Buon anno!
Vi preannuncio novità: da fine gennaio o giù di lì la sezione Figure verrà sostituita da un inserto nuovo, che si chiamerà Calicanto, e ci saranno deviazioni dalla norma per Una prosa è una prosa è una prosa.
Sillabe riprende però intanto con le vecchie sane abitudini e per questa settimana nella sua Scatola di montaggio (che è un po’ il cuore della newsletter) si occupa di una delle tante variazioni della forma del sonetto.
Per chi fosse qui da poco, ricordo che del sonetto si è già parlato nella dodicesima puntata e nella diciassettesima, rispettivamente con una prima panoramica sul sonetto e con delle variazioni metriche che ci hanno portato a esplorare il sonetto lontano dal suo abituale endecasillabo: e avevamo visto allora il sonetto in novenari, in settenari, in quinari e addirittura in ternari.
Stavolta invece vedremo che cos’è il sonetto caudato, e ci faremo ispirare da colui che ne è stato il primo maestro, ossia il fiorentino Domenico di Giovanni detto il Burchiello.
Scatola di montaggio
Iscritto alla corporazione dei medici e degli speziali, il Burchiello conduce un’esistenza abbastanza travagliata tra Firenze, Siena e Roma, nella prima metà del Quattrocento. Fa il barbiere, ma deve barcamenarsi tra strozzini, soldi che mancano, ostilità politiche e altre infelicità accessorie; muore a quarantacinque anni in miseria. Le sue poesie si distinguono perché sono ricolme di cibo, di oggetti e di scherzi, di stravaganze e di giochi di parole, di luoghi e di persone e paradossi: molti saranno i suoi imitatori.
E soprattutto, per quanto ci riguarda, il barbiere-poeta scrive con una forma metrica che è anche un guazzabuglio ritmico, pur partendo dalla solida tradizione del sonetto (che, all’epoca, ha già i suoi due secoli di vita ed è canonizzato per bene).
Il sonetto caudato è, nei suoi primi quattordici versi, un sonetto come tutti gli altri: due quartine in rima incrociata (ABBA ABBA) e due terzine in rima variabile, solitamente CDE CDE o CDC DCD. Il tutto in endecasillabi. Solo che poi, quando il sonetto finisce, lui continua. È come il tenente Colombo quando dice “Ah, e un’ultima cosa” e poi vi spiega che il colpevole era proprio quello che diceva lui.
La prerogativa del sonetto caudato è dunque, come è facile immaginarsi a questo punto, la presenza di una coda, che è un insieme di tre versi così strutturato: un settenario che rima con l’ultimo verso del sonetto “regolare” e due endecasillabi che rimano tra di loro. La coda può essere poi ripetuta, e in questo caso il settenario andrà a fare rima con l’endecasillabo del pezzetto di coda che lo precede.
Vediamo qui un esempio di sonetto caudato originale del Burchiello (Sonetti, CLXIII, nell’edizione del 1757 che si trova su Liberliber). La coda è singola; da notare l’affastellarsi di cibi e di rime difficili. La struttura è ABBA ABBA CDC DCD dEE.
Apro la bocca secondo i bocconi,
E s’io non posso aver del pesce grosso,
Io mangio del minuto, c’ha men’osso,
Toccando mona Menta co i bastoni;
Talor quel Dipintor, co’ suoi prigioni,
Che niun per povertà fu mai riscosso,
Quando quel calzolajo, il me’ ch’io posso,
Salgo con pena quaransei scaglioni.
E alle volte un micolin di Muggine,
Ch’a un bollor nel pentolin si sgretola
Lustra di fuori, e dentro è pien di ruggine.
Scipito è più, che pastinaca, o bietola,
E per trarlo tra’ denti, e le capruggine
Convien ch’io lo scardassi con la setola.
Da Legnaja, e Peretola
Mangio l’Anguille, e dal Galluzzo, e Portico,
Che son più tener, quanto più le scortico.
