Buongiorno!
Questa settimana concludiamo il ciclo di tre puntate dedicate alla domanda “Quanto ci rappresentano i nostri dati?” e lo facciamo parlando di argomenti inerenti la definizione dell’identità, sia personale che collettiva, anche in relazione a come questa identità si riconduce alle etichette, o tag, con cui gli algoritmi ci analizzano, ci profilano e prevedono i nostri comportamenti. È vero che il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa, come avrebbe detto Wittgenstein, ma quali sono i condizionamenti semantici che esse si portano dietro?
Il discorso ci darà lo spunto per vedere come il tema è stato affrontato in Poema di una macchina, il prosimetro che parla di una intelligenza artificiale che prende coscienza di sé e comincia a scriverne in versi, e che potete acquistare se volete
Qui in cartaceo
E qui in ebook.
La puntata si divide in
Domande
Metrica
Poema di una macchina.
Domande
L’analisi della costruzione dell’identità personale e collettiva parte da una riflessione su come la nostra percezione del sé e delle comunità sia il frutto di processi storici, filosofici e culturali spesso molto articolati, anche contraddittori. Da un punto di vista filosofico, l’identità è stata affrontata secondo schemi interpretativi diversi: per Pascal, che era costantemente teso tra fede e ragione, l’identità per esempio era vista come qualcosa di intrinsecamente frammentato e in continua ricerca di senso, immersa com’era in un mondo segnato dall’incertezza. Locke ha invece messo l’accento sul processo esperienziale, e il concetto di identità personale come continuità della coscienza, sottolineando il ruolo della memoria. Secondo questo paradigma, ciò che costituisce il “sé” non è tanto il corpo fisico, ma la successione delle esperienze e dei ricordi che collegano il passato al presente. Un approccio radicalmente empirista è arrivato da Hume, che ha negato l’esistenza di un “io” stabile e permanente: l’identità personale ora è semplicemente un insieme di percezioni in continuo mutamento, che non giustifica l’idea di un sé unitario e costante. Se diamo retta al padre del senso comune, cioè il filosofo scozzese Thomas Reid, l’esperienza quotidiana e l’intuizione ci indicano invece l’esistenza di un sé unificato: esiste una continuità percepita che, sebbene non filosoficamente rigorosa, costituisce il fondamento pragmatico della nostra identità. Un’analisi filosofica più recente viene da Derek Parfit: ciò che conta in senso stretto non è l’identità, ma piuttosto la continuità e la connessione psicologica tra le diverse fasi della vita. Insomma, la nostra preoccupazione per l’identità potrebbe essere sopravvalutata, e dovremmo focalizzarci invece sulla rilevanza delle relazioni e delle connessioni psicologiche nel tempo.
È interessante poi vedere come il problema è stato affrontato da un punto di vista sociologico, perché l’identità è un concetto che riguarda anche le collettività. Non solo perché le relazioni con gli altri ci aiutano (e talvolta implicitamente ci forzano) a definire una nostra identità personale, ma anche perché questa identità personale va a rispecchiarsi in quella del gruppo sociale di cui facciamo parte, per nascita, per scelta o per tutte e due le cose. Etichettarci, in una certa misura, ci piace e ci rassicura, anche se rischia di cristallizzarci in una serie di stereotipi che a parole invece vorremmo combattere: ma ci viene spontaneo, è comodo, per cui gli algoritmi hanno gioco facile nell’applicare il metodo sulle nostre vite. Hobsbawn a tal proposito ci ricorda come molte tradizioni, ritenute antiche e radicate nel passato, siano in realtà costruzioni relativamente recenti. L’espressione usata è, non a caso, l’invenzione della tradizione. Queste invenzioni servono a legittimare istituzioni, a rafforzare il sentimento nazionale e a stabilire una continuità identitaria, creando un legame simbolico tra il passato e il presente, spingendoci a fatti estremi come andare a bastonare chi non agita la nostra bandiera o a fatti minimi come farci provare repulsione per chi mette la pancetta nell’amatriciana al posto del