A volte la poesia vuol raccontare storie lunghe, e dispiegarsi nel tempo, e portarsi addosso intere esistenze, e avventure, e pensieri. Allora diventa poema, e cerca un metro con cui darsi struttura. Abbiamo visto, nella nona puntata, che l’ottava ben si adatta all’epica, col suo andamento fatto di blocchi compatti di otto versi. Possiamo pensare poi ai poemi in endecasillabi sciolti, versione di quel che fu l’esametro latino o quello greco. Questa settimana Sillabe esplorerà un altro tipo di struttura, una rima incatenata.
Una rima incatenata è fatta in modo che non ci siano blocchi conchiusi di versi, ma che ogni canto sia un continuo fluire di rime che si rincorrono con un certo ordine. In questo modo il metro si attacca alla storia, la rende capace di autosostenersi e di avvinghiarsi, a sua volta, a chi la legge o la ascolta.
Una rima incatenata funziona anche come ottimo metodo contro le falsificazioni e le interpolazioni: soprattutto nei tempi in cui i testi si ricopiavano a mano, con una struttura simile era difficile dimenticarsi un verso, o aggiungerne proditoriamente uno, perché per farlo si sarebbero dovuti modificare anche i versi adiacenti.
L’esempio più noto di rima incatenata nella poesia italiana è, ovviamente, la terza rima, anche detta terzina dantesca visto il ruolo avuto da Dante Alighieri nel suo perfezionamento e nella sua diffusione. Non è dimostrato che Dante ne sia direttamente l’inventore: sta di fatto però che prima della Commedia non si trovano esempi del suo utilizzo.
Siccome la cosa occuperà un po’ di spazio, la consueta sezione Una prosa… è rimandata alla settimana prossima. Figure, invece, rimane.
Scatola di montaggio: la terza rima
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
[…]
La struttura della terza rima è abbastanza semplice. Si compone di una serie di piccoli blocchi di tre versi di endecasillabi (da cui il nome terzina) in cui il primo verso rima col terzo. Il verso di mezzo rima invece con il primo (e col terzo) del blocco successivo.
La forma che ne risulta è dunque: ABA BCB CDC DED…
In questo modo il canto dovrebbe risultare composto da un numero di versi multiplo di tre. Così facendo, però, il verso di mezzo dell’ultimo blocco risulterebbe abbandonato a se stesso, perché non avrebbe più nulla con cui fare rima. Per ovviare all’inconveniente, ciascun canto della Divina Commedia si chiude quindi con un verso aggiuntivo che rima col secondo verso del blocco che lo precede, secondo lo schema …YZY Z:
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
La scansione in blocchi spesso aiuta a scandire anche il discorso, che può trovare nella fine di ogni terzina la fine di un ragionamento, o l’inserirsi di una pausa più ampia. Non è però una regola generale. Dopo Dante, la terza rima ritorna nell’elegia; a titolo di curiosità segnalo che un Leopardi poco più che bambino la usava per comporre delle favole.
Sono stata tra le persone fortunate a cui la scuola non ha rovinato l’esperienza di leggere Dante: o meglio, Dante era talmente enorme da soverchiare qualsiasi possibile burocratizzazione imposta dai programmi ministeriali, e l’ho amato senza limiti fin dall’inizio. Avevo la Vita nuova sul comodino e mi capitava di leggerla la sera, aprendola a caso, per mero bisogno fisiologico.
Terminato il liceo, la terzina dantesca mi è rimasta amica. Mi sembrava un ottimo modo per descrivere il mondo, l’universo, l’umanità e tutto quanto. Non avevo ancora scelto in maniera consapevole (o, semplicemente, capito) di dedicarmi prevalentemente alla poesia didascalica di argomento scientifico, ma a vent’anni, subito dopo aver superato l’esame di Fisica Generale 1, mi venne spontaneo mettermi a scrivere in terzine dantesche un fantomatico centunesimo canto della Commedia, in cui Dante si ritrova a dover spiegare l’ineluttabilità del dipanarsi degli eventi e dell’impossibilità del ritorno di ciò che era, e per far ciò ricorre al secondo principio della termodinamica.
Un Dante travolto dall’entropia con le angosce di un Boltzmann fuori tempo, insomma. Il risultato, dal punto di vista poetico, fu penoso a sufficienza da far rivoltare la salma del Sommo Poeta, o quel che ne restava, per tutta Ravenna, ma per me fu una sorta di epifania: la terzina dantesca poteva essere davvero usata per la descrizione del mondo, dell’universo, dell’umanità e di tutto quanto, anche agli albori (all’epoca) del ventunesimo secolo.
E passò altro tempo ancora, e intanto cominciai a esercitarmi forsennatamente nell’uso dell’endecasillabo, imparai a pensare in endecasillabi, mi allenai a sentire il ritmo di ciò che scrivevo, e poi a imporre il ritmo a ciò che scrivevo, e poi ancora ad assecondare il ritmo di ciò che scrivevo.
La terzina dantesca era un banco di prova perfetto. Cosa potevo farci? Nacque allora un progetto abbastanza folle, che prese il nome di Teoria dei Canti, con cui mi proponevo di mettere in terzine la fisica, la matematica e il linguaggio. O, per dirla in modo un po’ più attento alle esigenze del marketing letterario1, la materia, il numero e la parola.
Sulla riuscita dell’operazione lascio il giudizio a chi l’ha letta e a chi la leggerà. Per quel che mi riguarda fu un ottimo modo per capire le potenzialità espressive della terzina dantesca (e per amare Dante ancor di più), per capire i limiti miei e della mia scrittura e per rendermi conto di quanto fossi portata per le imprese disperatamente solitarie.
Lascio qui tre stralci dell’opera. Per chi ne volesse un assaggio più consistente, qui c’è un pdf con i primi otto canti, scaricabile via Dropbox. Per chi si volesse sobbarcare l’impresa, l’opera completa - che di canti ne conta novantasei - è a disposizione su Amazon, in cartaceo oppure in digitale per Kindle. Questo per ricordare che Sillabe è completamente gratuito, e resterà tale, ma che c’è tanto lavoro dietro!
La materia
Prima parte, canto VII. Dopo il primo esperimento fatto a vent’anni con la termodinamica in terzine, ritorno qui con un minimo di padronanza della forma. Eccomi dunque alle prese con Carnot e col suo ciclo.
Un giovane s’avanza, a testa bassa,
e sembra che il calore pur gli arroti 30
disfatta e quasi imberbe la carcassa.
“Sono Carnot”, mi dice “l’ingegnere.”
E un argano controlla, un altro ingrassa, 33
e intanto che finisce il suo dovere
della sua sorte parla con tristezza
e ad ascoltar m’invita a rimanere. 36
“Non era ancor smarrita giovinezza
quando maligno il colera m’uccise,
e l’arte mia lasciò ch’era ancor grezza. 39
Così volle il destino: mi recise.
Se del calore mi chiedi il movente
ne parlerò, con parole precise 42
per quanto la memoria mi consente.
Io ti dirò delle trasformazioni,
di quali scambi ci son con l’ambiente 45
e quali nel sistema e in che porzioni;
e quali sono chiusi, quali aperti,
quali isolati, son definizioni 48
e fatti che dovresti aver per certi.
Di cicli potrei dire, e che precetti
sul rendimento ci abbiamo scoperti 51
e in qual maniera ci siamo diretti.”
Ascolto avidamente quanto afferma,
ché seguita a parlar di gas perfetti 54
d’isocora, d’isobara, isoterma
e d’adiabatica che scambia al mondo
alcun calore. Subito si ferma. 57
Il numero
Nella seconda parte del poema si va a caccia di concetti matematici. Un’ombra misteriosa mi racconta che cos’è lo zero.
“Io ti dirò dell’orrido mistero
che fece madre al caos primigenio, 42
che morte fu, e vita per intero,
frattura che dal dopo stacca il prima,
discrimine del mondo, e fu lo zero. 45
Altro non ha che con sé faccia rima,
soltanto a sé soggiace, senza parti,
e vede il vuoto e poi tutto lo mima, 48
incerto nel disporre le sue arti
tra i numeri cui regge l’armonia.
Per quanto dalla vista lo si scarti, 51
costretto dall’antica geometria
a dar di sé nessuna dimensione,
intatta se ne fa l’apologia.” 54
E mi racconta, con blanda tensione
scandita nel rullare dei suoi passi
attorno a me, che seguo con ragione 57
la voce che s’alterna in alti e bassi,
la storia di quel buco maledetto:
che fu di già l’origine degli assi, 60
che fu deriso e temuto concetto
d’una natura che infine svanisce
eppure non si conta per difetto; 63
dell’ansia di collasso, che lambisce
l’uso nei conti, mi spiega; risale
la voglia che tra molti s’attecchisce 66
di far di lui l’epitome del male.
La parola
Nella terza parte si parla di ciò che si parla: è la sezione dedicata al linguaggio. Nel canto XIX si dà conto di quel mistero umano, attinente al linguaggio, che è il riso; più in là nel canto verrà l’incontro con Gwynplaine, il tragico protagonista de L’uomo che ride di Victor Hugo.
Mistero che di sé non ha valuta,
rigurgito sornione in guance flosce,
vano o vigliacco, follia trattenuta, 30
è quanto di più caldo si conosce
e di più freddo pure, se gli viene:
violento fa tremare carni e cosce, 33
rimesta tutto il sangue nelle vene,
si spande lungo il corso della storia
tenendo in alternanza fasti e pene, 36
l’infamia più bruciante e poi la gloria.
È morte, quindi Dioniso ed Omero,
divino senza sforzi di memoria, 39
veleno che si mescola col siero,
è cifra di Democrito, rimedia
ad ogni voglia sopita del vero, 42
è satira, è ossa di commedia,
catarsi, propedeutico all’amplesso,
è strada dell’eccesso senza media, 45
il diavolo che teme per se stesso,
è fonte dell’eterno carnevale,
è scherno nelle corti, quel processo 48
per cui si dice già che tutto vale,
è sacro, va rinchiuso, va nascosto,
è cardine d’insolita morale, 51
è vino che si sparte via dal mosto,
è gioco di parole: in questo modo
tra i versi che qui scrivo trova posto. 54
Di altre cose in terza rima, e di vecchie e nuove derivazioni della terza rima, si parlerà in puntate future. Per ora, di carne al fuoco ne è stata messa abbastanza: c’è giusto il tempo di lasciare a Figure la chiusura di questo numero di Sillabe.
Figure
Da Haiku in bianco e nero.
Dei buchi storti
lasciati dalla sorte
non ti curavi.
E con questo è tutto. Appuntamento alla prossima settimana, in cui si tornerà al sonetto per alcune variazioni formali sulla struttura, giocando col numero delle sillabe del verso. Altre cose vecchie, nel frattempo, nel mio blog Un’Altra Versione.
Mi sa che qui sto mentendo, o almeno mistificando. La poesia didascalica, e Teoria dei canti lo è, è quanto di più avulso dal mercato editoriale si possa immaginare oggi, e del marketing non sa davvero che farsene. Ma anche le nicchie delle nicchie delle nicchie richiedono un minimo di cura nella presentazione.