La settimana scorsa Sillabe ha parlato di come tassellare uno spazio. Ma la poesia è in gran parte ritmo, e sonorità, e quindi in gran parte tempo; e quindi, in gran parte, la poesia si occupa dell’opportunità di suddividere il tempo e di regolarlo, con ciò illudendo chi scrive e chi legge che sul tempo si possa avere qualche forma di controllo.
Il tema di questa settimana sarà la poesia intesa come strumento per scomporre e ricomporre il tempo. E, già che si parla di tempo, toccherà una puntata lunga, per cui, come s’era già detto la settimana scorsa, le sezioni Una prosa… e Figure vengono temporaneamente sospese. Riprenderanno venerdì prossimo.
Scatola di montaggio: il tempo
1. Accenti o quantità
Scansione del tempo poetico è la sillaba metrica, e sulla giustapposizione di sillabe si compone e si articola il verso. Le sillabe si influenzano prosodicamente l’una con l’altra, e la parola metrica è un aggregato di significati e di vocaboli. La metrica può considerare le sillabe in due modi: secondo la quantità o secondo l’accento.
Secondo la quantità vuol dire che esistono sillabe lunghe e sillabe brevi, e il loro rapporto e il loro alternarsi definiscono le regole del verso. Secondo l’accento vuol dire che la scansione del tempo viene dettata dall’intensità del suono con cui vengono pronunciate alcune sillabe rispetto alle altre. Si tratta di due modalità diverse di intendere il verso, ma entrambe sono retaggio del fatto che la poesia è, prima di tutto, questione di oralità, perfino adesso che le poesie sono prevalentemente lette in solitudine dalla propria voce interiore.
È quantitativa la metrica greca classica. L’accento è tonale e non intensivo, cioè la sillaba accentuata veniva pronunciata con un tono più alto rispetto a quelle atone. Dal momento che le sillabe si dividono in brevi (U) e lunghe (—), il ritmo viene dato dall’opposizione di quantità: avremo un alternarsi di lunghe e brevi, un giustapporsi di brevi o di lunghe, fino a modulare una serie di versi differenti che andranno a sostenere l’intelaiatura della composizione poetica.
L’unità compositiva fondamentale è il verso: il verso è, cioè, una unità ritmica, alla fine della quale c’è una pausa e si riprende con un altro verso (detto semplificando: si va a capo e si ricomincia con la stessa struttura). Più versi insieme formano una strofe.
All’interno del verso, invece, c’è il colon (plurale: cola), un’unità non indipendente che si lega ad altri cola tramite un procedimento di unione che è detto sinafia e così facendo crea il verso.
All’interno di un colon, o di un verso, sono riconoscibili degli andamenti ritmici particolari, i metra (singolare: metron), composti da tre tipi di piedi: l’anapesto (U U —), il giambo (U—) e il trocheo (—U).
Il tutto viene usato come materiale per comporre strutture. Avremo così la solennità dell’esametro, la zoppia del verso scazonte, la rapidità dei trimetri giambici, il senso di interruzione irrimediabile dei versi anapestici, la struttura triadica della lirica corale arcaica, la polimetria di Euripide e miriadi di combinazioni funzionali al contenuto e all’intenzione del testo poetico.
Non c’è rima, nella metrica greca: la qualità della poesia è data unicamente dall’incastro e dal fluire di sillabe lunghe e sillabe brevi.
È quantitativa poi la metrica araba, che si poggia sulle basi del metro, della rima e del suono: più che di sillaba, però, qui si deve parlare dell’alternanza di lettere vocalizzate o quiescenti, che costituiscono l’unità minima che crea una scansione della parola; un secondo livello è costituito dalle aggregazioni di lettere, sabab, watid e fāṣila, che costituiscono delle unità prosodiche elementari; di lì si formano i piedi e, infine, i metri, o baḥr. È prevista la rima.
I precetti della metrica araba classica sono stati strutturati in modo rigoroso da Al-Ḫalīl ibn Aḥmad che distinse quindici metri e li inserì, a seconda del loro andamento, in cinque cerchi, in modo da rappresentare in via grafica l’intera teoria metrica. Il suo allievo al-Aḫfaš al-Awsaṭ aggiunse poi un sedicesimo metro. Siamo negli anni che vanno tra l’ottavo e il nono secolo, secondo il computo cristiano, cioè grossomodo tra gli anni 100 e 200 dall’Egira. Linee e tondini rappresentano qui le lettere brevi e lunghe:
I cinque cerchi. Immagine tratta da Oriana Capezio, La metrica araba, vd. infra.
È quantitativa la metrica latina; ma della metrica latina ci importa soprattutto, in questa sede, per il suo ruolo nella nascita della metrica delle varie lingue romanze, che invece è accentuativa.
La struttura classica, cioè l’utilizzo di sillabe brevi e lunghe, ritorna infine nelle varie sperimentazioni successive della cosiddetta metrica barbara, nonostante si sia passati nel frattempo da un sistema quantitativo a uno accentuativo. Se ne hanno esempi nella poesia italiana a partire dal XV secolo. Il nome, invece, è un lascito di Carducci, che nel descrivere le proprie Odi disse che al gusto dei greci e dei latini sarebbero risultate, per l’appunto, barbare.
