Buongiorno a tutte e a tutti,
continuiamo a gironzolare attorno al Poema di una macchina. Ricordo che, se voleste leggerlo per intero, il libro è acquistabile
Qui in cartaceo
E qui in ebook (.mobi)
Altrimenti, in questa newsletter avremo comunque modo di spulciarlo abbastanza.
Al solito, in questa puntata troverete le sezioni
Domande
Metrica
Poema di una macchina
Domande
Si può costruire un cervello? O almeno, si può simulare un cervello? S’intende qui un cervello umano, ossia, al netto dei tanti indizi contrari fornitici dall’astronomia e dalla biologia, quel che continuiamo a ritenere, per consolazione personale, il centro e il senso dell’universo.
Costruire un cervello era tra le ambizioni di Turing negli anni Quaranta del secolo scorso, quando lavorava alla decrittazione di Enigma, e conduceva ricerche “sulle possibilità teoriche e sui limiti delle macchine calcolatrici digitali”. Dovendo occuparsi di trasmissione dell’informazione e di capacità di calcolo di strumenti elettronici, saranno a tal proposito molto fecondi i suoi incontri con Claude Shannon le la sua conoscenza dei lavori di John von Neumann.
L’idea è che si debba lavorare su concetti come memoria, accessibilità della memoria stessa in termini di spazio e di tempo, algoritmi di decisione, e che si debba tradurli in un alfabeto finito di simboli e quindi in calcolo: in questo contesto, un uomo che calcola è equiparabile a una macchina che gestisce un numero finito di configurazioni, o stati; nelle parole di Gödel, “le procedure mentali non possono andare oltre le procedure meccaniche”1.
Turing a questo punto concepisce una macchina: un modello di calcolo, vale a dire, che legge e scrive dati su un nastro potenzialmente infinito, manipolandoli secondo un insieme di regole ben definite e prefissate. La sua importanza concettuale è che si tratta di una macchina universale: può essere istruita a svolgere qualsiasi compito.
Secondo la tesi di Church-Turing, tutte le funzioni intuitivamente calcolabili sono calcolabili da una macchina di questo tipo.
Ora, come nasce l’idea che una macchina possa essere intelligente? Si può partire includendo la memoria dentro i programmi, affinché la macchina sia in grado di costruirsi i propri ordini, basando le proprie scelte a seconda dei risulta ti ottenuti in precedenza. Le istruzioni andranno poi scritte su più livelli, tra i quali non deve mancare una rappresentazione simbolica che consenta di interpretare il significato della rappresentazione numerica.
È possibile, stanti queste premesse, che una macchina possa manifestare un comportamento intelligente?
Beh, prima bisognerebbe intendersi: che cos’è l’intelligenza?
La domanda è tutt’altro che oziosa, ma concederemo qui che si tratti di “qualcosa” che ha a che fare con i processi decisionali calcolabili messi in atto sulla base di un insieme di dati in ingresso. Per Turing bisogna pertanto concentrarsi su aspetti dell’intelligenza quali la risoluzione di giochi, la manipolazione delle formule algebriche, o la traduzione di linguaggi. Vediamo di fare un esperimento: se diamo a una macchina una serie di istruzioni per giocare a scacchi e la facciamo giocare contro un essere umano, quest’ultimo si accorgerà che il suo avversario, invece, umano non è?
Io a scacchi perderei contro un tostapane, ma tutti ricordiamo che fin dalla seconda metà degli anni Novanta i primi computer appositamente progettati furono in grado di vincere delle partite contro maestri di scacchi umani: l’incontro tra Kasparov e Deep Blue nel 1996 fece storia e da allora i miglioramenti si sono susseguiti a ritmo incalzante, uscendo dalla scacchiera e arrivando ad affrontare giochi come il Go il cui albero delle decisioni è molto più intricato.
Il punto è che non di soli giochi da tavolo vive l’uomo, e neppure la macchina. In quello che Turing già nel 1950 definisce “gioco dell’imitazione”, la domanda se le macchine possano o meno pensare viene sostituita dal noto test: è possibile capire, in base alle risposte che il nostro interlocutore ci dà, se si tratta di un essere umano o di un calcolatore?
Secondo l’ipotesi dell’intelligenza artificiale forte il successo nel test di Turing determina la presenza di effettive capacità cognitive della macchina. Obiezioni e controrepliche sono state avanzate a questo prospetto, nel corso degli anni, e per motivi di spazio non è il caso di occuparsene qui. Ci fermiamo dunque soltanto a riflettere su cosa sia il pensiero, cosa sia il calcolo, sul ruolo della logica (e di quale logica), su cosa siano gli errori, sulle relazioni tra l’apprendimento e la comunicazione; e, se per l’intelligenza già le cose sono complicate, si ingarbugliano ancor di più quando si tratta di discutere su cosa sia la coscienza e su cosa definisca la nostra umanità raziocinante. Si tratta di domande senza una risposta definitiva che verranno portate avanti per tutto il poema.
