La poesia è il tributo che la parola scritta paga alla sua antica tradizione orale: nei versi e nella metrica risuonano - è il caso di dirlo - ritmi e timbri della lingua parlata, si inseriscono i suoi silenzi, si sente la sua cadenza, si regolano lo spazio e il tempo a seconda delle sue scansioni.
Ma la poesia è riuscita a ritagliarsi anche uno spazio in cui la lingua parlata sembra avere meno potere, sembra quasi rimanere interdetta: e si è dischiusa verso il territorio altrimenti illetterato - ma non muto - dell’immagine e dell’arte figurativa.
Questa settimana Sillabe si occupa dei calligrammi e dei technopaegnia.
Scatola di montaggio: parole e figure.
Calligrammi e technopaegnia sono due dei modi in cui l’espressione grafica può contaminare la poesia e inserirsi nel discorso altrimenti lasciato alla mera parola.
Vediamo innanzitutto di capire di cosa stiamo parlando. Si tratta di modelli espressivi che permettono una coesione tra la parola e l’immagine: uno scambio semiotico, o una sovrapposizione semiotica addirittura, tramite cui non è più possibile distinguere nettamente i ruoli comunicativi della parola e dell’immagine.
La parola perde la sua centralità, perché non è più da sola, ma acquista un valore aggiuntivo tramite l’immagine. Se la scrittura, di per sé, costituisce un ponte tra il mondo verbale e quello figurativo, nei calligrammi e nei technopaegnia il baricentro si sposta a favore del secondo mondo: tuttavia la parola è sempre lì, presente e ossessiva, è lei che definisce le figure, non vuole cedere il suo ruolo.
Sì, ma nello specifico? Come sono fatti?
Un calligramma è un testo scritto - poetico, in questa sede - la cui composizione sul foglio segue la disposizione di una serie di figure a discrezione dell’autore. L’impatto della poesia è quindi dato sia dalla lettura del testo che dalla visualizzazione delle forme che il testo assume, e che hanno generalmente a che fare con l’argomento di cui tratta il testo. Questo per esempio è La colombe poignardée et le jet d’eau di Guillaume Apollinaire, che di calligrammi è stato indiscusso maestro ed è probabilmente il primo nome che ci viene in mente quando pensiamo a questa forma d’arte.
I technopaegnia (singolare: technopaegnion) sono bestie antiche, e sono imparentati con la poesia epigrammatica alessandrina. In questi brevi scritti il testo è composto in modo non da creare una forma esso stesso, ma da riempire il contorno di una forma prefissata, adattando a tale scopo la lunghezza dei versi. Qui vediamo una riproduzione moderna del celebre Uovo di Simmia, poeta e autore di epigrammi che visse a Rodi nel III sec.a.C.
Oltre a questo carme figurato Simmia ne scrisse (almeno) altri due, che rappresentano rispettivamente delle ali e una scure.
Quando si parla della commistione fra parole e immagini, o figure, ci sono anche altre “costruzioni” da ricordare, anche se in questa sede non le vedremo da vicino. Citiamone giusto alcune: gli emblemi, che ebbero grande fortuna in epoca rinascimentale e barocca, e che sono delle immagini corredate o meno da un testo da cui si doveva desumere una qualche forma di insegnamento o di morale. Forse il più noto autore di emblemi è il milanese Andrea Alciato (o Alciati), che all’inizio del Cinquecento fu autore di un libro illustrato chiamato appunto Emblemata. Ci sono poi i labirinti verbali, e i labirinti sono oggetti diffusi in moltissime culture1, dall’Indonesia all’India passando ovviamente per la Grecia e la mente di Borges (e per le prime due stagioni di Westworld, se le avete viste prima che la serie stessa diventasse un labirinto). Vale la pena citare, ma giusto di sfuggita, i labirinti di versi di Optaziano Porfirio o di Luis Vaz de Camões, le cui meccaniche ricordano le permutazioni che abbiamo già visto nelle puntate 21 e 22 parlando della sestina lirica, e che poi traggono ulteriore linfa dalle applicazioni combinatorie della lingua simbolica studiate da Raimondo Lullo; e la Metametrica di Juan Caramuel de Lobkovitz, che è al contempo un libro poesia figurativa e un compendio sui poeti iconici italiani. Erano i tempi in cui si cercava di incastrare la poesia nella matematica e viceversa. Eccone qui una pagina:
C’è poi la poesia concreta del secondo dopoguerra, che sfrutta le potenzialità dei vari caratteri tipografici riprendendo il lavoro fatto all’inizio del secolo dalle avanguardie rappresentate all’epoca da surrealisti, dada e futuristi: pensiamo come precursori gli stessi calligrammi di Apollinaire, lo Zang Tumb Tumb di Marinetti, o l’opera sperimentale di un poeta come Vasily Kamensky. Qui la pubblicità si è rivelata essere un enorme e fertile terreno di conquista.
