Nella settima puntata Sillabe aveva trattato ciò che non è rima, ma quasi: assonanze e consonanze, rime ipermetre, tutto ciò che poteva avere a che fare con i concetti di “forse” e di “quasi”, perché parte del ruolo di una poesia è quello di girare sui ccontorni di realtà e sensazioni di chi si mette al di qua del foglio e di farli aderire, con diversa approssimazione, a chi invece rispetto al foglio sta al di là.
Si parlerà di approssimazione anche oggi, ma vedendola sotto una luce particolare. Il tema della settimana è il novenario, verso imparisillabo con accento obbligato sull’ottava sillaba. E che c’entra il novenario con l’approssimazione? Eh! È un discorso lungo, e tocca partire da lontano.
Tocca partire dai numeri, dall’aritmetica e dalla geometria, e se state inarcando un sopracciglio con sospetto è lecito. Ma andiamo avanti. Sappiamo che un numero reale - 1, 145, ln7, π, quello che volete - può essere razionale oppure irrazionale. Razionale vuol dire che può essere espresso come rapporto fra due numeri interi: sicché per esempio 0,5 è razionale perché può essere rappresentato come 1/2, e 1 e 2 sono due numeri interi, appunto.
Un numero irrazionale invece non può essere espresso in questo modo: ma nulla vieta che possa essere approssimato da una frazione, e soprattutto che l’approssimazione possa essere buona quanto vogliamo, cioè che la differenza tra il numero e la frazione che lo approssima sia più piccola di qualsiasi valore ci venga in mente.
Come si approssima un numero reale irrazionale, allora? Si possono seguire due strade. Una coinvolge l’algoritmo euclideo (che è quello che abbiamo imparato a scuola tutti quanti e che ci dice come si fanno le divisioni col resto) e l’utilizzo di uno strumento che si chiama frazione continua. Si prende un numero reale scritto nella sua solita rappresentazione “numero-virgola-qualcosa” e lo si scompone: da una parte ciò che c’è prima della virgola, che si chiama parte intera, dall’altra quello che c’è dopo la virgola, e che si chiama parte frazionaria. Si divide poi la parte intera per il reciproco della parte frazionaria e si ripete il procedimento fino ad avere una torre di frazioni l’una sull’altra. Fino a quando? Beh, ovviamente per sempre: un numero irrazionale è tale proprio perché non è esprimibile come rapporto fra numeri interi! Siccome però l’infinità del tempo non ci appartiene, ci tocca fermarci prima e utilizzare delle frazioni continue troncate, che prendono il nome di convergenti (il numero irrazionale di partenza sarà allora il limite di una successione di convergenti).
Un altro metodo per approssimare a piacere un numero irrazionale è invece geometrico ed è dovuto a Minkowski, lo stesso Minkowski dello spaziotempo della relatività ristretta. La branca della matematica che tratta questo tipo di problemi si chiama geometria dei numeri, e parte dalla considerazione che i numeri possono essere rappresentati come punti del piano, e sul piano possiamo costruire figure geometriche che ci aiutino a scoprire di quali proprietà aritmetiche godono i numeri che ci interessano. Minkowski in particolare dimostrò un teorema - che si chiama Teorema fondamentale di Minkowski - il quale in buona sostanza dice che se prendiamo una figura piana convessa di area sufficientemente grande, al suo interno o sul suo bordo ci sarà almeno un punto le cui coordinate sono numeri interi. Utilizzando questo teorema ed esprimendo i numeri irrazionali come pendenze di determinate rette nel piano, si arriva abbastanza rapidamente a dimostrare che un numero irrazionale può essere approssimato da frazioni di numeri interi con il denominatore arbitrariamente grande, e quindi l’approssimazione può essere buona quanto vogliamo.
Per chi volesse approfondire la questione, che qui ho non solo approssimato ma proprio tagliato con l’accetta, un paio di titoli:
A. Gioia, The Theory of Numbers - an introduction, ©2001 Dover
C.D. Olds, A. Lax, G. Davidoff, The Geometry of Numbers, ©2000 The Mathematical Association of America
Scatola di montaggio: il novenario
Dopo questa introduzione aritmetica, veniamo alla parte essoterica della newsletter, cioè al novenario. Il novenario, si diceva, è un verso in cui l’accento obbligato cade sull’ottava sillaba, e risulta essere quindi generalmente formato da nove sillabe, perché la maggior parte delle parole in italiano è piana. È anche un verso raro. Nella poesia italiana si usa molto poco, da quando è invalso l’uso del sillabismo: per quanto riguarda la lunghezza sta a metà strada fra i due grandi spadroneggiatori della metrica che sono il settenario e l’endecasillabo, e ha risentito della concorrenza. In più, crea qualche grattacapo con gli accenti interni, perché di regola gliene tocca uno sulla quinta sillaba, che è un luogo che sia il settenario che l’endecasillabo tradizionalmente aborriscono - l’endecasillabo con l’accento sulla quinta si chiama a buon diritto non canonico. A Dante, come ai suoi contemporanei, il novenario non piaceva: nel De vulgari eloquentia lo considerava estraneo alla nostra lingua e diceva che suonava male, come un trisillabo triplicato. Il che non gli impedì di scrivere comunque una ballata in cui alternava novenari e settenari, peraltro.
