il desiderio adesso altro non è che parte di un bisogno materiale di accumulo gestito da regole economiche sovente cieche allo iato tra il modello teorico e la natura umana. Lo scherzo viene a occhieggiare in controluce. Cambia anche la struttura metrica, che si fa più ardita e mischia endecasillabi e settenari1. Potete immaginarlo cantato a cinque voci accompagnato da una musica dalle ariose volute barocche o tardo-rinascimentali oppure leggerlo così com’è, che va bene lo stesso.
Di voglia d’ogni cosa c’è profumo
nell’aria che mi tocca
i bordi della bocca,
e d’aver più con me chiedo e presumo
di questo mondo acquistabile a tratti,
in cui sommariamente si confonde
la mano del mercato che mi afferra.
Io voglio e amo e compro e straccio patti
mentre quel desiderio si diffonde
mai vendicato ovunque sulla Terra,
e dice sogni e ardore, e dice guerra,
di tutti amico ostile,
padrone dello stile,
incendio indelicato del consumo.
E avide parole grida intorno!
Di vita, di risposte già non paghe,
di merce d’altro passo vagabondo,
viaggiando innamorato d’ogni giorno
tra genti mai presaghe
di ciò che il desiderio fa col mondo.
E languido scintilla dallo sfondo
pagato e inappagato,
in sé precipitato,
caduto per spiccare un nuovo volo
e ricadere ancora nudo al suolo
finché viene venduto,
finché non resta muto,
finché non torna a esser messo a nolo.
Una prosa è una prosa è una prosa: la divina
Ancora sul desiderio. Vecchio racconto compreso in Cronache da un paese ipotetico, La divina è una rivisitazione in chiave contemporanea della storia in cui il povero Paride deve giudicare la bellezza delle tre dee. Qui Paride non c’è, ma le tre dee sì, e si ritroveranno a casa di una di loro a bisticciare su antiche glorie e presenti malinconie. C’è una rapidissima citazione de La morte della Pizia di Dürrenmatt, ma soprattutto un’atmosfera che, involontariamente, richiama quella derelitta di Viale del tramonto, con una Gloria Swanson moltiplicata in tre caratteri in reciproco disaccordo e comune disgrazia.
Una volta le avevano detto che lei incarnava la sacralità del matrimonio: adesso ne rideva, dopo tanti anni. Rideva anche della sua passata gelosia, delle sue vendette feroci nei con- fronti delle amanti di suo marito. Che altro avrebbe potuto fare, arrivata alla sua età? Rideva e il suo riso ricordava il gorgogliare di un pozzo. Avrebbe dovuto cominciare una buona volta a fare le pulizie, ma non aveva voglia; si sentiva le gambe pesanti, stava invecchiando, inesorabilmente. Le bianche braccia per cui da giovane andava famosa erano due grosse salsicce dai muscoli bastonati e le ossa gonfie di reumi si perdevano sotto falde di pelle molle, piena di efelidi e cheratosi, e gli splendidi capelli erano una massa grigia come una sterpaglia metallica. Il campanello suonò e lei si alzò. “È il postino” comunicò a mezza voce a sé stessa. “Adesso vengono con la bicicletta, non più con le ali ai piedi”. La busta era indirizzata a lei. Era, figlia di Crono e Rea e sovrana dell’Olimpo, ringraziò il postino e rientrò in casa come una lumaca nel guscio. Il rumore delle sue pan- tofole che strisciavano sul pavimento male incerato era qualcosa che assomigliava al suono della crescita di una muffa. Tornò a sedersi nella sua poltrona preferita e aprì la lettera. La lesse due volte, e poi una terza e una quarta volta, per sicurezza, tanto era breve, e ancora al quinto passaggio gli occhi le si incrociavano e non capivano e tantomeno capiva il suo cervello. Il cuore faceva dei sussulti. La lettera era anonima e il testo consisteva di due sole righe: “Unica e divina/ Per me sei tu la più bella”.
Figure
Dal desiderio si passa all’attrazione: gravitazionale, però, e con una quartina inedita in rima baciata. I primi tre versi sono endecasillabi, l’ultimo è un settenario, messo lì nella sua relativa brevità per spezzare il ritmo e, con questa irregolarità imprevista, per dare l’idea che ci sia una domanda, un interrogativo sui misteri del cosmo. E, quindi, un altro desiderio che parla di sé.
Dentro la gravità che tutto crea
guardai la notte intera finché tacque
la luna morta che muove le acque
e chiama la marea.
E per questa settimana è tutto. Alla prossima! Nel frattempo, qui c’è il mio vecchio blog: Un’altra versione
Curiosità: la struttura ricalca esattamente quella del madrigale Non si levav’ancor l’alba novella scritto da Torquato Tasso e musicato da Claudio Monteverdi, che si trova nel Secondo libro dei Madrigali (1590) di quest’ultimo.