Questa settimana Sillabe esce in formato anomalo, nel senso che ospita Scatola di montaggio e Calicanto, ma rimanda a venerdì prossimo il consueto appuntamento con Una prosa…
La scelta è dovuta al fatto che oggi il laboratorio di metrica ha prodotto una poesia piuttosto lunga, e non volevo appesantire troppo la newsletter.
Si parla della lauda, a proposito.
Scatola di montaggio: la lauda
La lauda è un componimento originariamente cantato, come spesso accade per la poesia: sfrutta sia musiche originali che altre riadattate, ed è sostanzialmente il modo con cui la lingua volgare fa il suo ingresso nella poesia di argomento religioso. La metrica è varia, spesso anisosillabica, cioè si possono alternare metri diversi, purché suonino bene insieme. Questo accade perché il termine lauda non designa una struttura metrica ben definita, ma si riferisce piuttosto al contenuto: possiamo parlare di lauda addirittura già per il Cantico delle creature, ma la forma si diffonde a partire dal Duecento grazie ai Disciplinati, uno dei vari movimenti penitenziali che sorsero in Italia all’epoca, come lo erano i più noti Flagellanti, detti così per l’abitudine di fustigarsi in pubblico (la disciplina del resto è uno strumento analogo). Qui lasceremo le fruste altrove e ci atterremo alla versificazione indolore, anche se il corpo avrà comunque agio di essere protagonista.
La lauda era una poesia cantata in lode a Dio, alla Madonna o, più tardi, anche ai santi, e gli autori erano perlopiù anonimi: ogni congregazione aveva la sua raccolta di laude, che venivano per l’appunto messe insieme in un laudario e poi cantate in occasioni particolari, come le processioni.
La lauda, soprattutto da Guittone d’Arezzo e da Jacopone da Todi, assume spesso e volentieri le forme della ballata (per una puntata specifica sulla ballata potete leggere qui): è quindi una poesia fatta di stanze dalla rima ripetuta, talora con rime interne, e con i suoi ritornelli.
Il tema delle laude, si diceva, è tipicamente religioso e celebrativo, non particolarmente suscettibile di divagazioni purchessia: e tale sarebbe forse rimasto se non fosse entrato in gioco Jacopone da Todi. Intendiamoci, sono religiose anche le laude che scrive lui, ma lo sono in modo talmente personale che il genere si allarga e si apre. Non sono solo una manifestazione di devozione: Jacopone ci mette dentro temi morali, filosofici, politici e, addirittura, autobiografici. A questo proposito bisogna davvero citare la sua lauda più famosa, che è Donna de Paradiso, un componimento in cui il tema della morte di Cristo viene fatto rivivere attraverso le voci dei protagonisti, e acquista perciò una forza e una vividezza che tutt’oggi rimangono sorprendenti. La trovate su Wikisource qui, e vale la pena di leggerla tutta. I versi sono settenari, raccolti secondo lo schema metrico AAC BB BC DD DC EE EC FF FC GG GC… (si tenga presente che vengono considerate rime, a causa della pronuncia locale, anche quelle che in italiano moderno sono tecnicamente delle assonanze, come Paradiso-preso o crucifige-rege-lege).
La Passione e il tema del Dio che si fa uomo hanno qui una magnifica luce umana, quasi più umana che divina, secondo me (ma ammetto sono di parte perché il mio senso del sacro è, come dire, vestigiale), e nelle parole e nei gesti della Madonna mi ricorda perfino certi accenti dell’Ecuba di Euripide: nella sua umanità, appunto, e nella sua prospettiva di madre che si confronta col dolore innominabile della morte del figlio. Ecco dunque Maria che parla tramite Jacopone. Settecento anni e non sentirli.
«O figlio, figlio, figlio,40
figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me’ angustïato?
Figlio occhi iocundi,
figlio, co’ non respundi?45
Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ sì lattato?».
Veniamo alla composizione di una lauda originale, però, che è tempo.
Sempre perché il mio senso del sacro è vestigiale, o forse perché il corpo umano è ormai esso stesso una prospettiva del sacro, almeno per quanto riguarda il suo utilizzo iconografico, ho deciso che l’argomento della mia lauda sarebbe stato il corpo della donna, visto da se stesso. A margine, tocca ancora pensare che la poesia ha a che fare con il ritmo, e il ritmo ha a che fare con la corporeità; e, quindi, con il tatto e la propriocezione; e, quindi, con la condivisione dello spazio e dell’esperienza umana.
Il soggetto è stato scelto perché è un concetto problematico. Lo è in quanto corpo umano, perché parte di una dicotomia antica e di successo tra corpo e mente, o ancor più tra corpo e anima, che ha imperversato lungo l’intera storia della filosofia e della cultura occidentale e non solo, e che tuttora ci porta a ritenere agevoli e naturali espressioni come avere un corpo, abitare un corpo, piuttosto che altre come essere un corpo. Eppure l’enfasi sul corpo come agente cognitivo ha stimolato studi biologici e riflessioni filosofiche importanti: da Dewey a Lakoff, da Damasio a Bateson, le letture sarebbero tante, ma per un’idea di fondo si veda per esempio qui.
Il soggetto è problematico anche in quanto corpo femminile: e anche qui la bibliografia sarebbe estremamente voluminosa (stavo per scrivere corposa), ma se si vuole un primo aggancio storico e filosofico su come il corpo femminile sia stato enucleato dalla riflessione sulla natura umana, o su come sia stato altresì oggettificato, si può sempre partire da Il femminile negato di Adriana Cavarero. La problematizzazione è tutt’altro che risolta; produce anzi fenomeni paradossali per cui chi ne parla spesso finisce col non parlare d’altro, e si riduce a sua volta a rendersi crogiolo di stereotipi o a barattare la levità sovente ambigua dell’arte con l’urgenza declamatoria del comizio.
Mai una gioia.
Per questo motivo Sillabe tocca l’argomento questa settimana e dalla prossima torna a sondare il resto dell’universo.
Quella che segue è una lauda a due voci, una voce interna e una esterna appartenenti però alla stessa persona, quasi fossero la sua versione privata e quella pubblica: per distinguerle ne ho messa una in corsivo. Il metro è l‘endecasillabo e le rime seguono la struttura ABBACC. Non è una ballata. Si tratta in tutto di 13 stanze.
Canto le lodi del corpo di donna
a cui si chiede d’essere completo
pubblico esempio, comune segreto,
puttana, vergine, madre, madonna,
asessuato estremo tentativo,
un punto di partenza e già di arrivo.
E tu sei questo, donna, e sono io,
psiche priva d’amore, o viceversa,
unica storia d’altri, propria e persa,
pretesa di un arbitrio, corpo mio,
fatale ingenua, spesso complemento,
cornice, nuda d’ogni sentimento.
Parlami, corpo: io, te, cosa sono?
Zone di me che non conosco ancora,
su cui posso indugiare per mezz’ora
sola tra me sprovvista di perdono.
Nel mondo definito dalla morte
tu porgi vita e poi la chiami sorte;
tu, corpo pieno di sacra alterigia,
carne di Rubens che tutta trabocca,
che canta con la pelle e con la bocca,
orma d’antichità steatopigia:
umanità di fegato e di bile,
tragedia del suo vivere civile!
Donna, ti elenco: vittima, maliarda,
utero muto disposto al bisogno,
caso felice che emerge dal sogno,
Circe e Calipso, sapiente Ildegarda1,
fedele, indisponente, tua soltanto,
riso che dice, inquietudine, pianto,
solo una vita alla volta, e sbagliata,
paura, incomprensione, “questa cosa”,
corrispettivo umano della rosa,
fertilità indisposta sempre amata,
crosta e radice insieme della terra,
cielo di pace e bottino di guerra.
Io sono tante cose, e differenti,
nemmeno già le stesse ieri e oggi:
nel definirmi scardino gli appoggi,
sorrido a voi con gli occhi, con i denti,
col seno apotropaico, un giorno emerso
a dare forma intera all’universo.
Continuo a definirmi, ma parziale
risulta inevitabile il racconto:
e quest’identità cui mi confronto
non è che traccia minima e banale
d’una realtà che nel mentre si spappola.
Ma torno a dire ancora la mia trappola:
Persefone e Demetra, però santa,
cucina, serve, mente e poi comanda,
aspra risposta in cerca di domanda,
autrice di sé stessa mentre incanta,
alchemico furore fatto a grembo,
ragione forte che intende di sghembo,
archetipo, vendibile, mestiere,
sangue che non ferisce e dice tutto,
ricostruttrice di un senso distrutto,
strumento di oppressione e di potere,
disobbediente per la conoscenza,
ignara della propria intelligenza.
Mano devota, infinita placenta,
compagna e libertà e poi catena,
il fulcro designato della scena,
quella che gode e dopo s’accontenta:
cos’è che, qui, fra tutte queste membra,
di me qualcosa d’altro vive e sembra?
Comunque bella, per obbligo, e degna,
musa di tutti i poeti solerte,
e gambe lunghe e tornite e aperte,
amica, cuore amaro che s’impegna,
nome totale, progetto e rivalsa,
figura immaginata e quindi falsa.
Canto le lodi mute di me stessa,
apologia sterminata e dovuta,
perché son io allontanata e perduta
e poi trovata, felice e depressa,
porto sicuro eppure oscuro covo:
e sono io e un’altra, e io di nuovo.
Calicanto
L’inverno è finito, e Calicanto con quest’ultima poesia ci lascia, perché il calicanto è un fiore invernale. Presto arriveranno cose nuove, che ci faranno compagnia per le ultime puntate di Sillabe, almeno per quel che riguarda Sillabe in questa versione (dopo l’estate, chissà). Restiamo in tema di corpi di donne che parlano di sé, in endecasillabi e settenari.
Noi
Vent’anni aveva, o cento,
o melodie traverse
del tempo addosso; di fronte allo specchio
nuda invocava se stessa parlando.
“Corpo di donna che è scandalo ancora,
ti guardo e sono io: chi altri mai?
Issata sopra un sandalo, scoperta
dai miei pensieri fini.
E riconosco in te i miei parenti,
pur quelli che non ho mai più vissuto:
cala un silenzio tiepido e possente
dai loro sguardi sì come dai miei.
Cos’è, la pace, questa?
O la giustizia, o il vero, o tutto quanto?
Domande senza pause!
Della risposta sospesa
sorrido, mentre so di farla mia”.
La settimana prossima torna la prosa e ci sarà un’altra incursione - non l’ultima - nel grande mondo dei sonetti. A presto!
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
Dovrebbe essere chiaro che si tratta di Ildegarda di Bingen, ma una nota a piè di pagina non fa mai male :-)
brava brava brava
(oggi anche un po' di più)