Chiudiamo la doppia puntata sulla sestina lirica con qualche altra breve nota. Ricordo che la prima parte è uscita venerdì scorso e si può trovare qui.
Scatola di montaggio: la sestina lirica / 2
La struttura metrica della sestina lirica, articolata com’è, è sempre stata un cimento formale e un oggetto di speculazione tecnica. Innanzitutto, la scelta delle parole-rima, quelle che chiudono il verso: esse sono spesso rime potenzialmente difficili, parole con cui è arduo o addirittura impossibile trovare una rima: se volete scrivere una poesia con la parola fegato, la sestina potrebbe essere la soluzione ideale. Dante chiamava queste parole irsute.
Un’altra caratteristica della sestina lirica è data proprio dal fatto di essere composta di sei strofe, e proprio con quelle permutazioni lì. Questo la identifica come un unico ciclo poetico, sei strofe di sei versi, con un ordine che non può ripetersi se non a partire da una potenziale settima strofa. Un blocco unico, variegato al suo interno ma al contempo straordinariamente coeso1: un fattore estetico, questo, che contribuirà molto alla fortuna e alla diffusione della sestina nel corso dei secoli.
Dalla penna di Arnaut Daniel (e dai suoi dadi da gioco), infatti, la sestina ne ha fatta di strada. La forma è stata dapprima ripresa dai trovatori Guilhem de Saint Gregori e da Bertolome Zorzi, che la ricalcano nei loro sirventesi2. È stata usata una volta da Dante, che in Daniel vide un modello imitabile. È passata fra le mani di Francesco Petrarca, e come quasi tutto quello che Petrarca toccava ha avuto grandi riscontri in Europa3. La fortuna della sestina quindi si deve moltissimo all’autore del Canzoniere, che la impose come schema fisso ricavandolo da quello già usato da Dante, che a sua volta aveva imposto l’uso dell’endecasillabo. Ma non è solo la fama oltre confine di Petrarca a farle da traino.
Nascono nuovi metri derivati dalla sestina, come la canzone ciclica ancora di Dante, che combina cinque stanze di dodici endecasillabi, o la terzina lirica di autori quattrocenteschi come Antonio da Montalcino. La letteratura combinatoria avrà peraltro fortuna anche in prosa fino ai giorni nostri, basti pensare a Perec o a Calvino.
Troviamo sestine in Giusto de’ Conti e in Leon Battista Alberti. La sestina canonizzata da Petrarca si diffonde in Europa, dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alla penisola iberica, talora con qualche prima variante di assestamento per quanto riguarda la permutazione delle parole, per poi virare sulla forma canonica; troverà grande fortuna soprattutto in epoca rinascimentale e barocca, tempi in cui il suo intrinseco virtuosismo non poteva non essere apprezzato. Diventa un modello importante della poesia bucolica a partire dall’Arcadia del Sannazaro che contiene due sestine, di cui la prima doppia: Chi vuol udire i miei sospiri in rime4 e Come notturno ucel nemico al sole. Dopo l’Arcadia l’uso della sestina si pone come una sorta di obbligo stilistico in tutti i poemi di argomento pastorale, in varie lingue e diversi paesi europei.
La sestina lirica arriva all’epoca moderna e a quella contemporanea. Scrivono sestine Carducci e D’Annunzio, ma anche Ungaretti e Franco Fortini, che qui ritroviamo con la prima strofa della sua Sestina a Firenze:
Sempre all’inverno delle torri un fiore
si posa appena aprile apre la terra
con il suo giunco d’aria e agita argento
al riso desolato delle sale
alle armi dei chiostri. Un fiore d’erba
d’aliti cauti anima le pietre […]
Scrivono sestine, altresì, poeti come Ezra Pound o Wystan Hugh Auden. Ecco quest’ultimo nel suo Paysage Moralisé, così sentiamo come suona la sestina in lingue diverse dall’italiano:
Hearing of harvests rotting in the valleys,
Seeing at end of street the barren mountains,
Round corners coming suddenly on water,
Knowing them shipwrecked who were launched for islands,
We honour founders of these starving cities
Whose honour is the image of our sorrow […]
Ma torniamo al paese dove il sì suona, e alle potenzialità combinatorie della sestina lirica. Il fatto di avere delle parole-rima con cui costruire un’intera struttura mi ha spesso ricordato le basi azotate con cui il DNA “scrive” la storia della vita. Certo, le parole sono sei e le basi azotate sono quattro, e le permutazioni dell’acido nucleico sono molto più variegate e complesse, ma il comportamento sottostante non è dissimile. E insomma, volevo una scusa per comporre una sestina lirica sul DNA, con cui chiudere questa Scatola di montaggio (se no perché si chiamerebbe Scatola di montaggio?)
Le parole sono forse meno irsute di quelle che avrebbe voluto Dante; legge e prova sono al più un po’ ruvide, ma copia è oggettivamente irsutissima!
Eccoci dunque. Lo schema è ABCDEF-FAEBDC-CFDABE-ECBFAD-DEACFB-BDFECA per le stanze, BA-DF-EC per il congedo. Le parole che chiudono i versi sono questo (A) , copia (B) , vive (C) , errore (D) , legge (E), prova (F).