E ora un paio di esempi miei, con code più o meno lunghe. Il primo è burchiellesco, in omaggio, e credo pure che aver letto Boris Vian in gioventù abbia lasciato il segno in quello che mi passa per la testa. La struttura è ABBA ABBA CDE CDE eFF fGG.
Ho messo alla rinfusa tutto in tavola:
burle, speranze e pezzi di focaccia,
miseria del passato sulla faccia,
bestie mostruose nate da una favola
la cui morale spossata s’indiavola
a farsi viva ancora, e già si spaccia
per vera, e poi biscotti e carta straccia,
un’illusione dentro un nero d’Avola,
fotografie moleste di qualcuno
che non ricordo più chi mai sia stato,
verdura cotta e sesso occasionale,
per quanto risultasse inopportuno,
una vaschetta aperta di gelato
dal gusto pure lui residuale.
Il pranzo di Natale
è stato questa cosa, e la famiglia
l’ha visto come oscena meraviglia.
Almeno mi somiglia,
ho detto, dando poi denti di squalo
a tutti, e cieli azzurri, per regalo.
Il secondo sonetto caudato che propongo invece parla di libri, e fa parte di una mia raccolta di rime di qualche anno fa che si chiamava Canone Accidentale (possa Harold Bloom buonanima perdonarmi) e raccontava 120 classici della letteratura in altrettante brevi composizioni poetiche, in prevalenza sonetti, o sonetti caudati (appunto), o rinterzati o doppi. È un agevole libriccino che si trova su Amazon in vendita, ma è anche disponibile in PDF gratis per chi lo volesse cliccando qui.
Ecco dunque un sonetto caudato su Il signore delle mosche di W. Golding. Anche in questo caso la struttura è ABBA ABBA CDE CDE eFF fGG.
Dalla conchiglia viene la parola,
il suo diritto, la forza che ne crea
il senso; qui, tra fondi di marea
d’un’isola che poco ci consola
viviamo nell’attesa. Resta sola
la gente nostra, si odia, si allea,
soggiace alla paura di un’idea
che nel mistero gravita e poi cola
nel bosco, come sogno d’una faccia
di porco, di chi se lo crede mostro
o segno d’un destino. Disciplina
che muore nelle liti della caccia:
è questo il mondo invece, perché nostro,
e morte e furia. Ma viene mattina
e quindi s’avvicina
una salvezza forse, che sconquassa
i moti senza legge della massa.
La notte infine passa
e l’isola scompare come un finto
acerbo inalberarsi dell’istinto.
Una prosa è una prosa è una prosa: La faccia
Da Sono racconti per nessuno ecco l’incipit di La faccia, che narra della storia di un volto umano che si ripete nei secoli, appartenendo ora a una persona, ora a un’altra.
Uomo e donna fu creato; a volte l’uno, a volte l’altra. Cambiava il corpo; il corpo infatti si articolava in modo tale da essere ora più debole, ora più forte, ora più alto, ora più basso, sfumando i suoi colori attraverso gradazioni diverse, ma la faccia era sempre quella, la stessa faccia regolare, lungo i secoli. C’era qualcosa di commovente e di stolido nel ripresentarsi perpetuo della sua faccia, e anche qualcosa di sinistramente umano. Nella persistenza delle cose giacciono tanto le radici dell’asfissia quanto quelle della consolazione, e la sua faccia non faceva eccezione. Del caso in cui quel volto apparve per la prima volta sulla terra s’è persa traccia e cognizione; chiaramente fu dopo l’affermarsi dell’essere umano così com’è adesso. A tal proposito molti si sono detti curiosi di come sarebbe potuta essere la faccia in questione tra gli ominini d’altri generi, ma si tratta con ogni evidenza di una questione speculativa e leziosa la cui discussione allieta gli interessati soltanto sul finire di certe cene scialbe, quando il poco alcol a disposizione non basta più a nascondere l’imbarazzo del trovarsi in comunione con persone male amalgamate fra di loro.
Figure
Sempre da Haiku in bianco e nero (2023)
D’amore nuovo
il tocco non dispera,
ma non ricorda.
Arrivederci alla prossima settimana! Sarà tempo di ritmi dispari, si parlerà del novenario.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo