Terzo e ultimo (?) appuntamento con uno dei derivati di quell’importante forma della poesia italiana che è la canzone. Ricordo che la sesta puntata di Sillabe è stata dedicata alla canzone petrarchesca e la diciannovesima alla canzone libera (o leopardiana). Tocca ora alla canzonetta, che dalla canzone prende spunto ma che di solito si occupa di temi più leggeri e informali, e lo si vedrà anche nella scelta del metro.
Scatola di montaggio: la canzonetta
Sotto la dicitura di canzonetta possiamo raccogliere tutta una serie di componimenti di metro e modello vario, sostanzialmente con l’unico punto in comune di avere una struttura a strofe. In queste strofe i versi possono avere delle rime che poi andranno ripetute secondo lo stesso schema per ogni strofa. Si usano volentieri, ma non è tassativo, versi sdruccioli “fuori rima” che forniscano al resto dei versi un certo andamento ritmico. Il verso è in genere breve, cioè si tende a restare bene al di sotto dell’endecasillabo: sono tipiche le canzoni in settenari, per esempio, ma si può anche scegliere di utilizzare combinazioni di metri diversi, parisillabi o imparisillabi che siano: settenari e quinari, solo quinari, settenari tronchi alternati a settenari piani (son cose che piacciono a Metastasio, queste!), ottonari, insomma chi ne ha più ne metta. Anche l’aria (o arietta) ha a che fare con la canzonetta, di cui ricalca grossomodo le forme ma limitandosi a due strofe. È, inoltre, una forma prettamente cantata.
A questo punto vediamo come ci si può organizzare a scrivere canzonette con un paio di esempi. Il primo è una canzonetta in settenari, con le rime abbaacdcd disposte secondo uno schema che si ripete per tre strofe.
Nella combinazione
di lucidi ricordi
vedo dolenti bordi
di questa mia ragione
e della cognizione
dei tuoi sorrisi persi:
così nell’aria piena
di notte artiglio versi
di cui non sai la pena.
Sorrisi e non parole,
ricordo, e mi sta bene:
al sogno mio pertiene
ciò che non sa e non vuole,
e l’ombra senza sole
del mio giardino muto:
la tua presenza antica
non mi vien più d’aiuto,
straniera e non nemica.
Allora vado, invento,
perduto nell’alterco
dei miei ricordi cerco
il volto tuo, nel vento:
non vedo, ma lo sento,
come se fosse quasi
un livido commosso
fra tutte queste frasi
di te che porto addosso.
Il secondo esempio mette insieme ottonari e quadrisillabi, derivando lo schema dalle Odes di Ronsard e rendendolo un espediente metrico di uso abbastanza comune. Qui le rime si dispongono secondo la regola AaBCcB, ove in maiuscolo è indicato l’ottonario e in minuscolo il quadrisillabo. Le strofe ora sono quattro.
Di quest’inverno passato,
ch’è scassato
come la tua maglia vecchia
ho scritto a te nella notte
frasi rotte
in cui tutto si rispecchia.
Una foglia chiama e spera:
primavera!
E la città divelle
la mia stanchezza cocciuta,
rende muta
felice intanto la pelle.
Mi leggerai? Mi risponde
tra le onde
di vento e fiato il volto
d’un sogno di questi miei.
Dove sei?
Lo vedi, resto in ascolto.
Di quell’estate futura
gran paura
mi viene, e gioia furente!
Il tempo cresce diverso,
forse perso,
e un anno non è niente.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Due stralci dal settimo capitolo, in cui Irene va a trovare il giornalista Sergio Bettin, vecchio amico di suo padre e plausibilmente esperto nell’arte delle parole e dell’interpretazione delle persone.
