Fiori di pruno e di ciliegio, onde di mare e montagne azzurrine, oche selvatiche che si stagliano in aria come un ammonimento sulla natura dell’esistenza umana, un pescegatto che nuota, una spada che fende l’aria: parlando di haiku è difficile non tirarsi dietro tutti gli stereotipi iconografici che siamo soliti associare alla cultura giapponese tradizionale, anche al rischio che questi stereotipi soffochino tutto.
Ma tant’è: non possiamo farne a meno, e anche in questa sede, non potendo sbarazzarcene, li terremo come sottofondo amico, consci della loro esistenza stucchevole e problematica, senza cercare di nasconderli sotto il tappeto.
Si parla dunque di haiku, questa settimana. Come sono fatti? Perché hanno avuto tanto successo in occidente? E com’è possibile trasporli in lingue, come la nostra, che hanno una metrica accentuativa e non conoscono logogrammi?
Scatola di montaggio: haiku
Un haiku è un breve componimento poetico composto da tre versi di complessive diciassette sillabe metriche: cinque nel primo verso, sette nel secondo, ancora cinque nel terzo. Parlano in genere della natura e della vita umana, riuscendo a delineare con frugalità tratti essenziali della vita e del pensiero, portandosi a un passo dalla contemplazione mistica del mondo e al distacco trascendentale che ne consegue, in ottemperanza a ciò che il buddhismo zen richiede.
Prestando fede a Daisetz T. Suzuki e al suo classico Lo zen e la cultura giapponese (Adelphi, 2014) gli haiku, almeno da Matsuo Bashō in poi, sono uno strumento estetico che trascende la ragione. Si appoggiano al folgorante incanto che deriva dalla contemplazione di minuti accadimenti del mondo naturale, riflettendo intuizioni originali; rivelano la cosa in sé (mi si perdoni l’abuso linguistico-filosofico) al di là dei convincimenti emotivi e delle speculazioni filosofiche dell’autore, che anzi si pone come tramite passivo tra la sensazione inconscia e la sua espressione artistica. Sono, in altri termini, forma e compimento di quel che viene detto satori, cioè del momento in cui la coscienza del soggetto si annulla ed esso diventa tramite della relazione pura tra il particolare e il tutto.
Nati in Giappone come esperienza peculiare di quella cultura, nell’ultimo secolo e mezzo gli haiku hanno trovato fortuna anche in occidente, sia tra i poeti celebri che fra i dilettanti: tra questi ultimi, in special modo, deve aver fatto presa l’apparente semplicità compositiva, unita all’oggettiva brevità e all’impressione che si ha di poter dire rapidamente cose profonde (o senza senso. O entrambe le cose. O…) Anche quando non ne è stato fatto il calco metrico, la loro struttura e la loro impostazione hanno comunque influenzato poeti come Quasimodo o Saba.
Come possiamo rendere gli haiku in italiano? La trasposizione in italiano di una forma che si basa su presupposti metrici intrinsecamente differenti è, al contempo, un problema e un’opportunità, come si è altrimenti visto quando la nostra lingua ha cercato di interpretare la metrica classica greca e latina, che erano quantitative e non accentuative. Gli haiku possono essere affrontati seguendo la falsariga di questo metodo, cioè utilizzando le nostre usuali sillabe metriche e le nostre solite regole sulla sinalefe, sullo iato, sulle cesure, eccetera.
Se lo spirito degli haiku può essere difficilmente reso a causa della diversità di approccio tra il nostro modo di pensare e quello del buddismo zen, almeno la tecnica quindi può trovare una onesta trasposizione. Ed ecco allora cinque haiku, di fila.
Pensieri vuoti
saranno mai davvero
solo pensieri?
La vita storta
lascia sull’alto muro
ombre simmetriche.
“Mi prendo cura”
all’albero che muore
il seme dice.
A notte fonda
non voler dire niente
suscita un’eco.
Luce d’un fiore
apostrofa l’inverno
che sta finendo.
Ricordo anche che chi avesse voglia di haiku ne trova cento qui (gratis in pdf) o qui (a pagamento la versione stampata). Con tanto di illustrazioni!