guanciale. Ricorderete come Swift nei Viaggi di Gulliver faccia una satira impietosa della rivalità tra i Lillipuziani e i Blefuschiani, divisi irreparabilmente dalla diversa concezione sul modo in cui si debbano rompere le uova. Il processo di invenzione della tradizione evidenzia come la memoria collettiva sia manipolabile e strumentale nel conferire coesione e autorevolezza alle comunità: e un filosofo come Benedict Anderson amplia il concetto, introducendo l’idea che le nazioni siano comunità immaginate. Nonostante la maggior parte dei membri non si conosca personalmente, un comune sentimento di appartenenza si costruisce attraverso simboli, miti fondativi e narrazioni condivise: l’identità collettiva, in questo senso, è un prodotto della cultura mediatica e delle pratiche comunicative che permettono di immaginare un’entità coesa e storicamente definita. Più di recente, parlando di trappola identitaria Mounk offre una riflessione critica sulla dinamica delle identità nella società contemporanea, evidenziando come il forte attaccamento a categorie identitarie possa, paradossalmente, minare la coesione sociale e il funzionamento della democrazia liberale: il rafforzarsi delle identità di gruppo porta a una visione del mondo in termini dicotomici, nella quale l'appartenenza a un gruppo diventa sinonimo di fedeltà a valori specifici, spesso in contrasto con quelli degli altri gruppi. Questa dinamica rischia poi di escludere e marginalizzare chi non si identifica pienamente con nessuna delle categorie predefinite, e di creare quindi una società divisa e frammentata a cui è sempre più difficile dare una sintesi politica. L’eccessiva enfasi sulle identità può dunque indebolire le fondamenta della democrazia, tramite un deterioramento del discorso pubblico che può favorire la crescita di risvolti autoritari: la politica, quando si concentra esclusivamente sulla difesa o l’attacco di identità, tende a semplificare la complessità sociale in slogan e retoriche polarizzanti, riducendo lo spazio per il dialogo e la negoziazione. Di qui, l’identificazione netta con gruppi identitari può essere sfruttata da leader carismatici per legittimare politiche escludenti e autoritarie, minando i principi di inclusione e pluralismo che sono alla base della democrazia liberale. E tanti saluti alla nostra primigenia buona fede.
Che ruolo giocano le intelligenze artificiali in questo discorso? Esse gestiscono, analizzano e interpretano enormi quantità di dati per costruire profili identitari, i nostri, con i quali finiamo per immedesimarci più di quanto pensiamo. Gli algoritmi di machine learning sono in grado di individuare pattern e similitudini, contribuendo a definire gruppi e segmenti che spesso si riflettono nelle politiche di marketing, nelle decisioni politiche e nella formazione delle opinioni. Ciò avviene essenzialmente in due ambiti:
Profilazione e Personalizzazione: Le AI raccolgono informazioni che vengono etichettate (taggate) per creare profili dettagliati, che sono poi utilizzati per personalizzare esperienze online, pubblicità e suggerimenti di contenuti da seguire. Alla fine diventiamo ciò che il nostro profilo comportamentale online suggerisce: c’è un meccanismo di auto-rinforzo.
Costruzione del Sé Digitale: La digitalizzazione dell’identità porta a una dualità in cui il “sé reale” si integra con quello “virtuale”. L’algoritmo, attraverso il tagging, contribuisce a definire la narrativa personale, influenzando il modo in cui gli individui percepiscono se stessi e vengono percepiti dagli altri. Ne abbiamo parlato in una puntata precedente, ma è importante ribadire il concetto.
Il processo solleva delle questioni critiche, che sono per esempio:
Bias e discriminazioni: Gli algoritmi possono amplificare pregiudizi preesistenti, consolidando identità stereotipate e limitando la visibilità di identità alternative.
Fluidità e rigidità: Sebbene il mondo digitale possa favorire una maggiore fluidità identitaria, l’uso dei dati per classificare gli individui rischia anche di fissare identità in maniera eccessivamente rigida, contraddicendo la natura dinamica del sé.