Di certo il senso di spaesamento a volte si muove come un gorgo che inghiotte tutto senza ritegno, ma una persona può attaccarsi comunque a qualcosa e miracolosamente salvarsi, accade perfino nel Maelstrom, ci informa Poe: nel racconto in questione il protagonista si attacca a un barile vuoto, se non ricordo male. A me, in questi giorni, sono arrivati altri contributi esterni, e mi scuso con loro se sembra che li stia paragonando a un barile vuoto: la cosa è del tutto non voluta. Il secondo contributo, dopo lo scritto criptico di Federico Ganz, è stata una mail di risposta da parte di un vecchio amico di mio padre, che si chiama Sergio Bettin e fa - faceva, in realtà - il giornalista per una testata locale. Lui e papà erano molto amici negli anni dell’università e immediatamente dopo; a quel tempo, in cui io non ero nemmeno tra le ipotesi ventilate, a cavallo tra la fine dei Sessanta e i Settanta, si frequentavano assiduamente. Era quando a Sergio si prospettava un avvenire brillante; adesso non posso dire che non abbia avuto una carriera degna e potrei azzardare perfino notevole, ma non è mai diventato il grande e rispettato editorialista che tutti si aspettavano quando aveva ventiquattro anni e alitava a fiati alterni Débord e Marcuse. È tuttavia un uomo dalla conversazione sciolta e amabile che sa sempre trovare qualcosa di stimolante da raccontare, almeno per quanto mi riguarda. Quando sono nata io le sue frequentazioni con i miei genitori non erano più così intense; andavamo a trovarlo, o veniva lui da noi, qualche sera di tanto in tanto, e tutte le volte si tirava tardi ripromettendosi di rivedersi presto. Da bambina ero affascinata da lui: scapolo, senza figli, amabile con tutti, abilissimo a raccontare storie, bastava che entrasse in casa perché io mi mettessi tranquilla in un angolo ad ascoltare tutto quello che diceva; e se non capivo proprio ogni passaggio e ogni dettaglio cercavo di trattenere a mente il maggior numero possibile di parole, per rimuginarci con calma in un secondo momento.
Gli avevo scritto raccontandogli di questo fatto che sto scrivendo un manuale di conversazione su consiglio della dottoressa Leoni - Sergio ovviamente sa tutto di me, cioè sa quello che si deve sapere, sa che ho delle difficoltà di approccio con il mondo esterno, lui le chiama così, perché è un bugiardo traboccante di misericordia e vuole bene a mio padre e anche a me e allora ammorbidisce le sue parole - e lui si è dimostrato molto partecipe della cosa, ha detto che faccio bene, anzi che faccio ottimamente, e che sarebbe stato felicissimo di darmi una mano.
[…]
Sergio Bettin ha la faccia di un uomo che pensa ancora alla scomparsa delle lucciole e ci ha costruito sopra una liturgia di quarant’anni, all’interno della quale si è comodamente incastonato. È in questa prospettiva che mi ha raccontato tutto quello che segue.
“Tu non eri ancora nata, Irene” ha detto “ma quando tuo padre e io eravamo ragazzi c’era già chi parlava del linguaggio del corpo che altro non sarebbe che apparizione e apostolato. La capacità di decodificare va sempre aggiornata, è un processo che non si arresta mai... e nonostante ciò l’impulso verso un conformismo dei gesti, della postura, dei comportamenti, riassumibili se vuoi nell’abbigliamento e nelle mode, è quasi insopprimibile... Vedi, io mi sono fatto l’idea, all’età che ho, che ci sia un nesso tra la convenzionalità che ci imponiamo e la povertà del linguaggio verbale. Da questo deriva il senso di omologazione, ma sono anche convinto che il conformismo, da una parte o dall’altra, sia inevitabile.”
Si è fermato e mi ha guardato. Ho immaginato che fosse il mio turno di dire qualcosa, di solito succede così. “Non so” ho esordito. Sempre meglio andare sul vago. Io per me sarei tanto apodittica! ma ho imparato che un atteggiamento del genere, sebbene fornisca a chi lo mette in opera una patina di sicurezza e autorevolezza, bisogna anche saperlo reggere, e io non ho mica il fisico, la faccia, per queste cose. Così esordisco volentieri restando sul vago, il che di contro può conferirmi un’aura di saggezza prudente, che va bene lo stesso. “Non so come funzioni per me. A volte il desiderio di riuscire a conformarmi a qualcosa è talmente intenso, e la frustrazione di non farcela talmente ampia, che mi viene il mal di stomaco.”
“E come lo risolvi?”
“Due cucchiai di yogurt.”
Calicanto
Questa andrebbe bene per Irene Cardin, qua sopra. Endecasillabi sciolti.
Pietà
Contemplo con disgrazia e salmodiando
certi ricordi incarnati di me;
vedo, inventandomi giovane,
che la virtù civile ormai si arena,
e già fu mia, lo so, per qualche tempo.
Non ho pietà dei miei sogni passati,
ma loro molta ne hanno di me.
Libri miei
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