Il novenario fu poi riscoperto nell’Ottocento: lo si vede in Nicolò Tommaseo, che tra le altre cose traduce in novenari il Salmo 94, ma soprattutto da Carducci in poi, come resa italiana di versi greci (l’endecasillabo alcaico, per esempio). Pascoli lo esplorerà a fondo, variando anche l’accentuazione interna: 2ª 5ª 8ª, che conferiscono un andamento più quieto, 3ª 5ª 8ª o 3ª 6ª 8ª che richiamano il verso saffico e il gliconeo, o 2ª 4ª 6ª 8ª che mima la ritmica del giambo. Anche D’Annunzio ne farà indagine e uso.
Il novenario, in origine, ha accenti sulle sillabe 2ª 5ª 8ª, a cadenza cioè regolarissima, e che richiamano il ritmo dei suoi “vicini di casa” che sono l’ottonario (nella sua variante 3ª 5ª 7ª) e il decasillabo (3ª 6ª 9ª). È di fatto un verso imparisillabo che approssima i parisillabi, pur senza arrivarci mai; inganna l’orecchio, lo illude, a volte sembra farcela, ma poi ritorna dispari a definir se stesso, lasciandoci nel dubbio su cosa abbiamo udito.
E allora è tempo di far pratica di novenari.
Primo esempio, di soli novenari:
Cos’è che quindi viene prossimo?
Parlar dell’oggi, del domani?
Aver contato passi falsi,
averli posti in cerchi chiusi,
aver cercato di trovarci
il senso del confine noto?
Avevo te vicino, o quasi;
e io dov’ero, se non lì?
Però mancavi e ti aspettavo,
e arrivavi e ti aspettavo
ancora, domandando cose,
elaborando i giorni scorsi,
scompaginando fiori vecchi,
e ricalcandone i profili
con le parole che dicevi.
Le avevo apprese e fatte mie,
o quasi, erano così prossime
che già non servivano più.
Secondo esempio, in cui ai novenari si accompagnano ottonari e decasillabi, con accentuazione non necessariamente canonica:
T’ho visto che mi guardavi,
e poi non m’hai guardato più:
qualcosa che comune sfuggiva
adesso era tra noi durevole.
Che cosa sai? Che mi dici?
Che ti dicevo io, d’altronde?
Costretti a fare corse infinite
guardiamoci aridi stanchi,
da sempre non arrivati,
ancora invece quasi sempre
eternamente qui raccontando
chi siamo stati e fummo insieme,
e cosa già non potemmo,
con la parola resa a tratti:
tutto manca o non manca più nulla?
Una prosa è una prosa è una prosa: Il fico
Racconto che fa parte di Cronache da un paese ipotetico, Il fico parla di una storia narrata nella sala d’aspetto dello studio di un medico. Parla del tempo che passa e delle cose che si approssimano a essere altre cose, fino a che non sono già così diverse che non ci si ricorda più a che cosa dovevano approssimarsi.
Qui uno stralcio.
“Nella casa dove sono nato c’era un albero di fico. Non c’erano altri alberi e il giardino era una spianata di ghiaia che quando ci passavano sopra le ruote della macchina di mio padre, lentamente, sembrava musica. La casa è a due piani, bianca, senza tetto, o forse ero troppo piccolo per ricor- darmi il tetto; ce ne siamo andati che ero bambino e non la ricordo più. È ancora in piedi, ci abitano altre persone, ma per me non esiste più. Sono una persona che si dimentica facilmente dei propri affetti passati; però non ho dimenticato il fico. Guarda che è una storia singolare. La casa era questo cubo bianco e noi abitavamo al primo piano, in affitto, e avevamo dei pavimenti brutti e verdi, dove il sole si rifletteva male, scuri e irregolari. Amavo quella casa. Puzzava di fumo perché i miei genitori fumavano. Al piano terra abitava la padrona di casa, che era una vecchia decrepita” e qui Quattordici si guarda attorno con circospezione come se si aspettasse di vederla entrare dal medico. “Avrà avuto... mah. A quell’epoca mi sembravano tutti vecchi; forse perché si invecchiava più in fretta. E anche questa è una cosa che c’entra con... be’, aspetta, non farmi dire niente. La vecchia, insomma, era una signora tutta vestita di nero, sempre, che a vederla di fronte alla casa sembrava che avessero sporcato il muro con il carbone. Era vedova, istriana, con i capelli che dovevano essere lunghissimi, raccolti nella immancabile crocchia. Perché avevano tutte la crocchia, le vecchie? E poi viveva con due canarini; a volte mi faceva entrare a casa sua, ma io avevo paura, e ci entravo solo se mi accompagnava mia madre. E così potevo vedere i canarini. Erano ...be’, come sono tutti i canarini, no? Però erano così necessari alla casa: non ti saresti immaginato la casa senza canarini. Anche lei aveva il brutto pavimento verde; e i mobili scuri che si diceva si fosse portata dall’Istria; io adesso non so dire, e non sapevo dire nemmeno allora, da dove venissero. Ma qualche volta la vecchia raccontava sto- rie antiche di cui non si capiva niente, e io mi immaginavo che quei mobili venissero da lì, un po’ Venezia, un po’ i Balcani. Ma questo non c’entra con la storia del fico. O forse sì, perché la pianta era sua. Ma probabilmente no.”
Figure
Ultima puntata di Figure, che dalla prossima settimana passerà la mano a Calicanto. Nel frattempo vi ricordo che Haiku in bianco e nero è disponibile gratis in pdf a questo indirizzo e in cartaceo a pagamento su Amazon insieme a tutti gli altri libri.
Un corvo becca
i semi computando
numeri primi.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo
Arrivederci alla prossima settimana. Resteremo in qualche modo aggrappati al numero nove.