Ma veniamo a noi, volando a più basse quote. Per questa Scatola di montaggio ho provato a cimentarmi anche io con la poesia figurativa. Eccomi dunque alle prese con un calligramma che parla (e disegna!) di ciò che si dice e di ciò che non si dice e di ciò che si deve tacere e invece si dice lo stesso,
e con un technopaegion che ricalca la distribuzione a campana di Gauss, che è quella che gli statistici usano per descrivere il comportamento delle variabili casuali a valori reali che tendono a concentrarsi attorno a un unico valore medio. La distribuzione è detta anche normale, e dà lo spunto a chiunque se ne occupi di porsi la fatidica domanda: ma che vuol dire, poi, normale? C’è qualche significato più profondo al di là di quello statistico? E perché ci lasciamo suggestionare da quanto un valore si discosta o meno dal valor medio anche quando non ci sono altri significati al di là di quello della distribuzione di probabilità? Figuriamoci!
(Appunto.)
Una prosa è una prosa è una prosa
Veniamo al racconto Il capannone, che è uscito l’anno scorso gratis per Natale insieme a L’aeroporto nella mini-raccolta Bastava il pensiero (ne abbiamo già parlato in una puntata precedente: potete scaricarlo da lì, o dal mio blog Un’altra versione - scartabellate nella colonna di destra)
Il capannone parla - ebbene sì - di un capannone, perché è vero che vivo molto distante da dove sono nata, ma è pur vero che sono nata e cresciuta nel Veneto centrale e certe situazioni, certi paesaggi, come dire, ti restano dentro come una geografia umana. In questo capannone succedono cose strane, di notte, e questo è un pezzo del racconto.
Il capannone era morto ma c’era stato un tempo in cui era vivo: a dirla tutta, era pieno di capannoni vivi, qui intorno, e nei comuni vicini, e nella provincia e nella regione. Un giorno vi fu un diluvio e l’acqua estinse la totalità del genere umano; e si salvarono soltanto Deucalione e Pirra, e dopo il diluvio Deucalione e Pirra dovettero ripopolare il mondo e gettarono dietro di sé le ossa della madre terra, e dalle ossa nacquero i capannoni. Doveva essere andata così, perché i capannoni popolavano tutto, essi erano le persone che li avevano costruiti, essi erano persone, in un certo senso, che è il senso economico, e affettivo anche, e quindi il senso dell’essere. Dentro i capannoni vivi ferve l’attività, e se c’è l’attività c’è la vita, e il lavoro che produce, e ci sono gli oggetti, e gli oggetti creano l’ambiente e il tempo.
“Ti ricordi cosa faceva Parpajola?” ho chiesto una sera. L’ho chiesto così, a qualcuno in generale, non importava chi, tra Luigi e Franco, volesse rispondere. E mi hanno risposto entrambi: uno ha detto una cosa e uno un’altra, e nessuno dei due si accomodava con quello che ricordavo io. Comunque non aveva importanza, perché tanto il capannone di Parpajola era morto, e richiamare il passato non fa rivivere i morti quando sono persone, e nemmeno quando sono capannoni.
Figure
Figure questa settimana si sente oppressa dalle immagini fin qui prodotte, ma continua imperterrita la sua funzione. Ancora da Haiku in bianco e nero:
I bordi dentro
i quali siamo chiusi
bordi non hanno.
E per questa settimana è tutto. Dovrei dire che è tutto anche per quest’anno, perché domani parto per le feste e la cosa più poetica che intendo fare è spaparanzarmi in sauna a pensare al nulla. Quindi si riprende a pieno ritmo dal 5 gennaio, con il sonetto caudato e le stranezze del Burchiello, poeta quattrocentesco con cui non mi sarebbe dispiaciuto scambiare due chiacchiere. Ma la settimana prossima Sillabe esce comunque, in edizione speciale, e si potrebbe anche dire che sarà un omaggio a Dickens.
Anche a voi e famiglia, nel frattempo.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
Diventa imbarazzante non citare a questo punto almeno il saggio Nel labirinto di Károly Kerényi.