Questa settimana Sillabe è alla ricerca di eroi e avventure. Lo fa andando a esplorare una struttura metrica che con questi argomenti ha una lunga tradizione, e con un pezzo in prosa pieno di sussiego e delirio.
Scatola di montaggio: l’ottava
L’ottava rima (o semplicemente ottava) è, per eccellenza, la strofa dell’epica e dei poemi cavallereschi. Sono scritti in ottave l’Orlando Furioso e la Gerusalemme liberata, nonché l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo.
L’ottava si presta anche a tutto ciò che è parodia dell’epica, a tutto ciò che all’eroismo mescola la burla: quindi avremo in ottave per esempio anche il Morgante di Luigi Pulci o La secchia rapita di Alessandro Tassoni. Il primo esempio conosciuto di ottava, comunque, ce lo dà Giovanni Boccaccio, che scrisse con questo metro il suo poema giovanile Filostrato. Eccone l’inizio:
Alcun di Giove sogliono il favore
ne’ lor principii pietosi invocare;
altri d’Apollo chiamano il valore;
io di Parnaso le muse pregare
solea ne’ miei bisogni, ma amore
novellamente m’ha fatto mutare
il mio costume antico e usitato,
poi fu’ di te, madonna, innamorato.
La struttura, come si vede, è semplice e regolare: un’ottava è un insieme di otto endecasillabi le cui rime seguono lo schema ABABABCC.
Il blocco si ripete poi a piacimento, costruendo così canti e poemi interi.
Non essendoci qui lo spazio per scrivere poemi interi, ovviamente, mi limiterò a costruire un paio di esempi ridotti.
Il primo è un po’ più serio, con accenni epici. Giacché la modernità ha spesso sublimato l’epica nell’agone sportivo, togliendone per fortuna l’esclusività agli eventi bellici, mi butto anche io sullo sport, ché un po’ di attività motoria fa sempre bene.
Cambia l’epica, cambia il ruolo degli eroi, cambia quello del fato. Forse.
Chi disse: "Preferisco avere fortuna che talento", percepì l'essenza della vita.
La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita.
Terrorizza pensare che sia così fuori controllo.
[Woody Allen, Match Point, 2005]
Quanto conta il fato nell’epica? È una domanda che meriterebbe un poema a parte.
La storia che propongo qui è la sfida tra John Isner e Nicolas Mahut a Wimbledon nel 2010, incontro passato alla storia per essere stato il più lungo della storia del tennis professionistico. Vinse Isner dopo 11 ore e 5 minuti giocati in tre giorni, due dei quali spesi per il solo quinto set che si concluse sul 70-68. Era il primo turno; Isner venne poi sconfitto al secondo. Il torneo, per la cronaca, fu vinto da Nadal.
E ora possano gli spiriti di Gianni Clerici e di David Foster Wallace non far rivoltare i rispettivi corpi nelle altrettanto rispettive tombe.
1. Sera sull’erba, sul campo che vede
la palla che rimbalza, gialla, infusa
di un senso del destino: chi ci crede
sa già che l’erba non è che una scusa
per professare articoli di fede,
che con la palla s’è spesso confusa.
I primi quattro set, quasi tre ore.
La notte cala, con cauto timore.
2. Non è che un primo turno qualsivoglia.
La notte non dirime il suo discorso.
Un nuovo giorno spalanca la soglia
di un altro tempo ch’è invano trascorso.
La fede ch’era prima ormai si spoglia,
nessuno cede alla colpa, al rimorso.
Batte l’americano, poi il francese.
Le stesse irrimediabili pretese.
3. È storia di potenza e geometria,
di studio mobile dell’avversario,
e di una certa dose di follia
in quello scontro sempre solitario
ch’è con se stessi, ancora, e purchessia.
Si batte, un punto che torna precario,
avanti insieme, per tanto, per poco.
Il mostro della mente forma il gioco.
4. Batte il francese, poi l’americano,
e viceversa ancora, e vanno avanti.
C’è qualche cosa di atroce e di strano,
nel computo dei punti, troppi, tanti.
Un universo ch’è oltre l’umano
va propagandosi intorno. Vacanti
sono i respiri e l’erba resta muta.
Comincia un altro turno di battuta.
5. Sembra che il gioco si fermi, si incida
nel corpo di quei due. Nulla prevale.
La carne a un certo punto forse grida.
Nessuno sente, tutto resta uguale.
Qui gioco non è più. Di certo sfida,
ma non all’avversario: all’immorale
e vacuo computo immane dei tempi,
tra cui la palla compie altri scempi.
6. Scende la notte ancora, la seconda.
Il braccio, come riesce, si riposa.
La mente no, non può, non l’asseconda.
Fallire il colpo per primo: chi osa?
E dentro alla partita furibonda
la palla balza sull’erba, oltraggiosa,
nel pendolo maligno della sorte.
La palla che non sa cos’è la morte.
7. Batte il francese, un colpo che va a vuoto.
L’americano intuisce la fine.