Noi siamo, in fondo in fondo, tutto questo:
cosa gentile copiata che copia
sé stessa e già nel farlo allora vive,
si riproduce sul bordo d’errore,
si scrive lungamente e poi si legge,
si mette infine solerte alla prova.
Ad adattarsi comunque si prova
da sempre noi. Siamo detti, per questo,
soggetti a un’antica e greve legge
che pur di noi ha fatto stampo e copia
avanti andando d’errore in errore,
e bestie e poi persone ancora vive.
Si muta allora, si tenta, si vive,
si sbaglia, s’interrompe, in una prova
continua, priva di senso e d’errore
invece colma. Sappiamo far questo,
ciascuno minimo scarto di copia
d’un altro, una scrittura che si legge
e si dimentica mentre si legge,
e poi s’impara di nuovo; che vive
mentre procede vagando e si copia.
Non c’è destino dentro a questa prova,
anche se lo crediamo nostro, e questo,
greve di causa. Del male un errore
abbiam creduto il nome, e dell’errore
abbiam cercato la colpa e la legge.
Non c’era nulla, no, di tutto questo:
un caso solamente, e larghe e vive
necessità sempre messe alla prova.
Si scrive, si corregge, e poi si copia,
si sbaglia, si dimentica; la copia
a volte muta soltanto l’errore,
a volte lo corregge, o almeno prova,
incastra segni cercando una legge.
Così si muore, si cambia, si vive,
si fa diventar quello ciò ch’è questo.
Io fui la copia e ora sono questo;
io fui l’errore, o soltanto la prova?
È mutila la legge di chi vive?
Una prosa è una prosa è una prosa: La custode
Penultimo titolo di Sono racconti per nessuno, La custode parla di una anziana e solitaria custode di un improbabile museo di un paesino montano e dei suoi rapporti coi quadri. Il racconto comincia così:
All’inizio, pensava, le giornate primaverili piene di sole erano davvero deliziose; rinfrancanti, avrebbe potuto anche dire. Le davano quella forma di sollievo fisico e mentale che caratterizza l’uscita dall’inverno, e da quelle parti l’inverno era sempre stato pesante, rigido, e mano a mano che lei invecchiava se lo sentiva addosso ogni anno di più. I dolori, per dire; come sua madre un tempo, e sua nonna prima di lei. Generazioni di acciacchi. Però anche il sole primaverile le cominciava a venire a noia ben presto, spesso addirittura prima di Pasqua. Che cosa c’era da aspettarsi da giornate simili? Il tepore, le promesse, ma erano sempre uguali; e le sembrava, a un certo punto, che anche le promesse e il tepore fossero concetti vaghi e comunque differibili a una giornata successiva, anch’essa uguale alle precedenti. Tranne la domenica, giorno in cui il museo era chiuso; il che era stupido, perché di domenica venivano più turisti, ma non era cosa su cui lei potesse mettere bocca, e così non ce la metteva più. E ad ogni buon conto non è che le domeniche fossero poi così diverse dagli altri giorni, perché le usava per pensare alla settimana appena trascorsa e per prepararsi alla successiva, che sarebbe stata del resto uguale alla precedente. Avevano giusto quella funzione sacra e umana di regolazione del ritmo.
Figure
Da Haiku in bianco e nero.
Vuole danzare
la forma inascoltata
del nostro corpo.
E con questo abbiamo permutato ciò che doveva essere permutato. Il dado è tratto, eccetera eccetera. Sillabe torna la settimana prossima con la prima di due puntate scritte in collaborazione con ChatGPT, per esplorare giocando le potenzialità dei large language models nella composizione poetica. Con un omaggio a Stanislaw Lem e a Primo Levi, e un’escursione in un certo Poema di una macchina.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo
Se vi piace l’algebra astratta, in questo momento siete felici.
Componimento di origine provenzale che consiste in una lirica elogiativa nei confronti delle gesta del proprio signore. Il sirven, in provenzale antico, è appunto il servente, o servitore, che compone l’opera in onore del signore. Al sirventese, e alle sue versioni italiane, sarà dedicata una puntata di Sillabe nel 2024.
In piena estasi poetica, alcuni anni fa passai per Avignone con il preciso intento di recarmi a meditare sul Mont Ventoux, luogo della memorabile ascesa di Petrarca (e di Pantani in seguito, ma non avevo una bicicletta con me; anzi, eravamo in moto). Sciaguratamente un male ostile mi colse, avendo io mangiato frutti di mare crudi, e la mia permanenza avignonese si risolse più in albergo in una cattività di reminiscenza pontificia che in una suggestione lirica - oddio, composi comunque un pregevole sonetto sull’Imodium. Però l’ascesa al Mont Ventoux mi è rimasta come un rimpianto lirico mai sopito, sicché mi consolo scrivendo sestine.
Musicata in un madrigale da Luca Marenzio. Sono stata tentata di usare questo verso come sottotitolo di Sillabe.