Questa settimana si parte in perlustrazione della cosiddetta metrica barbara, cioè dei modi in cui si è cercato di trasporre la metrica classica greca e latina, che è di tipo quantitativo, alla metrica italiana che è di tipo accentuativo.
Per chi volesse, un’introduzione a questi temi è già stata trattata nell’undicesima puntata di Sillabe.
Con l’ausilio di Afrodite, partiamo con la strofe saffica, e con Saffo in generale. La poetessa di Lesbo vive tra la fine del VII e l’inizio del VI sec. a.C. e la sua fortuna ha attraversato i secoli, senza perdere forza nemmeno nel mondo contemporaneo. Godendo già della stima degli antichi, come Strabone, la lirica monodica e la figura stessa di Saffo nel corso dei secoli hanno saputo suscitare suggestioni praticamente in chiunque abbia messo mano a una poesia, basti pensare a due poeti tra loro diversissimi - per quanto quasi contemporanei - come Eduard Mörike e Giacomo Leopardi. Il primo ne ridestò i fasti in Erinna an Sappho, in cui fa così parlare la giovane poetessa Erinna, amica e discepola di Saffo
[…]
Und das eigene Todesgeschick erwog ich;
Trockenen Augs noch erst,
Bis da ich dein, o Sappho, dachte,
Und der Freundinnen all,
Und anmutiger Musenkunst,
Gleich da quollen die Tränen mir.
[…]
[“E meditai sul mio fato di morte, / arida ancora la pupilla, / finché a te, Saffo, pensai, / e alle compagne tutte, / e all’arte delle Muse leggiadra –:/subito mi sgorgarono le lacrime.” La traduzione è di Cristina Campo e si può trovare in La tigre assenza, Adelphi 2021)
Il secondo si appoggiò alla poetessa di Lesbo nel suo noto Ultimo canto di Saffo, parlando delle illusioni perdute. Si tratta di una canzone in endecasillabi sciolti:
[…]
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
[…]
Ma di Saffo in questa sede si parlerà soprattutto analizzando la sua struttura metrica più nota, quella strofe saffica con cui è composto ad esempio l’Inno ad Afrodite, che così comincia:
ποικιλόθρον' ἀθανάτ' Αφρόδιτα,
παῖ Δίος δολόπλοκε, λίσσομαί σε,
μή μ' ἄσαισι μηδ' ὀνίαισι δάμνα,
πότνια, θῦμον,[…]
o, nella traduzione di Ippolito Pindemonte,
Afrodite eterna, in variopinto soglio,
Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
Di noie e affanni.[…]
Scatola di montaggio: la strofe saffica
Prima di entrare nel dettaglio della strofe saffica, è opportuno spendere qualche parola su metro e musica. I metri di Saffo (così come quelli del suo contemporaneo Alceo) sono infatti peculiari: usano il dialetto eolico, su cui si configurano strutture particolari contrapposte a quelle ioniche di Omero e Archiloco e a quelle doriche di poeti come Pindaro o Bacchilide.
Le particolarità sono due.
La prima è che il metro eolico è isosillabico: ogni verso contiene un numero ben stabilito di sillabe, a differenza di quanto accadeva per esempio nella poesia ionica in cui, in particolari contesti, due sillabe brevi potevano essere usate al posto di una lunga o viceversa.
La seconda è che nella poesia eolica compare quella che viene chiamata base eolica: spesso e volentieri le prime misure di un verso sono completamente libere, possono cioè essere coppie di due brevi, una lunga e una breve, una breve e una lunga, due lunghe.
È importante ricordare, poi, che le poesie di Saffo erano cantate. Nulla rimane della musica che le accompagnava, anche perché di un primo trattato di teoria musicale, scritto da Laso di Ermione in Argolide e risalente al VI sec., non sappiamo quasi nulla, ed è improbabile che esistesse un sistema di notazione musicale scritto prima del V sec. Sappiamo invece di più a proposito delle tecniche con cui la musica greca antica ripartiva gli intervalli, basandosi sui tetracordi (invece che sulle ottave come facciamo noi), e costruendo delle armonie che presentavano di volta in volta differenti successioni di intervalli. Ne risultavano così dei differenti modi su cui ogni strumento veniva accordato affinché potesse suonare quella particolare scala.