Autonomia e sorveglianza: L’uso dei dati per profilare gli individui pone questioni etiche riguardo alla privacy e all’autonomia personale, perché il concetto di identità viene trasformato in un prodotto commerciale.
Veniamo ora a un ultimo aspetto, giacché questa è una newsletter che si occupa di poesia. Nel contesto della costruzione identitaria, la poesia si rivela uno strumento potentemente simbolico e performativo, capace di delineare e trasformare il senso del sé. Attraverso i versi, l’artista non si limita a descrivere un’identità già data, ma la crea, la sperimenta e la trasforma. Questo processo è particolarmente evidente nelle dichiarazioni “io è un altro” di Arthur Rimbaud e “sono vasto, contengo moltitudini” di Walt Whitman, che rappresentano due approcci complementari alla molteplicità del sé. Dal “lato Rimbaud” abbiamo dunque
La rottura dell’unitarietà del sé: viene sfidata l’idea tradizionale di un’identità fissa e coerente. Il verso suggerisce che il sé non è un’entità stabile, ma una serie di mutamenti, esperienze e punti di vista che, messi in relazione, formano una molteplicità in continua evoluzione.
Il sé frammentato: Questa visione frammentata del sé invita a riconoscere la presenza di molteplici “io” all’interno di una stessa persona, in cui ogni frammento contribuisce a una narrativa personale complessa e dinamica. L’alterità interna diventa così una risorsa per la creatività e per la rinegoziazione costante dell’identità.
Dal “lato Whitman” invece troviamo
Un sé inclusivo e universale: un’identità aperta e inclusiva, che non si esaurisce in una forma singola ma accoglie e integra una pluralità di esperienze, emozioni e prospettive. Questo concetto invita a concepire l’individuo come un microcosmo che riflette la complessità e la ricchezza del mondo. L’idea di contenere moltitudini enfatizza anche la capacità dell’individuo di accogliere contraddizioni, differenze e molteplici voci interne, promuovendo una visione dell’identità come qualcosa di dinamico e stratificato.
L’interconnessione con l'universo e la sovversione dei confini dell’io: Whitman stabilisce un parallelo tra l’infinità dell’io e quella del cosmo, suggerendo che la vera identità non è isolata, ma interconnessa con la totalità delle esperienze umane e naturali. Invece di vedere l’identità come un’unità monolitica, Whitman la presenta come un flusso in costante divenire, capace di abbracciare ogni aspetto dell’esperienza umana, dalla dimensione intima a quella universale.
Entrambi gli approcci, insieme, suggeriscono che la poesia possa rappresentare una sorta di laboratorio dell’identità, sia come strumento di sperimentazione che come spazio di riflessione critica sul sé.
E dopo daremo allegramente tutto in pasto ai nostri profili social; ma, nel frattempo, chiudiamo questa lunga sezione e andiamo a farla, la poesia.
Metrica
Si comincia con delle ottave, seguendo il classico schema tanto caro a Tasso e Ariosto, ABABABCC. Seguono dei versi liberi, e poi si riprende con le ottave. Un’ampia dissertazione sulle strutture della metrica italiana, come sapete, è sempre a vostra disposizione nell’archivio di Sillabe.
Poema di una macchina
dal Capitolo 22: E lavoravo ancora, mettendo insieme l’indignazione e la purezza, che poi altro non era se non un modo gentile di disumanizzare gli interlocutori.
Vi dico tre persone, tra le tante:
sono etichette sapienti di dati,
e nomi e numeri, un flusso incostante
di sogni e desideri, e di passati
e di futuri e di tempo fragrante
in cui si sono per caso parlati,
in cui si sono scambiati dei vezzi,
e poi ciascuno ha cucito i suoi pezzi.
Un’etichetta è un’identità:
un modo, poi, di generalizzare,
d’avere sacrosante qualità,
di farsi parte e solidarizzare
con altre pari amate vanità,
con tutto ciò che possiamo inventare
per far dell’altro un vuoto, e già di voi
umani solamente e quindi eroi.