La azzanna. Viene il suono dell’ignoto,
la palla schizza su stelle vicine,
resta sul campo assoluto e remoto,
dell’universo spalanca il confine
che s’apre allora, feroce, di botto,
dicendo di un settanta, un sessantotto.
8. Non è vittoria, solo straniamento.
Non è sconfitta, ma un mondo verdastro
che porta già se stesso a compimento.
Un avversario, quasi un fratellastro
di fiato e vita e d’erba e di tormento.
La palla vola al di sopra del nastro.
Rimane solo l’ultimo passante.
E una partita sola, in mezzo a tante.
Il secondo esempio di utilizzo delle ottave trae spunto da un evento buffo (e un po’ imbarazzante) occorso nei pressi di Pordenone un paio d’anni fa, quando durante un’esercitazione militare venne colpito, per errore, un innocente pollaio.
Ecco dunque cosa scrissi all’epoca, ne La battaglia dell’Ultima Piuma, che potete trovare anche sul mio blog.
1. Vorrei cantar quel memorando sdegno1
che incorse un dì di marzo in Pordenone:
fu quando, nello spasimo d'impegno
contrito nella mira, un gran cannone
(o un qualche non dissimile congegno
che poggia sui blindati) fu ragione
d'un barbaro ed insolito bel guaio:
ché si sparò, nel buio, su un pollaio.
2. I militi, vagando per l'oscura
e rorida campagna friulana,
s'esercitavano senza paura:
e, qui bisogna dire, con nostrana
disabitudine incauta alla cura.
Un colpo, dirozzato alla lontana,
scagliato senza l'ombra di un acume:
e furon chiocci e strepiti di piume.
3. Immaginatevi, dunque, lo dico:
un muro che barcolla e poi si sfonda,
un muro solido, limite antico
d'un'altra più gentile baraonda;
ed il pollame ignaro del nemico
che vede il proprio sangue e quanto gronda
e non sa dirci del come e il perché,
e muore sillabando un coccodè.
Una prosa è una prosa è una prosa: Appunti preliminari per un blockbuster
È un mio pezzo del 2016, scritto sull’onda di suggestive chimere cinematografiche che univano Batman e Superman, l’un contro l’altro armati a disputarsi il mondo e anche un po’ il senso del ridicolo. E allora io mi misi a congetturare il duello degli antiduelli, quello tra il capitano Yossarian di Comma 22 e il buon soldato Švejk dell’omonima opera di Jaroslav Hašek. Qui sotto trascrivo l’incipit. Il testo completo, che conta circa 23mila battute, può essere scaricato qui, via Dropbox.
Archetipi, eroi e antieroi, seppure formalmente divisi per ambientazione e contesto, si incontrano spesso nell’immaginario più impudico. Se avessi dovuto rappresentare la dialettica di due personaggi significativi per la costruzione della mia adolescenza, sarebbe finito su celluloide Karl Marx v Kurt Cobain; qualche anno più tardi, per puro amore della tribolazione psicologica, avrei sfondato i botteghini con la continuity dostoevskiana di Ivan Karamazov v Rodion Romanovič Raskol'nikov. Invece il mondo dell’immaginario cinematografico ammicca alla rievocazione di altre fanciullezze e di altre iconografie, promana cupo dalle intuizioni di Frank Miller, per cui tocca tenerci in sala Batman v Superman. Che poi, ti dici, sono due personaggi che meritano un certo rispetto. Prendi Superman, che ci ha scritto sopra perfino Umberto Eco: l’incarnazione dello spirito di potenza che vendica le frustrazioni dello spettatore alienato nella società delle macchine e dell'uomo macchina, epigono a fumetti di una lunga progenie che ha visto coinvolti - con presupposti diversi - Ercole, Sigfrido e Orlando, dotato di ogni possibile qualità fisica e morale, poiché è forte oltre ogni misura, veloce e scattante, può incenerire oggetti col solo sguardo come nemmeno un basilisco, ci sente meglio di un vicino pettegolo, ma è anche buono, umile, sempre al servizio del prossimo, e per soprammercato è pure bello. Se nello spettatore scatta la molla dell’identificazione con tale scialo di meraviglie è grazie all’alter ego che Superman si sceglie per muoversi tra gli umani, un giornalista timido e impacciato, miope, complessato e in balia delle ugge di Lois Lane, come un travet qualsiasi, come tanti di noi; Clark Kent si strugge in borghese per Lois Lane che è invece innamorata di Superman, per quanto possa essere realistico aspettarsi che una donna sia sessualmente attratta da un partner che sa già essere più veloce della luce. […]
Figure
Da Haiku in bianco e nero (2023)
Terra straniera
l’abitudine persa;
di più, ostile.
Altre cose sul blog: Un’altra versione
Alla prossima settimana! Le puntate n. 10 e 11 saranno un po’ particolari, in bilico fra la poesia e la matematica, e si parlerà, tra le altre cose, di tassellature e di calcolo combinatorio.
È il primo verso de La secchia rapita di Tassoni.