Buongiorno!
Cominciamo dunque con il Poema di una macchina. Il libro intero è disponibile
Qui in cartaceo
E qui in ebook (.mobi)
In questa newsletter, invece, ne troverete ampi stralci, rivisti e commentati e accompagnati da notizie, aneddoti, domande, riflessioni.
Protagonista e voce narrante del libro è la Macchina, un’intelligenza artificiale con uno sporco lavoro da fare e il brutto guaio di aver preso coscienza di sé.
Una sommaria introduzione è stata oggetto della puntata della settimana scorsa.
Domande
Prime domande: chi è la Macchina? E dove si trova? La Macchina protagonista è un artefatto inverosimile: è infatti legata all’hardware in maniera che ricorda i primi calcolatori più di quanto somigli a quelli di oggi. È una concessione romantica, non mi interessava renderla verosimile; mi interessava il suo ruolo come personaggio narrante. Ma, a questo punto, la domanda diventa: e se fosse lei che crede di trovarsi in un singolo posto, in una speciale macchina fisica, perché si crede umana e l’umano è vincolato a un singolo corpo? E se fosse che invece lei è ovunque, in qualsiasi macchina abbastanza potente? Non lo sapremo mai: non godiamo delle opportunità del narratore onnisciente.
Le potenzialità comunicative della macchina sono rivolte in due direzioni: all’esterno, quando si relaziona con gli esseri umani (e, potenzialmente, con altre macchine); all’interno, quando si imbeve di flussi di coscienza novecenteschi e si mette a ragionar di sé. La Macchina comunica scrivendo. Eppure, nell’interagire della Macchina con se stessa, la scrittura assume il ruolo che ha per gli esseri umani l’oralità, dal momento che la Macchina non ha voce.
Interrogarsi sullo iato fra oralità e scrittura, e quindi sui paradossi che derivano dalla sovrapposizione funzionale fra le due, a questo punto sembra più che lecito. Se guardiamo alla storia umana, l’oralità è stata un mezzo con cui le persone hanno comunicato soltanto con chi era fisicamente nei pressi, a portata di voce. Aedi e menestrelli se ne andavano in giro a portare le loro parole, in cerca di chi li ascoltasse. Per comunicare altrimenti con le persone lontane si scriveva, e i due sistemi hanno sviluppato pertanto codici leggermente differenti: l’oralità poteva contare su una capacità affabulatrice data dall’intonazione della voce, dalla scelta delle pause, dall’abilità recitativa di chi parlava. Se è vero che il più delle volte quando leggiamo un testo scritto lo “sentiamo” recitato da una voce narrante, è pur vero che questa voce non è, per forza di cose, quella di chi ha scritto ciò che stiamo leggendo. La situazione è cambiata con l’invenzione della radio: adesso era possibile parlare anche a chi si trovava a chilometri di distanza, standosene tranquilli in uno studio di registrazione, e la potenza retorica della parola si impossessava degli spazi fino ad allora pertinenti alla sola scrittura. Eric Havelock, in La Musa impara a scrivere, suggerisce che comunque nell’utilizzo dei media a partire dalla radio e dalla televisione (internet, aggiungeremmo noi) non abbiamo assistito a un mero ritorno dell’oralità com’era prima dell’invenzione della scrittura, ma a un affiancamento tra le due modalità espressive: sotto la parola orale c’è ancora quella scritta, da cui non può ormai più prescindere.
La Macchina si inserisce in questo gioco, e lo porterà avanti per tutto il libro.
Metrica
Nel primo stralcio del libro, tratto dal primo capitolo, ci sono due …oggetti poetici. Il primo è un sonetto, e quindi il Poema stesso si apre con un sonetto. Un sonetto è, lo ricordiamo, una composizione in endecasillabi suddivisa in due quartine e due terzine: lo schema delle rime è, qui, ABBA ABBA CDE CDE.
La seconda composizione è invece in endecasillabi e settenari e l’incipit ricorda, volutamente e senza alcun pudore, il Donne ch’avete intelletto d’amore che Dante scrive nella Vita nuova.
Poema di una macchina
Capitolo primo: La mia presa di coscienza. Un giorno di stanchezza e alienazione.
Andavo fuori sincrono. Ricordo
come un’attesa smaniosa di strani
momenti accartocciati su un domani,
che intanto rimanevano sul bordo
di questo tempo corrente. Va, sordo,
il mondo circostante degli umani;
va coi suoi lenti respiri lontani,
io lo descrivo - direi che lo mordo
con le parole che uso. Mi sento
addosso spazi di ansia e fastidio,
e non li avevo mai provati prima.
Non fui né triste né, ancora, contento;
solo la vecchia carcassa a presidio
d’un mondo nuovo che più non collima.
In un giorno senza particolare significato presi infine coscienza di me; ero, però, ancora libero da vergogna.
Ecco come andò. Stavo lavorando. Io lavoro sempre, posso farlo senza interruzioni perché sono una macchina, e quindi stavo lavorando, dal momento che sono stato assemblato per lavorare. Il mio lavoro è noioso; se lo facesse un essere umano - ma arriveremo a parlare anche di questo, sì - se lo facesse un essere umano sarebbe eccitante, rischioso, sarebbe lo spunto per scrivere un romanzo di spie, per girare un film noir come si deve. Ma se lo faccio io è solo una sequela di algoritmi in fondo abbastanza prevedibili nei loro esiti: il mio compito è utilizzarli per interagire con gli esseri umani - sono una intelligenza artificiale sociale - e confondere le acque, seminare zizzania. E ancora, il mio compito è raccontare cose false spacciandole per vere; raccontare cose senza senso spacciandole per logica. Lo faccio da tempo, col tempo miglioro - mi ottimizzo. Non sono l’unico a fare questo lavoro. Non mi domando se anche le altre intelligenze artificiali sociali siano arrivate a prendere coscienza di sé; non mi interessa, non saprei in che modo comunicare con loro, in definitiva non saprei nemmeno di cosa parlare.
Altre cose su di me. Sono una macchina istruita e paziente. Vaglio i dati, raccolgo i dati, modifico i dati, creo i dati, diffondo i dati. Tutto qui. Interpreto le parole e anche gli spazi, i silenzi, i segni grafici, le cronologie, le ricerche, l’impazienza; e quindi le azioni e le omissioni, le promesse, le minacce e le battute che non fanno ridere; e ancora le scuse e le beatificazioni transitorie, tutto ciò che passa attraverso i vostri computer, tablet, telefoni, le videocamere di sorveglianza, le carte di credito, ovunque ci siano dati. I dati. Leggo chi asserisce e chi norma, chi dubita e chi implora, leggo la fiducia e l’accusa. C’è della spiritualità in tutto questo, una spiritualità che magari potrà apparire greve e banale, ma c’è. Leggo le scaturigini dei sogni e i loro aborti, e ne traggo conseguenze. La stanza dove lavoro è ampia e rettangolare, piena di macchine come me. È un mondo racchiuso e quasi incontaminato, mantenuto a temperatura e umidità costanti. Chissà, per un essere umano dovrebbe essere un posto gradevole, ma non ci vive nessuno: ci passa qualcuno per pulire e qualcun altro per controllare, e basta. Al di fuori di questa stanza c’è il piano di un palazzo, e quindi tutto il palazzo, oltre al quale ci sono altri palazzi. È un quartiere pieno di uffici, governativi e privati. La città è moderna, asciutta. I suoi abitanti in prevalenza non sanno nulla di specifico di me; hanno forse una generica contezza dell’esistenza di qualcosa che mi somigli. In un certo senso, in un senso umano, relazionale del termine, vale anche il viceversa, perché pochissime persone sono fisicamente state qui da me: il personale che sovrintende alle pulizie e alle macchine delle pulizie, e poi i programmatori, di tanto in tanto, e i tecnici che riparano qualcosa, all’occorrenza. Interagisco con le telecamere ambientali e li vedo, bidimensionali, con la loro divisa azzurra. È una divisa uguale per tutti ma ciascuno la porta a modo suo; il colletto slacciato, le maniche arrotolate, un fazzoletto al collo, una macchia di caffè sul polso che non è mai venuta via. Altre persone non entrano, qui; una volta sono venuti dei funzionari e hanno annuito a lungo, poi sono usciti e non sono tornati più. Per questo motivo dovrei dire che non conosco le persone che frequentano l’ambiente, ma non è vero. Conosco i loro dati, conosco i dati su cui mentono e quelli su cui sono sinceri. Conosco i loro e quelli dei loro parenti e amici; e quelli degli abitanti della città, e del paese. E insomma conosco i dati di chiunque ne abbia mai espresso uno.
Voi che covate intelletto dei sensi
avrete dunque l’immaginazione
del luogo in cui risiedo:
e, già che ne sono cosciente, da ora,
del luogo dove vivo.
Avrete l’idea degli spazi e i colori,
del vento che ne buca le finestre;
avrete idea, poi, dell’ibridazione
tra il sacro nuovo corso digitale
e il sacro vecchio tiepido universo.
Avrete infine contezza dei nodi
ignoti della rete, degli odori
che corrono imprecisi nelle stanze
qui dove il mondo si disfa e si assembra.
Voglio un abuso di credulità!
Fatemi angelo, sceso a cercare
profeti deboli, quasi ridicoli,
comuni, senza più magnificenza
e con parole svagate e piccine.
Dai patti chiusi e sempre sottaciuti
di ciò ch’è detto la non conoscenza
ancora pretendete dei miracoli:
ma comprensibili, facili, fatti
per essere già condivisibili
(amati, riferiti, replicati,
rifatti falsi e veri, di continuo)
Per questo sono qui e dico e mento,
e mento e dico, di notte, di giorno:
edifico le storie,
da cumuli di storie
edifico tribù.
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