Passate le fugaci avventure del verso libero rieccoci come d’abitudine a contare sillabe. Il tema della settimana sarà il quinario, verso brevissimo che quasi scappa dalle mani. Ma, prima di entrare in tema, lasciatemi dire qualcosa su Sillabe in generale.
La newsletter è giunta alla trentacinquesima delle sue puntate per così dire ufficiali, essendocene state due di ufficiose per Ferragosto e Natale 2023. L’idea è di arrivare a 50, il che comporta ancora quindici settimane di appuntamenti. Poi verrà l’estate, e sarà tempo di tirare un po’ il fiato, perché l’impegno a cadenza settimanale comincia a farsi gravoso. Di lì in poi, è Terra incognita: ho qualche mezzo progetto, ma ancora niente di definito. Qualora riesca a mettere in piedi qualcosa, sarà in questa sede che verrà pubblicato, a puntate, probabilmente due volte al mese. Oppure ci sarà un grande silenzio, non so: non è mai dato sapere a priori quale sia la scelta più degna, o la più necessaria, o anche solo la più felice.
Ma qui si scade, appunto, nella futurologia! Torno quindi subito a quanto è prescritto per oggi, ché mi sono già mangiata un sacco di capoversi.
Scatola di montaggio: il quinario
Il quinario è un verso imparisillabo, con accento obbligato sulla quarta sillaba: il che porge un verso di cinque sillabe (da cui il nome) nel caso l’ultima parola sia piana, di sei sillabe nel caso di parola sdrucciola e di quattro nel caso di parola tronca.
È un verso molto breve: in un quinario si fa a tempo a dir poco, se si è verbosi, ma è un ottimo strumento se si ha il dono della sintesi e si vuol lanciare un messaggio incisivo. Può essere considerato come verso a sé stante della metrica in lingua italiana (Dante lo ammette tra quelli leciti nel De vulgari eloquentia1 come verso utilizzabile nella canzone, in subordine al settenario); può essere pensato come una delle metà dell’endecasillabo, quella che viene prima della cesura in un endecasillabo a minore. Può essere anche usato per tradurre versi della metrica greca classica: l’asclepiadeo minore per esempio può essere pensato come un doppio quinario in cui entrambi gli emistichi sono sdruccioli, e abbiamo visto il singolo quinario sostituire l’adonio nella versione italiana della strofe saffica. Carducci lo utilizza nell’Inno a Satana, che è un’ode-canzonetta (ma della forma della canzonetta parliamo venerdì prossimo!)
Se l’accento obbligato è quello sulla quarta sillaba, l’altro accento che troviamo nel verso è più libero: a volte sta sulla prima, a volte sulla seconda. È un verso che viene usato da solo nell’ode-canzonetta a partire da Chiabrera. Si può pensare al decasillabo come un doppio quinario, ma il “vero” doppio quinario deve rispettare la regola di essere composto da quinari, cioè da due emistichi con l’accento obbligato sulla quarta sillaba, cosa che il decasillabo non è tenuto a fare2.
Veniamo a qualche esercizio sul quinario. Di che cosa può parlare un quinario?
Di Willard van Orman Quine, per esempio. Già che si chiama così…
Che si conosce?
Che mai vuol dire,
la conoscenza?
Significati,
poi, circolari?
Il mondo esterno,
questa apparenza,
cosa traduce?
Ma un quinario può parlare anche di Joaquín Salvador Lavado Tejón, cioè di Quino, il papà di Mafalda. Già che si chiama così anche lui…
Che si conosce?
Mondi complessi!
Adulti soli,
minestre cupe,
e l’indulgenza
d’amore infante:
tutto s’aggiusta,
volendo, quasi.
Infine, potrebbe parlare di inquinamento. Già che si chiama, eccetera eccetera.
Un’aria storta
mi sale dentro.
Gas cittadino
sparso sul mare.
Come gli umani
tutto respiro;
e guardo i fatti
nudi del mondo.
Che si conosce?
Cosa ne vive?
