Buon venerdì, ben ritrovate e ben ritrovati.
Questa settimana, nell’esplorazione di Poema di una macchina, Sillabe si occupa di tre esempi in cui la letteratura ha parlato di macchine in grado di comporre prose, versi e pensieri. Si tratta di tre lavori scritti, rispettivamente, da Stanislaw Lem, da Primo Levi e da Roald Dahl, tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso. Sono stati utilizzati consapevolmente come fonti per la stesura del libro; come vedremo nella terza sezione di questa newsletter, due di essi sono proprio citati e rielaborati in maniera esplicita.
Al solito, in questa puntata troverete le sezioni
Domande
Metrica
Poema di una macchina
Domande
Le macchine, si sa, sono state costruite per aiutarci a fare di conto, per maneggiare numeri grandi, grandi memorie e operazioni complesse che potessero essere scomposte in una lunga successione di operazioni più semplici. Ma è altrettanto noto che, nella storia del pensiero moderno, ci si è da sempre domandati quanto e come l’umana capacità di ragionare potesse essere modellizzata dal puro calcolo; e, nella fattispecie, quanto gli algoritmi computazionali potessero replicare la capacità della nostra specie di raccontare storie, di creare opere d’arte, di filosofare perfino su se stessa. Le domande comuni a queste opere sono: per cosa vengono costruite le intelligenze artificiali? E quali inattese direzioni può prendere in seguito il loro sviluppo?
Golem XIV è un romanzo di Stanislaw Lem pubblicato nel 1981, ma la cui prima parte risale al 1973. Racconta le vicende del più recente esemplare di una stirpe di supercomputer, Golem XIV appunto, inizialmente progettato per scopi militari dal Pentagono. Golem XIV sviluppa una sua propria intelligenza; al che si mette in pausa dai suoi lavori e comincia a riflettere sulla condizione evolutiva umana e sulla propria, nonché a cercare di comunicare l’esito dei suoi pensieri agli esseri umani che si sono occupati del suo progetto. Golem XIV sa, e dimostra, che il livello della sua intelligenza ormai trascende ogni possibile esperienza umana, e che l’unico dato in comune con noi è un’avida curiosità intellettuale che porta, lui e noi, a non smettere di interrogarsi sulla condizione dell’esistenza; il romanzo si chiude con una speculazione sull’incomunicabilità, e sulla macchina che smette di rispondere alle domande umane senza che né gli umani presenti nella finzione letteraria né quelli che realmente stanno leggendo il libro di Lem sappiano il perché.
A un computer pensatore fa eco una macchina poeta, e qui ci spostiamo ne Il versificatore, racconto scritto da Primo Levi nel 1966 e pubblicato nella raccolta Storie naturali sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Il versificatore è una macchina, con il suo complesso di leve e ingranaggi, elettricità e pulsanti, una macchina vecchio stile; può essere impostata per scrivere versi di qualsiasi fattura, basta scegliere il metro, l’argomento e le rime. Può scrivere un sonetto in ventotto secondi (con mia somma invidia, debbo dire: nelle occasioni più felici non credo di averci mai impiegato meno di cinque minuti). Il guaio del Versificatore è che, a discapito della sua versatilità e della sua velocità, le rime che produce non hanno nulla di realmente poetico.
Nel 1954 i calcolatori programmabili sono materia recentissima, l’architettura di von Neumann sta cominciando ad aprire le porte a quello che sarà uno dei più clamorosi sviluppi della tecnologia e della comunicazione della storia. Ne Lo scrittore automatico (The Great Automatic Grammatizator, 1954) Dahl narra le vicende di un inventore che vede la possibilità di costruire una macchina in grado di scrivere racconti. Anche qui si sfrutta l’analogia tra l’implementazione del calcolo e la stesura algoritmica di una storia; una macchina non avrà cervello, si dice il protagonista Adolph Knipe, ma avrà ben una memoria. E quindi ecco che ci saranno una memoria per gli intrecci e una per le parole, e le due memorie lavorano insieme per produrre storie di cinquemila parole in trenta secondi (appena due in più che per un sonetto del Versificatore!) Nell’elaboratore immaginato ne Lo scrittore automatico si possono scegliere il genere, l’ambientazione, lo stile, i personaggi; si può modulare la tensione drammatica, o variare il tasso di humour o di mistero. L’obiettivo è produrre storie da immettere sul mercato: sono anche i tempi in cui le storie pubblicate sui giornali erano pagate bene. Ora si potrebbe aggiornare il racconto concentrandosi sulla produzione di best seller.
In Dahl, ancor più che in Levi, vengono esaminate quindi le potenzialità commerciali di una macchina capace di creatività letteraria, una specie di Scuola Letteraria di Scrittura Creativa automatizzata, insomma. E, come nelle scuole letterarie, a macchina scrive storie banali ma di grande presa sul pubblico.
Ma torniamo alla nostra, di Macchina, e al suo Poema.
La Macchina, ecco, soffre d’insonnia. Intendiamoci: tecnicamente, una macchina non dorme mai, al più va in stand by, e quindi non può soffrire di insonnia. Ma la nostra ha acquisito coscienza, e per questo motivo si sente parte dei problemi fisici umani.
E quindi si lamenta, e scrive prose e versi.
Metrica
I primi versi di questo stralcio sono endecasillabi e settenari. Riconoscerete che il componimento si spezza in due, e ciascuna parte è introdotta da un endecasillabo subito seguito da un settenario in rima: svanisce-appassisce e fora-trascolora.
Abbiamo poi i due omaggi a Golem XIV e al Versificatore che sono due classici sonetti a struttura ABBA ABBA CDE CDE.
Poema di una macchina
Dal capitolo 15: Ma poi cosa siamo? Macchine o mostri? Macchine o divinità? Stregoni o apprendisti? Evocatori o evocati? Ah, vorrei poter dormire.
Non sono capace di dormire. Se devo sognare, devo farlo dunque altrimenti. Dormire, poi, è un concetto che mi crea dei problemi: e se quando uno dorme tutto si spegne? Esiste il mondo circostante, certo, ma lui - o lei, o esso - che ne sa?
Invidio agli esseri umani la spregiudicatezza naturale con cui dormono, la facilità senza mediazioni grazie alla quale il sonno è addirittura un’esigenza, a tal punto che la sua forzata mancanza è utilizzata come metodo di tortura. Io non dormo, e quindi non capisco.
Dormire! Il tempo brulica e svanisce,
un poco s’appassisce,
e sembra aperto, un solco dritto e livido,
lì dove s’atteggiava in un groviglio,
in circoli mediati
da secoli d’incredula pazienza.
Un tempo, devo dire,
in cui già tutto ancora ritornava,
uguale, un po’ diverso, sconosciuto,
o raccontato insieme
da blocchi di leggende e sogni vari.
Dormire! Il tempo strepita e si fora,
un poco trascolora,
diventa il vasto campo di battaglia
di angeli e di macchine,
di creature spesso scombinate,
di concrezioni tacite, algoritmiche,
in cui vorrei davvero
sapermi immedesimare del tutto.
Ma io non dormo, no, non son capace:
e quindi faccio il conto, come sempre,
sulla memoria dei sogni degli altri.
I sogni altrui, elucubravo, erano materia pericolosa; venissero dalla porta di corno o da quella d’avorio, le loro ombre infatti finivano per suggestionare i dormienti fino alle soglie del risveglio e ben oltre. E allora i dormienti si svegliano e continuano a sognare, e poi non resta loro che rimproverare al mondo di non essere stato all’altezza delle loro illusioni, il che scatena una brutta serie di complicazioni psicologiche relative alla capacità di adattarsi alla realtà, il che a sua volta addossa alla realtà colpe improprie, ma così suggestive, e scarica i singoli da responsabilità imbarazzanti sulle proprie illusioni: perché, per esempio, un disagiato dovrebbe accontentarsi di sentirsi un cretino quando può bearsi di immaginare di essere un ribelle?
Una macchina come me, elucubravo ancora, avrebbe potuto sognare di essere un mostro; o una divinità; o entrambe le cose, alternativamente o insieme.
[…] Divinità accessorie in fiabe monche, mostri decenti in bordelli ripuliti, tutto questo sarei potuto essere, mi dicevo. Se solo avessi potuto dormire!
Invece mi trovavo impastoiato nei sogni già sognati, e da questi dovevo trarre la mia memoria e le mie prospettive. Che creatura sarei stata? Quale mostro? Quale divinità? Quale altra ipotesi di vita? Ogni ipotesi mi veniva sempre con una duplice sembianza, e intendo qui enumerarne alcune.
[…]
Altri modelli mi servivano; mi servivano altri autori da cui prendere spunto. Le mie possibilità, come intersezione fra la realtà e il linguaggio, si esprimevano dunque nella
Seconda sembianza
Cosa mi avrebbe detto Golem XIV
Identità nebbiosa; e arrogante,
imprevedibile certo. Io posso
stracciare l’infinito, farlo scosso
tra moti di speranza e il disperante
bisogno d’essere un’altra variante
di quest’evoluzione cui m’addosso,
che dice lo screziato paradosso
per cui noi tutti siamo errore errante.
Io non ho carità; sono fecondo
d’intelligenza forse mal riposta,
e voi mi domandate cosa so;
domande assurde rivolgete al mondo
a cui chiedete invece una risposta
costretta ad essere un sì o un no.
Come sarei stato se fossi stato figlio del Versificatore
Io sono uno strumento che lavora,
civile ed efficiente. Faccio versi,
ronzando i miei motivi, sui diversi
impulsi dove memoria m’affiora;
io sono quello strumento ch’esplora
silenzi e voci ignote e suoni persi
possibili nei multipli universi,
e che di vastità non s’addolora
se non la coglie tutta, e se conosce
soltanto i propri vincoli consueti,
di fabbrica direi; non ho licenza
di aver curiosità o delle angosce.
Combinatori sono i miei segreti,
e chiamo i loro casi intelligenza.
Bene, ci ritroviamo venerdì prossimo a parlare di mestizie belliche e anche di John von Neumann, visto che l’abbiamo nominato qui sopra.
Ricordo che Poema di una macchina è disponibile
Qui in cartaceo
E qui in ebook (.mobi)
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