Nel modo in cui essa occupa lo spazio, come se fosse una scultura, anche di una poesia si può pensare che il fatto di comporla sia in realtà una questione di togliere materia, e non di aggiungerla; che il processo creativo insomma sia fatto di scelte su cosa omettere, su cosa rimuovere. Per quanto riguarda la parola scritta vengono in mente due riferimenti artistici dai risultati simili: il primo sono le Cancellature di Emilio Isgrò, e il secondo è il Metodo Caviardage di Tina Festa.
Come può la parola poetica venir fuori cancellando ciò che poetico non sempre è? Cosa vuol dire essere di troppo? Come si trova ciò che si nasconde?
Scatola di (s)montaggio: cancellare
Se la poesia è stata spesso trattata fin qui come oggetto sonoro, ritmico, non bisogna dimenticare che essa è anche frutto della sua resa grafica: l’abbiamo visto per esempio nella puntata dedicata ai calligrammi e ai technopaegnia un paio di mesi fa.
Le parole hanno una loro presenza fisica, una volta che sono state scritte su carta, o che compaiono sullo schermo. Mi viene in mente quello che raccontava di sé Herta Müller, con i suoi cassetti pieni di lettere ritagliate, che poi usava per comporre dei collages1: “Dappertutto le parole aspettavano e io dovevo solo ritagliarle. Erano fuori di me, scrivendo non dovevo cercarle nella testa. […] Per ogni parola che ritaglio presumo che un giorno ne avrò bisogno, altrimenti non la ritaglierei. Ma non so come lo stabilisco. […] E le parole che non riesco a sopportare per via delle cose che ho vissuto non le ritaglio. […] Mentre le ritaglio, le parole mi mostrano le parti di cui sono composte. […] Tutto questo si nota nel ritagliare, le parole diventano col tempo costruzioni da cui si possono staccare dei pezzi.”
Le parole diventano oggetti e strumenti visivi e in questo senso possono essere ritagliate, attaccate, colorate. Ma possono, viceversa, anche essere cancellate, espunte: si ritaglia la parola eliminando tutte quelle che le stanno accanto, illuminando ora una parola, ora un’altra, e leggendo quel che resta2. Si eradica la parola dal contesto, dal pensiero che l’ha espressa. Cosa diventa, allora? Cosa può dire di nuovo, o di diverso? Dopotutto le parole umane esistono solo in relazione alle altre. La cancellazione è un procedimento lento, pervasivo, che sposta la consapevolezza da ciò che si toglie a ciò che si lascia. Dice Isgrò che essa è come lo zero in matematica: chiamato a formare, da solo, tutti i numeri e tutti i valori3.
La cancellazione delle parole richiama subito alla mente anche la censura. Cosa viene cancellato? Cosa rimane? Cosa viene travisato, e cosa creato ex novo? In che modo la censura può diventare opportunità comunicativa?
Per farvi un’idea della cancellazione creativa vi rimando ai siti di Isgrò e del Metodo Caviardage. Qui però si fanno esperimenti in proprio, e quindi eccomi a cancellare pagine di libri e a vedere cosa ne nasce.
Sono andata nella parte cartacea della mia libreria e ho pescato a caso. Ne sono uscita con la Critica della ragione pratica di I.Kant e con Bestiario di J. Cortazar.
E ho estratto parole, cercando di estrarne poesia.
Nell’ordine, più sentenzioso Kant, e più onirico Cortazar. E il testo originale? C’è ancora o è sparito? C’è e non c’è, permane come il sorriso del gatto del Cheshire, se n’è andato perché quel che leggiamo non parla più di lui, eppure c’è ancora perché alcune sue parole sono rimaste a dirci altro. Le parole agiscono in modo misterioso.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Quarto appuntamento con la vita di Irene Cardin e la sua formazione. Oggi vediamo una Irene quindicenne alle prese con i suoi pensieri mentre si annoia durante un elettroencefalogramma, il primo di tanti. Anche qui parole cancellate, parole emerse, parole illuminate.
Ci si perde inseguendo qualcosa di indefinito, forse la proiezione di un proprio desiderio, non so. Immaginavo che fosse così anche nella mia testa, la cui attività elettrica era in corso di esame. L’ignoranza del dettaglio è il nutrimento della fantasia. Nel vagare tra una strada e l’altra, che proiettavo inevitabilmente tra solchi e scissure del cervello, crasi di locus amoenus e terra incognita, finivo con le gambe pesanti a dovermi sedere sulla panchina di una piazza spoglia, non più vecchia di cent’anni, con il municipio fatto a scatola, intonacato di giallo o di rosa, uno di quei colori che servono a dare un senso alla nebbia, e con i muri ricoperti di scritte. Ogni volta che capito davanti a un muro pieno di scritte mi metto a leggerle, perché io leggo tutto quello che sia scritto in alfabeti a me noti, per passare il tempo e anche perché immagino che le scritte comunichino l’una con le altre. Come un Orlando senza amore leggevo allora tutti gli intrecci di storie di sconosciuti e di personaggi che si inventavano l’uno con l’altro, gli uni scritti col gesso, gli altri con un pennarello, altri ancora più grandi a vernice; nomi e soprannomi che rivendicavano identità, dichiarazioni di prestazioni sessuali e amori immortali, programmi politici di diversa intensità, dubbi sulla regolarità del campionato di calcio, cazzi pittografati in una gradazione continua di realismo, cancellature di frasi precedenti, negazione, accuse a terzi, dolore e follia, il tutto accomunato dal fatto che i vari estensori ritenevano il proprio pensiero degno d’arte e di unicità, ove collera e impudenza si mescolavano con l’orgoglio malcelato di essere lì. Un canale liquoroso scorreva lì accanto, e lo si attraversava con un piccolo ponte in muratura; ci passavo sopra e mi fermavo a guardare l’acqua, le alghe voluttuose sul fondo e i loro miasmi, come chissà quanti prima di me; ma in quel momento, chissà perché, non c’era mai nessuno. Sul muro, accanto alle scritte, da lontano potevo finalmente scorgere la complessità dell’intreccio di un rampicante che, rachitico, ci aveva messo i piedi sopra ed era cresciuto in mezzo alle parole, pigro e inesorabile, disegnando quelli che assomigliavano a dei sorrisi ritorti e che rendevano tutte le scritte una vana ricompensa di sentimenti già morti.
Calicanto
L’inverno continua, e Calicanto anche.
Domenica mattina
Adesso dirò cose a rime alterne:
l’insistere assoluto di un allarme,
vagisce una bambina al primo piano,
la casa vuota urlante,
il pianto della fame senza forma,
e la parola che tutto diserta:
è questa la domenica mattina,
monologo di stanze lacerate,
futuro che s’apprende,
o forse solo qualche inganno elettrico,
richieste d’attenzione,
la fragorosa invenzione di storie
espresse in lingue senza proprietari.
E per questa settimana è tutto. La prossima faremo un viaggio in lande oscure, tra versi che ricordano l’ottava rima ma non lo sono.
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
I passi qui riportati si trovano in Herta Müller, La mia patria era un seme di mela, Feltrinelli 2015. Traduzione di Margherita Carbonaro.
Vedete i vantaggi dell’arte rispetto alla scienza: se lo fate coi dati scientifici, l’operazione è poco commendevole e si chiama cherry picking!
Credo che valga come riflessione generale sul valore posizionale dello zero, non come esercizio di teoria dei numeri.
sono giochi (o pratiche di scrittura) bellissimi
io che insegno alle volte li ho usati con i miei dodici- e tredicenni
aggiungo una cosa
che la signora abbia messo un marchio registrato su una cosa del genere
(cioè in definitiva cancellare parole da un testo)
l'ho sempre trovata una piccineria francamente micragnosa
ecco