Di Saffo si sa che usava in abbondanza la cosiddetta armonia misolidia: grossolanamente, pensate di suonare i tasti bianchi del pianoforte da un SI al SI successivo1.
Quanto al ritmo imposto dall’isosillabismo, molti studiosi hanno cercato di ricostruirlo, utilizzando la notazione della musica occidentale moderna, ma si tratta in ogni caso di procedimenti speculativi. Sappiamo per certo solo che era una musica monofonica, cantata o da un singolo o da un coro, accompagnata da strumenti quali la lira, l’arpa lidia o simili, che Lesbo era un centro importante della musica arcaica e che Saffo era pienamente coinvolta nell’ambiente musicale dell’epoca.
L’isosillabismo garantiva comunque regolarità e un andamento omogeneo; la presenza di cesure e enjambement formava a sua volta una sorta di ritmo interno al verso che giocava di sponda con la struttura esterna, più rigida2.
Frammenti di sensualità, l’assenza frequente dei verbi che accentua la vicinanza dei nomi, i quali si accumulano quasi, e l’approcciare la bellezza da ogni angolo: tutto si rincorre e si concretizza nella cosiddetta strofe saffica.
Saffo compone infatti le sue opere utilizzando una struttura a strofe, cioè blocchi di versi con una struttura interna ripetuta.
La strofe saffica è formata da tre endecasillabi saffici e da un adonio: vediamo subito di che si tratta!
L’endecasillabo saffico è un verso di undici sillabe e ha, in genere, questa struttura:
— ∪ — X | — ∪ ∪ — | ∪ — X
ove, al solito, — è una sillaba lunga, ∪ una sillaba breve e X può essere breve o lunga. I primi piedi, che nella poesia eolica sono comunemente liberi, il più delle volte sono qui un ditrocheo, cioè una successione di due trochei (— ∪— ∪)
Un adonio è composto da un dattilo e da un trocheo: — ∪ ∪ — X.
L’adonio è quindi un verso di cinque misure, un verso che suona quasi interrotto dopo la lunga musicalità dei tre endecasillabi che lo precedono.
Esempi di strofe saffica si trovano anche nella poesia latina di epoca classica, come in Orazio o in Catullo, e nella poesia italiana in latino di epoca rinascimentale e successiva. Uno fra tutti: Matteo Maria Boiardo usa questo metro nei primi verdi dei suoi Carmina in Herculem, con cui celebra il ritorno di Ercole d’Este.
La poesia italiana del tardo Ottocento, a sua volta, cerca di riadattare la strofe saffica alla metrica italiana, che è accentuativa. Il processo fa parte della riscoperta dei metri classici che porterà Carducci a parlare di Rime barbare.
Giovanni Pascoli comincia così (rime: ABAb) la sua poesia Novembre:
Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore...
E, per spostarci fuori dall’Italia, su testo di Hans Schmidt musicato da Johannes Brahms, abbiamo anche (rime: AABb) una Sapphische Ode (op. 94 n.4)3:
Rosen brach ich nachts mir am dunklen Hage;
Süßer hauchten Duft sie als je am Tage;
Doch verstreuten reich die bewegten Äste
Tau, der mich näßte.
Auch der Küsse Duft mich wie nie berückte,
Die ich nachts vom Strauch deiner Lippen pflückte:
Doch auch dir, bewegt im Gemüt gleich jenen,
Tauten die Tränen.4
È venuto il momento di dare un contributo personale alla Scatola di montaggio, ed ecco quindi la mia personale interpretazione del metro.
