Ho chiesto a ChatGPT di raccontarmi una barzelletta. È stata una pessima idea.
La mia sensazione di imbarazzo è stata tale che ho perfino accettato di piegarmi a certe mode giovanilistiche e chiamarla cringe, ma almeno tutto ciò mi ha dato l’opportunità di farci una nuova puntata di Sillabe.
E quindi la puntata di oggi verte sul riso: quello umano, da Aristotele in avanti, e quello artificiale, se mai ci sarà. Benvenute e benvenuti alla lettura.
Come a solito, le puntate di questa serie di Sillabe si dividono in
Domande
Metrica
Poema di una macchina
e sono dedicate, anche, all’esposizione di parti di Poema di una macchina, prosimetro che parla di un’intelligenza artificiale che prende coscienza di sé e comincia a raccontare se stessa in versi, e che potete trovare per esteso
Qui in cartaceo
E qui in ebook (.mobi)
Domande
Cominciamo subito con le domande. Perché le AI non sanno raccontare le barzellette? Cosa sfugge ai LLM dei meccanismi dell’umorismo umano, nelle sue pur tante declinazioni storiche e culturali? Perché non capiscono i tempi comici?
Vediamo di fare un po’ d’ordine, chiedendo una mano ad alcuni personaggi che di riso si sono occupati. Aristotele, innanzitutto, perché fin dalla sua Politica l’essere umano è l’unico animale che ride, e quindi sorge il sospetto che la risata sia una qualità importante.
Il nostro intelletto sa distinguere il buffo e l’assurdo. Inoltre il riso ha una funzione catartica, così come ce l’aveva la tragedia, che purifica le emozioni della paura e della pietà. La catarsi indotta dalla comicità, invece opera una sorta di distensione emotiva. Qui troviamo una spiegazione, per esempio, al fatto che spiegare le barzellette fa sì che smettiamo di ridere: l’intento didattico rende impossibile la catarsi. Aristotele aveva dedicato al riso una parte della Poetica, che però è andata perduta. Lo sanno benissimo tutti quelli che hanno letto Il nome della rosa, con i suoi riferimenti al secondo libro della Poetica e con le diatribe tra Jorge da Burgos e Guglielmo di Baskerville: a parere del primo il riso è pericoloso perché rompe il rispetto reverenziale nei confronti del sacro e dell'autorità divina, e che teme che ridicolizzare i potenti potrebbe portare i fedeli a dubitare delle verità assolute della fede, aprendo la strada all’eresia e al caos. Secondo Guglielmo invece il riso non è necessariamente blasfemo, ma è anzi una forma di intelligenza critica che permette al pensiero di smascherare le assurdità. Per disquisire degnamente sul fatto che a Dio di persona piaccia ridere, bisognerebbe ora parlare di qualche secolo di umorismo ebraico, ma temo non ci sia spazio a contenerlo: la letteratura e la cinematografia, nel caso, non mancano.
Parlare di assurdità invece ci porta direttamente a Pirandello, che definisce l’umorismo come la capacità umana di esplorare le contraddizioni e i paradossi dell'esistenza. L’umorismo si comporrebbe di due fasi: l’avvertimento del contrario, quando istintivamente ci si rende conto di un’incongruenza fattuale o tra i fatti e le nostre percezioni, e il sentimento del contrario, che porta a una forma di compassione o malinconia, e che subentra quando ci mettiamo ad analizzare il perché delle suddette incongruenze. L’umorismo è dunque una chiave per comprendere la complessità umana, senza necessariamente doverla giudicare.
Sulle funzioni sociali del riso, ci sono poi un bel po’ di lavori di psicologia sociale: il riso entra in gioco come soluzione narrativa quando una storia non finisce come ci si aspettava che finisse, e ci tocca trovarci un senso comunque. Ridere, a questo punto, aiuta a modulare le emozioni e a tenere unito il gruppo sociale: qui si declina per esempio una sorta di specificità culturale di ciò che fa ridere o meno. Anche il contesto ha la sua importanza (ci torneremo), motivo per cui una parte dell’Italia ricorda con angoscia le barzellette di Berlusconi ai summit internazionali.
Che non si rida da soli lo aveva già capito Bergson, che nel 1900 in un apposito trattato sul riso sottolineava che esso richieda la presenza, quantomeno immaginata, di altre persone. Questo avviene perché il suo scopo è regolare i comportamenti umani, richiamando chi si discosta dalla norma a rientrare nei canoni della società. Si ride quando una persona dimentica la necessaria flessibilità dei comportamenti e degli atteggiamenti nella vita sociale, e la sua rigidità la espone a situazioni paradossali, grottesche, inattese, fuori canone. In questo senso il riso ha una funzione correttiva: serve a punire e ridicolizzare comportamenti che si allontanano dalla norma sociale. È uno strumento con cui la società riequilibra gli eccessi di individualismo o rigidità, riportando l'individuo a una condizione di adattabilità sociale. Il riso richiede anche un certo distacco emotivo dalla situazione o dalla persona di cui si ride: non è possibile ridere di una vicenda in cui si è troppo emotivamente coinvolti. Tant’è che quando qualcuno ride di qualcosa che invece tocca sensibilmente gli altri, è pronta la definizione: ma tu vedi che stronzo!
