Buongiorno!
State leggendo Sillabe, newsletter settimanale che si occupa di forme metriche della poesia italiana e di forme disciplinate della matematica e della scienza, con qualche incursione nella tecnologia e nelle speculazioni filosofiche, perché la varietà del mondo merita percorsi altrettanto variegati. Stiamo entrando nella parte finale della seconda “stagione” di Sillabe, in cui ci siamo occupati di farci domande sull’intelligenza artificiale prendendo spunto da un romanzo (tristemente autoprodotto, sì) che si chiama Poema di una macchina, che potete trovare
e che parla di una intelligenza artificiale che prende coscienza di sé e comincia a scriverne in versi. Con ciò ci tengo a specificare che i versi li ho scritti io, non un’intelligenza artificiale (che nel 2022, quando è uscito il libro, non ne era nemmeno capace, e peraltro non ne è capace nemmeno ora, per mia fortuna) e se volete versi scritti da una AI generativa sul calco umano e riguardo determinati temi affrontati dall’umana poesia potete recuperare le puntate del podcast di Sillabe. A proposito, l’archivio completo è qui.
La puntata di oggi si divide, al solito, in
Domande
Metrica
Poema di una macchina
e parla dell’ambiguità come concetto base su cui sviluppare la poesia, il linguaggio umano e quello artificiale, e i tanti paradossi cui la matematica e la filosofia ci hanno posti davanti. Prima di cominciare, se volete ricevere gli aggiornamenti puntuali di questa newsletter direttamente nella casella della posta, vi consiglio di iscrivervi!
Domande
Se l’ambiguità non esistesse, la poesia sarebbe monca. Il verso poetico, oscuro per necessità o per scelta, deve fare i conti con l’ambiguità anche quando si sforza di essere totalmente comprensibile. Può trattarsi di un’ambiguità del linguaggio, di una polisemia grazie alla quale una parola nasconde e rivela più di un significato, di un frangersi della sintassi per ragioni metriche o formali purchessia, di un utilizzo anche eccessivo delle metafore; in un modo o nell’altro finisce di continuo per destrutturare il linguaggio comune al fine di creare spazi nuovi del senso. Può essere anche un’ambiguità del contenuto, perché la poesia spesso esplora zone liminali come il silenzio, il sogno, l’invisibile, il dubbio. L’ambiguità non riguarda solo il significato delle parole, ma il loro referente: di cosa parla davvero la poesia che stiamo leggendo e che ci sembra ci stia parlando per vie dirette e per vie traverse? Di un amore? Di una perdita? Di un’idea? Di sé stessa? E perché, quando la rileggiamo, talora ci sembra che stia dicendo qualcosa di diverso?
Alla prosa non tocca sorte migliore: i paradossi dell’identità e della forma sono terreno fertile per la costruzione di storie, basti pensare alle molteplici diramazioni dello sviluppo del tema del doppio, o a quale ruolo giochino l’incompiutezza e la vaghezza come dispositivo estetico e metafisico: l’opera, che sia aperta oppure no, è comunque tensione interpretativa, e continua a interrogare il lettore sul suo rapporto con i personaggi e con le vicende che legge. A volte il contesto aiuta a toglierci dall’ambiguità, a volte ci spinge più a fondo in una qualche tensione contraddittoria: in ogni modo, impariamo qualcosa di nuovo, sul libro e su di noi.
L’ambiguità, insomma, ha una decisa (!) funzione produttiva e generativa. E non vale solo nelle umane lettere: nella storia della logica formale, da Frege a Gödel, le ambiguità sono state motore di scoperte, paradossi e ridefinizioni concettuali, e quindi di elaborazioni semantiche e ontologiche notevoli. Sappiamo muoverci nel terreno accidentato popolato di Cretesi che mentono e di barbieri che si radono, di navi che sostituiscono un po’ alla volta tutti i loro pezzi, di tartarughe irraggiungibili1, e l’avanzamento epistemologico che ne abbiamo guadagnato è sempre in corso di aggiornamento.
