Si riprende dopo la breve interruzione per Ferragosto. Bentornate e bentornati! Sarà un autunno ricco di argomenti; ma per adesso, che è ancora estate, riprendiamo con calma con qualche esperimento metrico.
Scatola di montaggio: il senario
Il senario è un verso in cui l’ultima sillaba tonica è la quinta. Nel caso in cui la parola che contiene questa sillaba sia piana, avremo un verso di sei sillabe; ci saranno sette sillabe se la parola è sdrucciola, e cinque se la parola è tronca.
L’accentuazione è generalmente fissa: i due accenti del senario sono sulla seconda e sulla quinta, anche se non mancano casi, specialmente agli albori della poesia volgare italiana, in cui è accentata la prima sillaba, o la terza, o entrambe.
L’accentuazione sulla seconda e sulla quinta rende il senario, volendo, una versione breve del novenario, che ha gli stessi accenti più quello obbligato sull’ottava: fatto, questo, che piaceva a Giovanni Pascoli, il quale li accoppiava volentieri.
Ma veniamo al dunque. Il senario è un verso canterino.
Lo vediamo in Pietro Metastasio
Non vedi, tiranno,
ch’io moro d’affanno,
che bramo che in pace
mi lasci morir?
(da Achille in Sciro)
o in Jacopo da Ponte, nei duetti dal Così fan tutte.
Qui Fiordiligi e Dorabella:
Ah, guarda, sorella,
se bocca più bella,
se aspetto più nobile
si può ritrovar.
Osserva tu un poco
che fuoco ha ne' sguardi!
Se fiamma, se dardi
non sembran scoccar.
Non a caso si tratta di librettisti.
Qui invece c’è Gabriello Chiabrera, grande riformatore della metrica italiana vissuto tra il XVI e il XVII secolo, che usava i versi corti nella sua produzione lirica conferendole così un’estrema cantabilità. La composizione è in senari piani; si noti che l’accento sulla seconda c’è solo sul quarto e sul quinto verso.
Dolci miei sospiri,
dolci miei martiri,
dolce mio desio,
e voi, dolci canti,
e voi, dolci pianti,
rimanete, a Dio.
Infine, se proprio vogliamo sbracare, visto che siamo in estate, con l’anomala composizione di accenti prima-quinta,
bolle di sapone,
sotto il tuo balcone.
Dunque il senario si canta bene. Mette anche allegria, in fondo. Per cercare di costruire una composizione di senari, in questo numero di Sillabe si parla però di cose serie, cioè di crisi climatica. Spero che il contrasto fra il tema cupo e la fresca cantabilità del senario crei la necessaria frizione cognitiva ed emotiva per dare al tema tutta la gravità e l’urgenza che merita.
Worst Case Senario
Ribolle impotente
la pavida Terra
di sotto ai gas serra:
e noi che si fa?
La scienza ammonisce:
se non si dà un freno,
l’esausto terreno
l’inferno sarà.
Petrolio, inquinanti,
foreste nel fumo,
del mero consumo
si fa civiltà;
più acido il mare,
e il suolo sconvolto
patisce di molto
la gran siccità.
La temperatura
che s’alza d’un grado
sancisce il degrado
che presto verrà.
Ma già d’uno e mezzo
si vede l’aumento:
s’appresta il tormento
dell’umanità?
Si fondono i ghiacci,
non piove, o già troppo:
il tempo va zoppo,
ma dove, chissà.
Che far per lenire
l’orribili pene?
Nessuno interviene:
due gradi son qua!
È chiaro, lampante:
ormai questo clima
da quello di prima
diverso si dà.
Se l’ONU propone,
da cauta maestra,
in tanti da destra
lo negano già.
Mercanti di dubbi
nel mondo che avvampa
convogliano in stampa
la lor verità:
“C’è stato da sempre,
quel caldo, e che caldo!
Non l’uomo ribaldo
fu causa, si sa!
Il sole, i vulcani!
Fu questo a far scempio!
L’industria, ad esempio,
qui colpe non ha!”
Parole affannose
per far propaganda:
però chi comanda
è l’aspra realtà.1
Tre gradi, o ben oltre!
Non è più remoto
quel punto d’ignoto
che orrore ci fa.
Sì rapido il tempo
trascorre, ed invano:
inerte l’umano
già muore o morrà?
Si tagli il metano,
all’agricoltura
si cambi struttura
in velocità;
di fare costante
per colpa o per dolo
l’abuso del suolo
finir si dovrà;
se poi dal carbone
a fonti pulite
(diverse, assortite)
noi si passerà,
in qualche decennio
qualcosa davvero
per il mondo intero
migliore sarà.
Una breve nota compositiva: Worst Case Senario è soltanto un esercizio. Mancano delle interruzioni che ne spezzino il ritmo, sicché rischia di sembrare un lungo e pedante monologo didattico, per quanto accorato. Ecco, adesso mi sento molto Pete Seeger alla sede dell’Ipcc.
Per variare un po’, ogni quattro strofe potrebbe essere inserito un ritornello scritto con un altro metro, magari dispari e lungo; un ritornello in endecasillabi potrebbe dare al tutto una struttura più ariosa e meno didascalica.
Ma questa è una puntata sul senario, non sulla canzone di protesta, e quindi smetto qui.
Una prosa è una prosa è una prosa: La canzone
È un racconto che potete leggere e scaricare in Sono racconti per nessuno. Racconta di una forma di nostalgia e di curiosità e di un mondo in cui è stata superata la soglia di 560 parti per milione di anidride carbonica in atmosfera. Potrebbe sembrare una malinconica escursione nella letteratura distopica, ma è soprattutto una storia su un ricordo che non riesce a prendere forma.
Mi metto a pensare perché è da alcuni giorni che ho in testa una canzone e - vedi, a proposito di questo fatto che la memoria è opalescente - non riesco a ricordare di cosa si tratti. Non mi vengono le parole, solo qualche stralcio della musica. Ho provato a canticchiarla al telefono, ma il programma di riconoscimento non ha dato risultati. O sono io che canto male, il che può sempre essere, perché non ho un grande talento per la musica, oppure la canzone è talmente vecchia che non è stata inserita nel database, per quanto ciò sia improbabile, visto che c’è dentro di tutto, dal canto gregoriano in avanti. L’unica cosa che mi sento di escludere è di essermela inventata.
Il telefono suona di nuovo. Lo prendo in mano, è tiepido, gli trasferisco parte del mio sudore. Non è lo stesso numero di prima, ma anche stavolta non ce l’ho tra quelli salvati, quindi chissà chi è. Mi prende una stanchezza mortale, continuo a guardare lo schermo senza avere nessuna voglia di rispondere. Ce ne stiamo lì, il mio telefono e io, come se fossimo faccia a faccia, e non facciamo niente. Facendomi largo tra i rumori regolari della suoneria mi aggrappo ai brandelli della canzone che ho in testa. Nella sua oscurità, mi è tuttavia così familiare che deve essere pur stata qualcosa di significativo nella mia vita. Forse un ricordo dell’infanzia? Eppure non no avuto un’infanzia particolare, è stata tranquilla. Mia madre dice sempre che se fosse capitata a lei, un’infanzia del genere, sarebbe impazzita; dice che quando mi ha avuto aveva paura per quello che sarebbe stato di me, erano gli anni peggiori, quelli in cui morivano in tanti.
Figure:
Da Haiku in bianco e nero.
Inverno falso.
La polvere non gela,
trema soltanto.
Altre cose sul blog: Un’altra versione
(Non basta: qui pure
tra i nostri emistichi
s’incastra Zichichi:
Signore, pietà)