La poesia si chiama L’amante, o quasi, con buona pace di Afrodite che ormai ha un’età anche lei. La struttura prende esempio da quella con cui Pascoli adatta il metro greco a quello italiano. La struttura metrica di ciascuna strofe è ABAb, ove con le maiuscole si denotano gli endecasillabi e in minuscolo il quinario, cioè l’adonio.
L’amante, o quasi
Stava davanti a me, con un affetto
intonso, senza carie, che chiedeva
di ragionar di sé come un precetto,
con me, l’allieva.
Non che dovesse insegnarmi qualcosa:
considerava se stesso una bozza,
che fa discorsi che dire non osa,
e se ne ingozza.
Eppure, qualche singola parola
bucava la paura e l’afasia:
usciva a farsi nota, tutta sola,
e andava via.
La voce gialla, dispersa nel suono,
diceva, con istinto iconoclasta:
“Ti guardo, non so più che cosa sono,
e così basta.”
Aveva nella bocca allora questo
timore di vedersi parassita,
e di scambiarlo già per un pretesto
d’essere vita.
Una prosa è una prosa è una prosa: L’elefante
Racconto che fa parte di Cronache da un paese ipotetico, parla della vecchia Egle Zanussi, solitaria svaporata che regala ai vicini di casa storie inventate affinché trovino conforto.
Ne aveva visti, di coinquilini: andavano e venivano. Lei invece era lì da sempre, da prima della casa, e se non era lei era la madre, o la nonna, o la nonna di sua nonna, fin da quando c’era il regno, e prima gli austriaci, e i veneziani, e prima ancora altri uomini di cui aveva confuso il ricordo, tutti baffi, divise e modi spicci. Le donne della famiglia si assomigliavano a tal punto che alla vecchia Egle, tanto più che ora stava diventando davvero decrepita, non importava fare distinzioni: lei era se stessa e al contempo anche tutte le sue antenate.
Un po’ sorda lo era sempre stata; la vista, invece, era ancora ottima come quando aveva vent’anni, e di pari passo andava la memoria, sicché Egle registrava tutto l’andirivieni dei condòmini e, lavorando di fino e di sponda con domande all’apparenza innocue e oscure divagazioni sui fatti della vita, negli anni si era costruita un imponente almanacco personale di faccende altrui. I due nuovi, lui e lei, li aveva prontamente ribattezzati i Signori Elefante, a causa di un bizzarro annaffiatoio con tanto di orecchie e proboscide che si erano portati appresso nel trasloco e con cui davano da bere a una pianta di rosmarino ispido che avevano sistemato sul piccolo balcone, e che costituiva l’unica deviazione dalla consuetudine in una coppia per il resto del tutto anonima.
Figure
E, visto che abbiamo parlato d’amore e di sogni e di storie, non resta che chiudere con una quartina in tema, in endecasillabi in rima incrociata.
Sorgeva dentro i refoli di un flauto,
con attenzione nuova, un puro eterno
suono d’amore dischiuso d’inverno
e fatto di voglioso affanno cauto.
La denominazione contemporanea dei modi ricalca concettualmente le origini greche, ma la loro formazione si è evoluta nel corso dei secoli. Quella che oggi viene chiamata scala misolidia è diversa da quella plausibilmente usata da Saffo, ed è una scala maggiore con un settimo tono minore.
Per chi volesse saperne di più, una lettura introduttiva ad ampio spettro può essere il recente The Cambridge Companion to Sappho, ed. by P.J. Finglass, A. Kelly, Cambridge University Press 2021, da cui in questa sede ho attinto ampiamente.
Si ringrazia Paolo Gangemi per la dritta.
A spanne: “Mi colsi delle rose di notte nell’oscura foschia, / spiravano un profumo più dolce che di giorno./ Ma i rami mossi spargevano in abbondanza la rugiada / che mi bagnava.// Come non mai mi commosse anche il profumo dei baci / che coglievo di notte dal cespuglio delle tue labbra: / ma anche tu come quelli ti muovevi nel tuo cuore, / cadevano le lacrime.”