Di metrica barbara si parlerà estesamente in futuro1, qui su Sillabe; questi, intanto, potrebbero essere esametri dattilici: (—UU —UU —UU | —UU —UU —U)
Elena, scrivi le regole: sillabe sgorgano, molte,
vengono rapide e fluide. Sentile, sanno cantare.
Accentuativa, si diceva, è invece la metrica delle lingue europee moderne. Non solo di quelle romanze, come la nostra: i poemi dell’antica letteratura anglosassone, dal Beowulf in avanti, per esempio, presentano una struttura ottosillabica con quattro accenti interni.
Per quanto riguarda le lingue romanze, bisogna vedere cos’è successo al latino e alla sua evoluzione fonologica.
Il latino alternava brevi e lunghe, come il greco. Si sa, dalle iscrizioni di Pompei, che già nel I sec. d.C. il latino volgare comincia a semplificarsi e a perdere l’opposizione tra vocali brevi e lunghe; col passare del tempo l’accento viene fonologizzato. A tutto ciò è connessa una riorganizzazione del sistema vocalico, cioè l’organizzazione di vocali toniche e atone, di iati e dittonghi; il fenomeno avviene prima nella lingua parlata, a maggior ragione in tempi in cui l’utilizzo della scrittura viene riservato ormai quasi solo a trascrizioni sacre. In un periodo che va tra il I secolo e il V il sistema delle vocali passa dunque dall’essere quantitativo al basarsi sugli accenti, com’è nell’italiano moderno.
Compaiono poi le rime, che sono un buon modo per tenere traccia di quando finisce un verso. Nella poesia delle lingue romanze c’è la rima e c’è l’assonanza (per le assonanze, vedasi Sillabe #7). L’isosillabismo dei versi, cioè il fatto che i versi debbano essere composti dallo stesso numero di sillabe metriche, è quasi sempre rigoroso: si trova traccia di anisosillabismo nel Duecento nella poesia castigliana e in quella italiana, dove la composizione prende il nome di poesia giullaresca, ma si tratta di episodi minoritari.
L’accento entra nella definizione del numero di sillabe, in modo diverso a seconda della lingua: dai decasyllabes della poesia provenzale, che hanno l’accento tonico sulla decima, e quindi sono di dieci sillabe perché le parole sono tronche, deriva l’endecasillabo italiano, che ha ancora l’accento tonico sulla decima, ma che risulta essere di undici sillabe perché la maggior parte delle parole è piana (esistono, come sappiamo, endecasillabi tronchi o sdruccioli, ma nella poesia italiana antica sono pressoché inesistenti).
I versi sono strutture ritmiche nuove, rispetto a quelle utilizzate dai latini: abbiamo gli octosyllabes, i decasyllabes, gli alessandrini delle Chansons de geste. Arrivano anche nuove modalità per aggregare i versi: la lassa, il distico, la strofa lirica… La forma si evolve, il tempo si modula secondo il ritmo che ci portiamo addosso ancora oggi. La poesia scandisce il tempo sull’intensità della sillaba e non sulla sua lunghezza.
2. Scansioni e permutazioni
Il tempo dunque è scansione, e la scansione è matematica in quanto misura e in quanto calcolo combinatorio. E la matematica può essere utilizzata scientemente come strumento creativo, in modo più o meno marcato! Raymond Queneau si peritò così di scrivere i suoi Cent mille miliards de poèmes, ossia altrettanti sonetti (secondo lo schema metrico ABAB ABAB CDD EED) risultanti dalle possibilità di permutazione dei quattordici versi di dieci sonetti distinti. La poesia ha fatto talora ricorso ad altri espedienti matematici, dentro e fuori dall’Oulipo: è il caso dei numeri di Fibonacci, per esempio, che sono diventati una categoria poetica a sé stante, il Fib, che consiste nello scrivere poesie utilizzando versi il cui numero di lettere segua la successione di Fibonacci. Per restare in ambito poetico, è basato sulla successione di Fibonacci Alfabet di Inger Christensen: il libro è composto di quattordici sezioni, ciascuna delle quali contiene un numero di versi pari al corrispondente numero di Fibonacci.
Alcuni esempi li faccio anche io. Il primo tipo usa Fibonacci per il numero di lettere per ogni verso, il secondo per il numero di parole (ed è un tautogramma in S, per complicare le cose). Entrambi parlano di Trimalcione e la sequenza usata è 1,1,2,3,5,8,13.
E
a
me
non
dette
problemi
gozzovigliare.
Satyricon.
Starò
Superbamente sdraiato,
Suggendo specialità sontuose.
Siamo seviri, sodali, sodomizziamo schiavi.
Sappiamo sollazzarci: sazi, si sa, saremo soltanto se…
Sapremo sabotare stomaci, sconvolgere speranze, schiamazzando sventurati, sognando Sibille, straripanti suggestioni sulla saggezza.