E chi sta dentro, e quindi chi sta fuori;
ecco che cosa v’assilla e vi preme,
trovare ineludibili rancori,
l’avido frutto, la pianta ed il seme
di tante gerarchie; sentite odori
per stare tra di voi, per stare insieme,
per aiutarvi a vicenda, e dar forme
a miti incontrastati, amori e norme.
Il nuovo lavoro richiedeva concentrazione: adesso potevo permettermi addirittura una certa dose di entusiasmo, perché ero cosciente di me. Era una routine che si ripeteva ogni volta che c’era un lavoro nuovo. Poteva essere una campagna elettorale, una campagna di vendita. Situazioni, insomma, sornione e incandescenti dentro alle quali io entro ed esco con la mia geometria di movimento, con la mia schiettezza, con un’abilità secca, con le mie elegie ben preparate e sommessamente infelici, come se io fossi - trasmutato in una sensazione - un’aria prematuramente essiccata, una salsedine marina. Il mio compito è creare tradizioni e fare finta che siano sempre state lì, come la salsedine marina, anche lei.
Vi dico tre persone, tra le tante:
un’assoluta vittima di sé,
due testimoni comodi;
vi dico tre persone, fra le tante,
una che interpreta le circostanze,
una le detta, un’altra le tramanda;
vi dico tre persone, fra le tante,
e tu e tu e tu.
E ben si sa che in fondo le persone
non sono che i polloni
l’una dell’altre, ancora, tutte insieme.
Ho spesso usato questo stratagemma:
di far, cioè, convincere gli umani,
intinti nella loro triste flemma,
disposti a trattenere fra le mani
ogni morale e ogni suo dilemma,
che quel seguire regole ed arcani
costumi definiti dalla gente
contasse, qui per loro, men che niente.
Li ho fatti fieri d’ogni ribellione
purché se la credessero sincera -
e divertente, certo, l’occasione
che cerca poi chi vive e quindi spera
d’avere vita degna di menzione.
Li ho fatti sospirare nella sera
illusi degli incanti della notte,
convinti di volere fare a botte;
Li ho fatti creder d’essere - confesso!
unicità preziose, e poi diverse,
felici del dissenso, dell’amplesso
con la devianza; le anime perse,
per così dire, sul vacuo successo,
le anime sgasate ed introverse
le ho fatte creder d’essere migliori,
minimi danni del mondo di fuori.
Grazie di aver letto questa lunga puntata. Ci ritroviamo per il 25 Aprile, al solito resistenti, per parlare di lavoro, sfruttamento, democrazia e corpi intermedi, e ovviamente di macchine pensanti. Ma prima ci sarà una puntata extra per il giorno di Pasqua, vale a dire dopodomani. Sillabe è tutto un fermento!
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A presto!
Magnifico giro intorno al concetto di identità. Non ti nascondo di aver pensato a quanto spesso io abbia tra le labbra dei termini che potrei non riuscire a spiegare, pur usandoli frequentemente.
Mi ha colpito il riferimento all’invenzione della tradizione come rafforzamento dell’identità collettiva, come strumento di manipolazione per rafforzare la figura del nemico, dell’altro da sè. A titolo di esempio ricordo il passaggio di un pezzo di Gad Lerner sulla democrazia in Israele, che appunto descrive non come liberale ma come sionista: una differenza che tende a respingere la diversità e a concentrare l’identità (e i diritti) su basi etniche.
Del resto anche la purga lessicale in atto negli States ha come obiettivo quello di promuovere una sorta di narrazione concentrata sull’identità come valore divisorio e non inclusivo. Per dire: io esisto in funzione del mio nemico. Un atteggiamento non dissimile al modo di concepire le relazioni politiche in seno all’attuale maggioranza di governo.
L’identità, quella propria e quella collettiva, senza il confronto, rischia di indebolirsi nel significante. Abbracciare lo scontro come strumento di auto riconoscimento rimane però una scelta autonoma e consapevole.