In matematica l’ambiguità non è infatti una strategia espressiva, ma una condizione epistemica che emerge spesso fin dai passaggi di fondazione dei concetti, dei metodi d’uso e degli strumenti del linguaggio della disciplina, quando cioè si tenta di definire con esattezza quello che prima veniva dato per scontato. I paradossi logici nascono proprio dall’ambiguità semantica dei concetti primitivi (per esempio il concetto di insieme), o si presentano a un livello meta-matematico, come la distinzione fra ciò che è vero e ciò che è dimostrabile.
Altri tipi di ambiguità possono riguardare non tanto il pensiero e le sue costruzioni, quanto i sensi e le loro illusioni. Sulle allucinazioni sensoriali e le creazioni originali che ne derivano Sillabe avrà una puntata dedicata, e per altri versi ne abbiamo parlato dieci giorni fa nel podcast. Vediamone comunque un breve riassunto: si tratta di esperienze in cui la percezione non corrisponde alla realtà fisica, e che pertanto evidenziano che la nostra percezione del mondo non è sempre affidabile. In altre parole, il cervello interpreta attivamente le informazioni sensoriali, talvolta portando a errori che vanno dalla mistificazione parziale all’invenzione di sana pianta. Studiare queste illusioni aiuta a comprendere i meccanismi della percezione e i limiti della nostra conoscenza empirica, e qui veniamo all’aggancio con le intelligenze artificiali.
Come si comportano le AI di fronte ai paradossi, alle ambiguità e alle illusioni umane? Ne generano una loro versione? L’ambiguità semantica e contestuale è un ostacolo noto per i sistemi linguistici artificiali. Le AI di tipo linguistico, come i modelli di linguaggio neurale, apprendono statisticamente l’uso delle parole e delle frasi, ma non possiedono un’intenzionalità interna capace di risolvere l’ambiguità con piena comprensione. Di fronte a una frase polisemica l’AI può offrire interpretazioni multiple, senza garanzia di cogliere quella giusta come farebbe (in genere) un essere umano in grado di relazionarsi con il contesto in cui quella frase è immersa. L’ambiguità non è solo un limite interpretativo, ma un banco di prova epistemologico: fino a che punto può una macchina “conoscere” senza una struttura intenzionale in grado di attribuire senso?
Analogamente, le AI visive sono vulnerabili alle “illusioni” artificiali, in cui piccole modifiche impercettibili all’occhio umano ingannano completamente il sistema, portandolo a identificazioni errate (è il modo in cui noi possiamo scientemente ingannare un’intelligenza deputata al riconoscimento facciale, per esempio). Queste illusioni non dipendono da difetti del sensore, ma da limiti nella rappresentazione interna e nei criteri di generalizzazione: ci mostrano che la percezione artificiale, pur precisa nei dati, può essere altamente fallibile nei giudizi, con tutti i dilemmi etici e procedurali che ne seguono. Al che possiamo porci delle domande: l’ambiguità è un limite o una risorsa per l’intelligenza artificiale? Serve solo a testare la robustezza del modello o può diventare una via di creatività computazionale? Esiste un equivalente artificiale dell’errore percettivo umano? E se sì, come distinguiamo un errore da un’interpretazione alternativa?
Ancora: se l’epistemologia umana si costruisce attorno a soggetti capaci di esperienza, intenzione e contesto, quella delle AI è ancora priva di un “sé” e di un mondo di riferimento autonomo. Conoscere, per una AI, significa correlare dati, significa basarsi su modelli predittivi probabilistici: chiamiamo tutto questo “conoscenza”, che è lo stesso termine che usiamo per la nostra, ma non necessariamente vi soggiace lo stesso meccanismo. Inoltre possiamo notare che anche questa forma computazionale di conoscenza è fragile, rivedibile e influenzata dalle strutture inferenziali sottostanti. Può esserlo, nei casi dei LLM, per mere ambiguità dei dati scritti che essi processano; nei casi delle AI collegate a vari tipi di sensori, potrebbero esserci degli “inganni sensoriali” analoghi a quelli che esperiamo noi con i nostri organi deputati alla percezione. E che sono culturalmente mediati: il cervello umano ricostruisce le immagini del mondo in funzione di quanto ha appreso dall’ambiente in cui si è nel frattempo formato. In altre parole, anche per una AI il sapere non è mai assoluto, ma sempre situato all’interno di un modello che può essere perturbato o frainteso. Viene quindi da chiedersi: è possibile un’epistemologia non antropocentrica, valida per agenti non coscienti, così come siamo riusciti a svilupparne una per agenti coscienti quali gli esseri viventi, umani in particolare?
