Questa puntata di Sillabe è un po’ anomala perché, più che trattare una particolare forma metrica per com’è e per come è stata, la stravolge.
Innanzitutto diciamo di cosa stiamo parlando: il tema della settimana è il peana, antichissimo canto di origine cretese e poi greca che un coro (quasi sempre maschile) innalzava alla divinità (quasi sempre Apollo) per ingraziarsi una vittoria in battaglia o per augurarsi la guarigione da un’epidemia.
Dopo una prima breve storia del peana vedremo cosa si può farne adesso, nell’anno 2024, ossia in un momento in cui le guerre continuano a esserci, le epidemie anche, ma la sensibilità nei confronti delle une e delle altre è (si spera) cambiata.
Per motivi di spazio, Una prosa… salta un turno e torna la settimana prossima.
Scatola di montaggio e di smontaggio: il peana
Risuona la voce di Pindaro e Bacchilide. Siamo nel VI secolo a.C. e il peana è un componimento scritto su commissione pubblica e destinato alla recitazione durante celebrazioni altrettanto pubbliche e di carattere religioso. Il pubblico lo ascolta, è un pubblico informato che sa entrare in sintonia con il contesto mitologico evocato dall’autore, riconosce nel tema della poesia una comune identità sociale, è in relazione sia con il contenuto degli enunciati che con il modo con cui questi vengono trasmessi. Si rapporta con gli effetti scenici, entra nell’evento, partecipa, interagisce: l’interazione fa parte della performance stessa dell’agire poetico. Il pubblico viene coinvolto immediatamente anche da tutta una serie di situazioni extralinguisitche che a noi, lettori arrivati con due millenni e mezzo abbondanti di ritardo, costano invece la fatica di un lungo studio perché è cambiato il mondo che c’è attorno al peana: sono cambiati i luoghi, è cambiato il comune sentire, sono diverse le metafore, alcune divinità sono morte e altre nuove ne sono arrivate, i valori trasmessi non sono più gli stessi, e quando cambiano i valori cambiano anche le verità che ne sono veicolate, e cambiano i modi con cui queste verità sono rappresentate.
Dal punto di vista tecnico, si compone di coppie strofe-antistrofe, metricamente uguali, a cui segue un epodo, che invece ha una struttura diversa. I tre momenti fanno parte di quel che si chiama triade stesicorea, e sono correlati ai movimenti scenici: nella strofe il coro percorreva l’orchestra in un verso, e nell’antistrofe la percorreva nel verso opposto (in greco στροφή vuol dire giro).
Il peana è un componimento antichissimo, di cui Pindaro e Bacchilide sono forse gli autori più noti ma che non nasce con loro. C’è un peana nel primo canto dell’Iliade, quando i giovani Achei accompagnano l’ecatombe seguita alla restituzione di Criseide, e con ciò sperano di placare l’ira di Apollo che s’era offeso al punto da mandare una pestilenza nel campo degli assedianti. Nell’inno omerico ad Apollo si ribadisce l’origine cretese del canto, e il peana in questo caso viene cantato durante una processione. Callimaco associa il peana alla vittoria di Teseo sul toro; cantano il peana gli eserciti che muovono battaglia, allo scopo di propiziarsi la vittoria, di fare i debiti scongiuri e per scandire la marcia eccitando gli animi. Apollo fu il dio principale a cui venivano intonati i canti; seguì Artemide, e ci sono casi in cui il peana viene innalzato anche a figure mortali.
Veniamo a noi: a gente perlopiù inerme del XXI secolo, spettatori e talora correi di conflitti locali e mondiali, freddi e caldi, materia di mera carneficina o di sottile propaganda, conflitti che però vengono combattuti con altri mezzi rispetto a quelli di allora, con altri rapporti sociali, con altre morali da difendere o da pretendere vere. Apollo non c’è più, le guerre sono state lette e demistificate attraverso Hemingway, attraverso Remarque, è stata cantata la diserzione nei versi di Boris Vian, ci siamo interrogati sul Comma 22, abbiamo provato empatia per il buon soldato Švejk.
Non solo: abbiamo imparato che la guerra non è nemmeno faccenda solo umana, quando abbiamo visto gli scimpanzé del Gombe dividersi e uccidersi fra gruppi diversi. Ne abbiamo letto in Fran de Waal e in Jane Goodall, tra gli altri1.
Con questo stato d’animo ho pensato dunque alla ricostruzione del peana secondo un canone contemporaneo. Non ci sono divinità a cui appellarsi, solo una comune natura; si sottintende la presenza comune di un urlo, che può essere surroga di parole indicibili o mera espressione di istinti. L’unica cosa che rimane è la struttura della triade tersicorea: avremo quindi una strofe, una antistrofe e un epodo, ripetuti tre volte. Non ho qui voluto ricalcare metri greci, facendo cioè un esercizio di metrica barbara, come avevo fatto per il distico elegiaco due settimane fa o per la strofe saffica lo scorso autunno. Ho utilizzato versi imparisillabi tipici della metrica accentuativa italiana: l’endecasillabo (E), il novenario (N), il settenario (S) e il quinario (Q). Non ci sono rime. L’effetto complessivo dovrebbe essere cacofonico e disarmonico, a causa della presenza del novenario in contrapposizione al settenario e all’endecasillabo che invece suonano bene insieme. L’effetto è volutamente antimusicale. In origine il peana era cantato e accompagnato dalla musica, usualmente quella suonata dalla lira.
Lo schema seguito per strofe e antistrofe è il seguente: NNEQESSNENQQESE
Per l’epodo, invece, si utilizza la forma SSESESSESE.
È canto senza vero nome
e con destinatario vago,
questo che dico, tra il sole di rame
e l’aria livida.
L’umanità ch’è creata dai semi
e il mondo già dal mare
ne spiegano i rumori,
svelandoli in parole d’ossa:
la pelle sente la cura e il disdegno,
la diserzione dentro il tempo
battuto in terra
con molti colpi.
Da che proviene il nome nostro? E noi?
Che cosa ci raccoglie?
Un essere supremo e mai più visto?
Il cielo con la terra mischia
respiri e polvere infiniti.
Ricerco allora il passato comune,
devo contarlo,
enumerarne le pieghe e lo spazio.
Il sole spacca tutto,
o quasi; spacca il resto
la storia dell’umanità
per com’è cominciata, ingarbugliando
i fili d’altre specie morte
e queste vive,
e ne deriva
l’ombra indigesta di strane radici.
Sento tremare in me
un alito di guerra sconsolata.
Qui mi ricordo prose
magnifiche imperfette,
e l’epica che le sostiene muta!
L’incanto germinale
di sogni di giustizia rivoltosa,
e libertà feconda,
e l’ordine scomposto
e ricomposto attorno a nuovi nomi,
che non so come dire
e di cui sento suoni e meraviglia.
Qui va parallela la scimmia,
e rapida omicida scruta
le proprie mosse, l’istinto dei fatti,
e la ragione:
la colpa d’essere Altro s’impara
oppure sorge innata?
Lo sa lei, lo so io?
Adesso vedi corpi morti
chiamati, come carne informe, noi:
qualche silenzio nostro, nero,
un urlo, un albero,
la terra, un urlo,
lo sguardo che si svuota e poi ritorna
a masticare un urlo
anch’esso, una domanda che corale
rimbalza sotto i rami chiusi,
apostrofa le foglie e il cielo,
facendosi intelletto di vendetta,
e riflessione
furba incistata nei muscoli: chiede
il sangue e un giorno ancora,
un giorno ancora e sangue.
E la natura ch’è bifronte
attende e replica odori e risposte,
dimenticar non può volere.
Aspetta, credi.
Sospetta, credi.
Parenti sono del tempo i bisogni,
l’avidità non c’entra,
non è crudele la sorte insicura.
E questo mi confonde.
Non servono parole.
Le mani, l’urlo, il corpo sono tanti
oggetti d’un discorso
che deve proseguire e non lo sa.
La lotta fa di tutto
per dirsi interminabile.
Sopra la foglia verde si ristora
il chicco della pioggia,
e l’acqua lava i propri fondamenti.
È canto che non ha potere
e di potere canta, quindi,
e passa la mia voce e quella nostra
umana, rossa
dell’incoerenza antica e del controllo,
violenta senza nome,
apocrifa inibita.
Discute di quest’arte amica
di dare morte e farne professione,
incontenibile obsoleta
che però trova
sbocchi di vita
perenne e felicissima dovunque,
di un’evidenza estrema,
patto sociale che ancora sfascia i crani.
È l’arte del nemico vivo,
l’arte del senso più comune,
grano di polvere (un urlo) che dura
su strade lisce
e colme d’arte di pace altrimenti.
Un giorno passa e solo,
d’arcaica compassione
rigonfio ma non soddisfatto.
Un urlo, sangue senza risultato,
mentre precipita l’esterno
qui dentro, un pezzo
smembrato d’altri
esterni, lontanissimi e stranieri,
e ci saluta tutti
dentro la morte imitando un abbraccio.
E questo non risponde
ai miei segreti sogni,
al corso inseminato d’anni lunghi
che dice i nomi nostri
e quelli d’altri in noi contaminati,
e dice care ipotesi
di somiglianze brute.
Canta del volto su cui sono dette
aride guerre note,
dettaglio d’anni futuri o ricordi.
Quartine al bar
Saltate le prose e le avventure di Irene Cardin arriviamo subito alle quartine finali. Solita scena minima al tavolino di un bar, solita osservazione dell’umanità che vi si raccoglie. In endecasillabi.
È primavera che striscia e che vola,
con l’abitudine delle domande,
e l’aria sta sottile in lunghe e blande
propaggini di un’alba ancora viola.
Anche la musica si siede sola:
osserva, col caffè in tazza grande,
il vuoto che semplifica e si espande
a dir ciò che dovrebbe una parola.
Per questa settimana mi fermo qui. Si tornerà a rime bellicose, o belliche, o in via di diserzione, anche la settimana prossima, ma si tratterà di tutt’altro contesto storico, geografico e ideale: si parlerà del sirventese e di Bertran de Born. A presto!
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
E siccome non capita spesso di poter parlare di La scimmia che siamo o de L’ombra dell’uomo in una newsletter di poesia, lo faccio adesso, anche per rendere omaggio alla grandezza dei due autori.