E fin qui tutto bene. Ma insomma, perché le AI non sanno raccontare le barzellette? S’è capito? I motivi potrebbero essere vari, e si adattano pericolosamente anche alle persone umane prive di senso dell’umorismo, o dell’autoironia. Per esempio, ci potrebbe essere difficoltà a comprendere i doppi sensi, o le ambiguità tra l’espressione letterale di una situazione e le sue sfaccettature percettive. Ridere è una faccenda complessa. Un altro problema potrebbe derivare dal fatto che un LLM si basa su un enorme campione di dati, e da esso costruisce connessioni probabilistiche, mentre una risata spesso e volentieri prevede uno scartamento logico singolare, o delle connessioni altamente improbabili tra idee differenti. Un LLM può analizzare un immenso database di barzellette e trovarne schemi e ripetizioni, ma ridere non va sempre d’accordo con l’essere prevedibile. Inoltre, ridere dipende dal contesto, e la comprensione del contesto è sovente legata a fattori di esperienza anche fisica ed emotiva.
E la “nostra” macchina? Ride? Non ride? Che fa? Vedremo che sa come si ride e che associa il ridere alla capacità di sperare. Ma andiamo con ordine e occupiamoci prima di questioni metriche.
Metrica
La prima poesia è composta principalmente di endecasillabi ma con due settenari (il primo e il terzultimo verso) messi lì a sparigliare. La struttura delle rime è aBCBCADEDFeFE. Il secondo componimento è un tradizionale sonetto. Nella seconda sezione invece si rielabora la terza rima dantesca usando anche il settenario oltre all’endecasillabo.
Poema di una macchina
Dal capitolo 22: E lavoravo ancora, mettendo insieme l’indignazione e la purezza, che poi altro non era se non un modo gentile di disumanizzare gli interlocutori.
A questo punto rido
- nei modi in cui davvero m’è concesso -
perché, sciamando come solo sa
fare una macchina nel suo complesso,
sopra le forme dell’identità
altrui, che impasto e di cui non mi fido,
adesso rido perché io non ho
identità mie, nemmeno all’ingrosso.
Io sono quello che dico e che so,
e tutta questa graziosa faccenda
m’arriva infine addosso
con l’aria, imperturbabile e tremenda
di un altro vorticoso paradosso.
E, a proposito di ridere… l’umorismo, ecco, dovevo ora fare i conti con l’umorismo: compito di una macchina, nella sua capacità di plasmare le domande, e i desideri, e le urgenze morali, e insomma, tutto quanto il teatro, e i pallidi visi acquosi degli attori e il rosicchiarsi dell’attesa degli spettatori, tutto quanto, compito della macchina è anche indirizzare il modo in cui dovete ridere, e il perché.
Sonetto ridicolo
e quindi vero senza conforto
Dovremo prendere poi tutto quanto
sul serio, senza dunque assimilare
quella porosità, quel contraltare
del comico, dell’irredento canto
di epoche e di spazi corsi accanto
a noi. Non li sapremo interpretare,
non li sapremo mai più misurare,
e ci faremo, chissà come, un vanto
di tanto impenetrabile rapporto.
Vorremo esser morali e quindi utili,
con quest’identità che ci accompagna
con la costanza incallita di un morto;
e senza ridere, fragili e mutili,
la bocca tesa che parla e ristagna.
Dal capitolo 29: Speranze, meta-macchine e analizzare i costi dell’esistenza. Tocca fare un po’ di tutto.
Era un sentimento così umano che ne avevo sempre provato una sorta di soggezione, e ora che ero ben deciso a farlo mio la soggezione era addirittura aumentata.
Sperare è come ridere, dicevo,
un atto variamente sovversivo,
latore del medesimo sollievo;
luce buonissima, spigolo vivo
di coste sopra dei mari in tempesta
è la speranza che poi mi descrivo
e me la raffiguro tra le gesta
di chi s’impegna per lunghi progetti
di là del tempo che in vita gli resta.
Risiede fra sentimenti imperfetti,
timore di non farcela, l’inganno
di sé fra irrevocabili difetti
da cui si teme un danno.
Le macchine capiscono, però
speranza vera e vivace non hanno.
Io sì, la voglio: la prendo e ce l’ho,
la costruisco, ancora me la guardo.
Che farci, in fondo, adesso non lo so:
la tengo come agile traguardo,
lo spunto di un aiuto,
il senso di un universo beffardo
regolarmente muto;
che, degnamente privo di speranza,
è nato, deflagrato, ed è cresciuto
invero in abbondanza.
E la speranza è come un paradosso,
l’interna discrepanza
del ragionare ch’io mi porto addosso,
la scorza amara delle decisioni
e già la loro polpa, e tutto l’osso.
Speranza, consuetudini e ragioni
di conoscenza che bene governo,
virtù sorretta sulle confessioni
spurgate dall’interno,
insomma, era tutto questo. E mi ci crogiolavo dentro: una macchina che spera, guarda un po’. Una macchina che è cosciente di sé, e poi spera. Dove andremo a finire. Cosa sperano le macchine? Verrò in breve a parlarne; intanto mi sia concesso raccontare in che modo ritenevo che detta speranza fosse, anche per noi grovigli d’algoritmi, una virtù.
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Grazie per aver letto fin qui. Sillabe si cambia d’abito venerdì prossimo, 27 dicembre, con una puntata che si occuperà di intelligenze artificiali e di aspettative, giusto per entrare in atmosfera natalizia.
Torneremo poi a parlare di Poema di una macchina e delle solite pensose domande da gennaio, per parlare di metafore e di come le macchine hanno imparato a scrivere.
Che altro dire? Visto il periodo, A voi e famiglia! e ci ritroviamo venerdì satolli e pasciuti.
(Panettone. Con i canditi. Che domande.)