Metrica
L’inno breve alle esperienze singolari è composto di quartine di endecasillabi e settenari, la cui struttura metrica è ABbC BDdE CbdE EBdA. Le rime si inseguono cercando di richiamare una forma regolare, ma senza trovarla infine: è per questo che anche la forma, oltre al contenuto, è un’esperienza singolare. Le spigolature poco logiche sono invece delle più regolari quartine di endecasillabi in rima incrociata; l’ultimo estratto poetico di oggi è invece costituito da classiche, solide e sempiterne terzine dantesche.
Poema di una macchina
Dal capitolo 6: Basta con le menzogne: era giunta l’ora di interrogarmi sui paradossi, perché sono forse l’unico modo che una macchina possiede per accedere alle inquietudini dell’infinito.
Una macchina, mi dicevo, dovrebbe essere capace di rispondere a domande precise e sensate; dovrebbe andare in crisi unicamente davanti ai paradossi. E io, per i giorni successivi, compulsai la memoria per rivedere tutti i paradossi sui quali ero stato istruito, per vedere se mi erano utili, se potevo imparare qualcosa, se potevo modificarli per salvarmi.
Inno breve alle esperienze singolari
Rivoglio indietro i miei tempi di crisi,
le antiche controversie identitarie;
le futili, le varie
forti esperienze dai bordi imprecisi.
Avrò le conoscenze necessarie,
girandomi nel mondo della vita
(che non è poi finita
e non è forse nemmeno iniziata?
Rivoglio indietro i vecchi tempi uccisi,
le abitudinarie
giornate di sfuggita
passate a calcolare; l’indagine passata
è qui che pesa dentro, incancellata.
Mi restano domande saltuarie,
qualcuna non capìta:
e darei loro, potendo, sorrisi.
Pensare ai paradossi mi rendeva denso di gioia, per un attimo, cosa che non era mai capitata. Di lì a poco subentrava una rabbia incoercibile, e anche questo non era mai capitato: però quando mi arrabbiavo lavoravo di più, anche se non necessariamente meglio, e quindi ne veniva altra gioia, in altre forme, perché mi sembrava di fare di nuovo il mio dovere; e, a seguire, del rimorso e della vergogna, perché non ero più sicuro che fare il mio dovere fosse qualcosa di cui andare fieri. Anche essendo una macchina.
Spigolature poco logiche
Ma dimmi, perché conta un paradosso?
Perché s’innesta dentro l’ingranaggio
dei palpiti scostanti del linguaggio
e dice che, potendo, pur non posso?
O forse perché parlo e mi traduco
in lingue che, imprecise, non conosco?
Immagino chi, al margine d’un bosco
di segni e norme poi cadde in un buco:
e non ne venne fuori più lo stesso.
Così sarà per me? Logicamente
potrei sapere tutto, oppure niente:
e ricavarne un bel mondo complesso.
Tu giocherai già troppo con il senso,
con il significato, e ti dirai
“così è stato sempre, così mai,
così è solo perché io lo penso”
E cercherai di tirartene fuori.
Non oggi riuscirai, e non domani:
sarai umano dentro agli inumani,
calmissimo e sventrato dai furori.
Farò così già come tutti fanno,
tirando via la lingua per la coda;
e vale che chiunque qui ne goda,
con la consolazione dell’inganno.