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Da questa puntata, e per un paio di mesi, Una prosa… parlerà di un romanzo che si chiama Manuale di conversazione (2015) e che è stato il mio tentativo di coniugare Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte con Madame Bovary. No, non è vero: è stato il mio tentativo di parlare della vita quotidiana di una donna, come si dice adesso, neurodivergente1, una donna in sé probabilmente meno disfunzionale di tutte le persone normali che la circondano, e che ha però una enorme difficoltà a relazionarsi con gli altri facendo ciò che tutti fanno con apparente naturalezza: chiacchierare del più e del meno, cogliere le sfumature del linguaggio non verbale, avere rapporti, stare in società2. Siccome è una persona metodica e disciplinata, ecco dunque che Irene Cardin, ormai più vicina ai quaranta che ai trenta, si mette a scrivere ad uso e consumo di sé stessa un manuale di conversazione, interrogando una multiforme schiera di personaggi che, a suo dire, sono più competenti di lei in materia.
E di tutto ciò è stato fatto un romanzo. In questa sezione se ne pubblicherà di volta in volta qualche stralcio. Nel caso vi venisse l’irrefrenabile desiderio di comprarlo, il libro è disponibile sia in ebook che in versione cartacea.
Intanto che mi domando come mai non sia diventato un bestseller, questo è l’incipit3.
Mi chiamo Irene Cardin. In realtà i modi in cui mi hanno chiamata e tuttora mi chiamano sono diversi: Irene, i miei genitori e le persone a me vicine; Signora Cardin, gli sconosciuti; Ciccia, un uomo che mi ha amato, in passato; brutta troia, un signore screanzato che pretendeva che la sua bicicletta avesse la precedenza su di me che passeggiavo, nonostante un semaforo pedonale fosse lì a testimoniare in mio favore. Epiteti ingiuriosi devo averne ricevuti anche altri, ma questo risale a pochi giorni fa, per cui ho ritenuto di doverlo riportare. I medici mi hanno chiamato Irene, fino a che sono stata una ragazza; adesso mi chiamano signora Cardin, proprio come fanno gli sconosciuti, anche se non sono affatto una sconosciuta per loro. Da quel che posso capire basandomi sui pazienti che incontro qui deduco che quando sarò abbastanza vecchia, diciamo molto vecchia o piagata da una conclamata senilità cerebrale, riprenderanno a chiamarmi Irene. Per ora non c’è fretta. Dunque in questa fase della mia vita quasi nessuno mi chiama per esteso Irene Cardin, eccezion fatta per gli impiegati degli uffici pubblici ove mi reco a fare dei documenti, il che avviene di rado, ma se devo identificarmi in una stringa di dati penso sia comunque opportuno ricorrere a quella che mi è stata affibbiata all’anagrafe: mi chiamo Irene Cardin.
È la prima volta che scrivo qualcosa di così impegnativo e, soprattutto, che scrivo qualcosa che mi riguarda tanto da vicino. La dottoressa Leoni ha detto che questo lavoro potrebbe essere utile.
“Ma non so come impostarlo” ho protestato.
Lei mi ha guardata, è rimasta lì seduta fino a che non mi sono accorta che dovevo ricambiare lo sguardo, e ha detto: “È a sua discrezione. Non è un compito, non è un obbligo: penso soltanto che potrebbe tornare utile.”
Io non ho detto niente, anche se avrei voluto chiedere in che senso sarebbe potuto tornare utile, e quando, e perché, e come.
Me ne sono stata zitta per qualche secondo e poi ho risposto: “Va bene. Scrivo un manuale.”
Calicanto
Endecasillabi e settenari. I settenari servono a introdurre delle svolte narrative: la prima arriva al terzo verso. La seconda e la terza, più avanti, sono più ravvicinate, separate da un solo endecasillabo, quasi a indicare la fretta di finire, di dichiarare.
Otto miliardi d’altri
Caffè da sola al bar, intanto, e suona
per caso un pezzo (quale?) che ricordo.
Due donne qui discutono,
immerse e sopraffatte, del Vangelo,
un sole abbandonato sopra al tetto
si specchia nel caffè e non ce la fa.
Otto miliardi d’altri,
pertanto, vedi, ed è quasi Natale,
e tutto questo insieme,
che pago con un euro infreddolito,
è un indifeso codice miniato.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
io comunque ho sempre preferito dire neurodivertente.
Non è autobiografico. Cioè, non così tanto autobiografico.
Incipit da cui si vede, tra l’altro, che Irene Cardin deve aver avidamente letto Moby Dick.