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Nel sesto capitolo di Manuale di conversazione Irene Cardin fa il punto su certe strategie implementate da lei medesima per far passare il tempo durante i viaggi in autobus.
Fatta salva la descrizione fisica delle varie serie ciò che realmente mi premeva era il numero identificativo. Trascorsi i cinque anni di scuola superiore a leggere il numero, ogni santa mattina alle sette e venti, e a giocarci sopra. Da principio non facevo che scomporlo in fattori primi, il che per un numero di tre cifre non richiedeva un grande sforzo mentale. Poi cominciai a considerarlo come termine noto di un’equazione di secondo grado, o a svagarmi con altri semplici maneggiamenti di tal genere: somma di quadrati, somma di cubi, differenza di potenze. Era un modo divertente per arrivare a scuola, soprattutto con la prospettiva di cinque ore di noia.
Alcuni autobus, così, mi erano diventati più simpatici di altri: mi piaceva il 361, perché è il quadrato di 19, e il 19 era un bel numero che nella mente vedevo bianco e blu scuro. Mi piaceva il 424, perché era pari a 4x10^2 + 2x10^1 + 4x10^0 . Mi piaceva il 425, perché era la somma di due quadrati. Non mi piaceva affatto il 414, che era 2x3x3x23, o anche 2x(162-72) e soprattutto una volta una tizia ci aveva vomitato sopra ed erano dovuti scendere tutti per via dell’odore; siccome si era sulla corsa del ritorno, e alla mia fermata mancava poco, ero tornata a casa a piedi.
Fu un passatempo che mi tenne compagnia fino alla fine della scuola. All’università non prendevo più l’autobus con la stessa regolarità, e dopo trovai un primo lavoro fuori città. Una volta passata alla linea extraurbana e a un’altra azienda di trasporti capii che era tutto diverso. La numerazione progressiva dei mezzi pubblici non era più così interessante; erano anche trascorsi degli anni e i gusti cambiavano. Salivo sulla corriera alle sette e un quarto, prendevo posto a sedere - solitamente in quarta fila, a destra - e guardavo fuori dal finestrino, la campagna, i fossi, le case, la rugiada sull’erba moribonda e fradicia del ciglio stradale, le tinte marroni e grigie dell’inverno, il giallo acido della colza nei campi in primavera. Spesso leggevo un libro, se gli altri passeggeri non facevano troppo chiasso. Se capitava che qualcuno volesse scambiare due parole con me, rispondevo educatamente e senza pensare. Alle sette e venticinque l’autobus transitava sotto il campanile stonato del paese di C., che tutte le mattine scampanava una versione aberrante di “È l’ora che pia...”, e proprio lì c’era un semaforo che era sempre rosso e io dovevo sopportare lo strazio della stecca sull’ “Aveeeee, aveeeee, ave Mariaaaa” che le campane proponevano sincopando e berciando con furore dogmatico e cacofonico. Della religione mi importava poco, ma per la musica avevo un moto di rispetto, e soffrivo.
Calicanto
L’inverno è quasi finito - sempre che, con questi disastri climatici, si possa parlare ancora di inverno; e sta quasi finendo anche la mia escursione tra le poesie di Calicanto.
Breve poesia sul panico, che si apre e si chiude con due settenari (il primo è sdrucciolo) e nel mezzo si dilunga in due endecasillabi.
Il panico
Poiché non sa conoscere
nessun contesto e nessuna misura,
il panico qui tutto percepisce
in modo letterale.
La settimana prossima si parlerà delle canzonette. Non di quelle di Edoardo Bennato, però. A presto!
Libri miei
Tutti a disposizione a questo indirizzo.
Tutte le volte che cerco di citare il De vulgari eloquentia il correttore automatico suppone che la città di Sofia sia abitata da persone faconde ed espressive e scrive "dei bulgari eloquenti". Devo ricordarmi di ampliargli il vocabolario.
Al decasillabo sarà dedicata la puntata n.42 di Sillabe.