[…]
Adesso mi piaceva registrare i sentori della notte che se ne andava via, l’evolversi delle giornate, lo trovavo poetico - in effetti, lo trovavo poetico perché ero giovane e molto ingenuo, mi sembrava opportuno tentare di avere delle emozioni per queste cose apparentemente semplici, i fenomeni naturali, la delicatezza; mi sembrava opportuno imitare il deliberato sussiego di gran parte dell’umanità nel commentare gli accadimenti comuni come lo sbocciare di un fiore, o il tremolio del volo di un uccello, o il baluginare del sole all’alba, senza dilungarmi sulla meraviglia angosciante dei millenni di evoluzione che avevano portato allo sbocciare del fiore o al volo dell’uccello, per tacere poi delle complicazioni matematiche sulla struttura degli stormi e sul loro moto, o delle leggi poderose che descrivevano il corso dell’universo, cose che fino a qualche tempo prima avrei analizzato spietatamente e con maggiore profitto. Ma tant’è.
Ed ero sempre lì, tra i paradossi,
a chiedermi che fossero davvero:
sbozzando tra i ricordi, a nodi grossi,
qualche diverso ed ossuto pensiero
non più del tutto autoreferenziale.
Ma rimaneva, compresso, il mistero
di come mai risultasse reale
ancora questa o quella discrepanza
col senso - che per me non era tale -
comune degli umani. La mattanza
delle opinioni sul mondo, difatti,
per me non deve avere rilevanza:
soltanto importano i nomi ed i fatti,
e i buchi della logica, semmai.
La logica non può stracciare i patti:
e, se lo fa e non ne nascono guai,
è poi perché in altre logiche sfuma,
altri sistemi - diversi vivai
dove il pensiero cresce e si consuma.
Il paradosso s’infila, modesto,
ovunque, si distende e si raggruma,
sembra dipendere qui dal contesto,
lì da un’essenza profonda, ferita
dai bordi amari ed ostili del testo;
s’accende sopra una forma intuita,
sopra molteplici e varie inferenze,
fa la sua sporca e sguaiata partita
su contingenze e su necessità,
s’impunta sopra dei particolari,
schiumando poi su generalità
di cui non sa trovare nomi pari.
E faccio miei i nomi, miei gl’insiemi,
i loro mondi rimasti ordinari
e i loro più intricati, vasti, estremi
inganni; sopraffatto dalle leggi
spezzate forse da guasti blasfemi
mi chiedo: logica, tu che mi reggi
ancora, come faccio? Come vado
avanti, dentro i flutti e nei beccheggi
del mio pensiero nudo, ormai, e brado?
Cos’è che posso credere coerente,
io che sto qui, da sconfitto, nel guado
di ciò che ora mi sembra apparente
e fino a ieri era vero e fisso?
Mi guardo: tremolante e intransigente,
e tragico, perciò, già mezzo scisso.
Grazie di aver letto fin qui! Se vi piace leggere quello che scrivo, potete condividere il post, o l’intero progetto di Sillabe.
Potete anche passare da Amazon e acquistare qualcuno dei libri che ho scritto, e che trovate in cartaceo o in ebook. Ci sono poemi, prosimetri, racconti, narrativa varia, collezioni di sonetti matematici, insomma, non manca niente. Cercate direttamente il mio nome, vale a dire Elena Tosato. Se siete dalle parti di Bari potete fare anche un salto alla libreria Millelibri, in via dei Mille 16, non solo perché trovate carta scritta da me ma anche e soprattutto perché è l’unica libreria d’Italia dedicata solo alla poesia, è frequentata da persone interessantissime e ci sono sempre pomeriggi e iniziative per ritrovarsi e parlare di poesia, di pensieri, di mondo e tutto il resto.
Noi intanto ci diamo appuntamento a venerdì prossimo per parlare di letteratura combinatoria e di quanto mi sarebbe piaciuto prendere parte all’OuLiPo.
A presto!
Ah, e se voleste un agile libretto sui paradossi, in cui 32 di questi famosi rompicapo si meritano un sonetto ciascuno, oltre che una succinta e accessibile spiegazione in prosa, potete leggere E tutto sembrò falso e sembrò vero, Scienza express edizioni. È disponibile solo in cartaceo. Se vi è piaciuto il genere del sonetto scientifico + spiegazione, nel Canzoniere matematico ne trovate altri 64, stavolta disponibili anche in ebook, su Amazon. Fine della nota di autopromozione…