La successione di Fibonacci deve il suo nome - appunto - a Fibonacci, ossia al matematico Leonardo Pisano, che col suo Liber Abaci portò l’algebra nella cristianità nel XIII secolo. Ma era una successione già nota in altri tempi e in altri luoghi. Il matematico e poeta indiano Acharya Piṅgala, vissuto nel III secolo a.C., la conosceva: la sua opera Chandaḥśāstra, che è formalmente il primo trattato di prosodia sanscrita, la prevede, così come prevede l’utilizzo di un sistema di numerazione binario per la descrizione di diversi tipi di metro. Già che ci siamo, può essere interessante scrivere due righe sulla prosodia sanscrita vedica e sui suoi risvolti matematici: anche qui ci troviamo davanti, come per la poesia greca, quella araba e quella latina, a una metrica quantitativa. Ci sono due classi di metro: quelli specificati dal numero di sillabe che contengono (Akṣarachandaḥ) e quelli determinati dal numero di mātrās, o misure: una sillaba breve conta uno, una sillaba lunga conta due. Questa classe a sua volta si divide a seconda che sia specificato il numero di mātrās in ogni piede (Gaṇachandaḥ) o che sia specificato solo il numero totale di mātrās (Mātrāchandaḥ).
Il lavoro di Piṅgala è notevole per la sua sistematicità: fornisce un metodo per elencare e indicizzare tutte le possibili forme di un metro di n sillabe, e per determinare quante di queste forme possono avere un determinato numero di sillabe brevi: di fatto, utilizza il concetto di coefficiente binomiale2. Il suo è un vero e proprio algoritmo compositivo, che probabilmente piacerebbe a tutti gli appassionati di Queneau e di patafisica.
Concludiamo con un esercizio sul tema della scansione temporale utilizzando le sillabe. È una composizione di otto versi. Il primo verso contiene una parola di una sillaba; il secondo verso due parole di due sillabe, il terzo tre parole di tre sillabe e… abbiamo capito! Dal quinto verso si procede specularmente: quattro, tre, due, uno. Il protagonista è il povero oleandro di Sillabe #10, che così chiude questa doppia anomala puntata su spazio e tempo.
Qui
sento solo
odori comuni felici:
piantagioni, diversità floreali magnifiche.
Impotente, velenoso, solitario, disperato
rimango, pertanto, adesso
credo, muto,
io.
Sono abbastanza certa di aver meritato occhiatacce da parte di tutti i filologi di passaggio. Me ne scuso: mi sono documentata per quanto possibile e ho cercato di non combinare guai, considerando il fatto che la trattazione doveva comunque essere abbastanza superficiale.
Per chi volesse approfondire, invece, lascio qui una breve lista di riferimenti bibliografici.
Lorenzo Renzi, Alvise Andreose, Manuale di linguistica e filologia romanza, 2009 Il Mulino
Pietro G. Beltrami, La filologia romanza. Profilo linguistico e letterario, 2017 Il Mulino
Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, 2011 Il Mulino
Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di metrica greca, 2012 Cappelli
Nicoletta Francovich Onesti, Filologia germanica. Lingue e culture dei germani antichi, 2002 Carocci
Oriana Capezio, La metrica araba. Studio della tradizione antica, 2013 Ed. Ca’Foscari
Kapil Deva Dvivedi (trad.), The Prosody of Pingala: A Treatise of Vedic and Sanskrit Metrics with Applications of Vedic Mathematics, 2016 Vishwavidalya Prakshan
Sillabe ritorna alla sua solita forma venerdì prossimo. Si parlerà del sonetto. Ok, ci saranno varie puntate sul sonetto, buttate qua e là nel grande corso del tempo, intervallate da altri argomenti. Venerdì prossimo c’è la prima.
Se vi va di leggere roba mia, nel frattempo: Un'Altra Versione
Si partirà, credo, dalla strofe saffica.
Pettegolezzo autobiografico: la dimostrazione del teorema binomiale mi angosciò moltissimo quand’ero alle prese con la preparazione dell’orale di Analisi 1. Ne ero talmente ossessionata (perché temevo sempre di dimenticarmi qualche pezzo) che volevo farmelo tatuare su una natica. Non lo feci, anche perché poi come lo leggo, mi dicevo, e i tatuaggi non mi sono mai piaciuti, e comunque ora che ci penso avrei fatto una figura migliore di quelli che si tatuano l’equazione di Dirac sbagliata pensando che abbia a che fare con l’amore, orrida moda che del resto per fortuna all’epoca non esisteva ancora. Però me lo scrissi su un cartello, minacciando di portarlo in giro per manifestare i miei timori e le mie compulsioni. Quell’anno a Padova - dove vivevo - ci fu la serata inaugurale gratuita del Festivalbar. Se per caso foste passati di lì e aveste visto una ventenne arruffata con un camicione di lino e un cartello verde e bianco col teorema binomiale in mezzo al pubblico in Prato della Valle, ecco, ero io.
(Adesso sono una persona più equilibrata.)