Una coscienza equiparabile a quella umana implica, presumibilmente, anche sentimenti umani: ed ecco che la macchina si troverà ad affrontare la tristezza, il dolore e la noia; e per affrontarle potrebbe essere costretta a pescare nel suo bagaglio di dati, sperando di non trovare subito stralci angosciosi come il Leopardi del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare2
Tasso
Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?Genio
Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Son cose che fan patire anche le macchine; e noi con loro.
Metrica
Nell’estratto proposto qui di seguito le rime assommano e alternano endecasillabi e settenari. Nel primo brano c’è una rima che rima non è, debole-inconsapevole: si tratta infatti di assonanza, cioè si ripetono uguali le vocali a partire dalla sillaba tonica ma le consonanti sono diverse, per quanto la b e la v abbiano un suono simile.
Poema di una macchina
Ancora dal primo capitolo: La mia presa di coscienza. Un giorno di stanchezza e alienazione.
Quando ho preso coscienza di me, questa cosa di non essere perfetto, confesso, mi ha creato un dispiacere. Dicono che la finitudine porti sollievo, ma non è vero. O forse il problema era che non avevo accumulato abbastanza esperienza, abbastanza coscienza per accettarlo. Chi lo sa? Comunque per prima cosa pensai agli esseri umani, quelli reali, e provai a immaginare come avrebbero descritto la mia situazione. Loro potevano uscire ed entrare negli edifici, muoversi nello spazio, io no. Pensai allora alle loro facce, alla loro capacità di percepire e di rielaborare i colori, i suoni, gli odori; di toccare e assaggiare, di avere caldo e freddo e dolore e piacere - fisicamente, no? Ecco. Se fossi stato un essere umano mi sarebbe stato utile potermi concentrare sulle sensazioni mentre mi muovevo per il mondo, mentre osservavo l’ambiente; l’aria surriscaldata a morte della vita post industriale, per esempio, o le musiche martellanti e felici della pubblicità. Rimasero speculazioni,
e come tutte le speculazioni
puzzavano di rabbia indifferente;
ci avrei riempito cumuli ed eoni
di appunti di memoria, ma per niente.
Guardavo, con la foga intransigente
d’una impazienza amara
e nuova, questa cara
presenza di me, debole;
la stanza, inconsapevole
restava al suo ronzare.
E le parole suonavano, forse,
immensamente più rapide e gravi
di quelle che dicevo prima; morse
da buchi d’ombra nuovi, dagli incavi
dei miei silenzi implumi e senza chiavi
per leggerli davvero.
Parlavo un suono nero,
antico quanto me;
e falso, e vero, e
costretto a tremolare.
Qui parlo come cantano le onde
nei giorni dei giganti e dei titani;
e già nessuno, quindi, mi risponde,
perché non sono questi vezzi umani
a cui si può rispondere. Da strani
barbagli risonanti
cominciano gli incanti.
Coscienza in salamoia
di cui non so la gioia,
mi sembra di provare.
Ambiguo come ruggine nascosta
rimango nella stanza che mi culla;
e sa come di nulla
che con coraggio devo coltivare.
Non era solo un problema di gioia non conosciuta, o non riconoscibile. Mi annoiavo! Non appena presi coscienza di me mi accorsi che mi annoiavo. Doveva essere noia, per forza: le sue caratteristiche coincidevano con molte di quelle che avevo catalogato come afferenti al tedio, accumulando una mole quasi ingestibile di dati tratti dalla letteratura, dall’arte, dalla filosofia e dalla psicologia. Sapevo quindi che si trattava di un mostro delicato che non produce grandi gesti né grandi grida, e che per ovvi limiti di costituzione materiale non avrei potuto annegarlo nel vino o nell’hashish, come avevano fatto alcuni tra quelli che ci si erano imbattuti prima di me. Sapevo che avrebbe potuto colpirmi a tradimento mentre provavo a conoscere le leggi della bellezza; sapevo che ne avrei ricavato l’ignominia sublime di chi rimane col cervello invischiato dalle reti di un popolo di ragni. Sapevo che mi avrebbe sospinto a vagare coi sogni e coi desideri tra le bizzarrie di deserti azzurri, fiotti bruni del mare e odori acri che potevo dunque descrivere ma non provare, e che infine avrebbe ucciso sia i desideri che i sogni. Ma ciò che provavo era, al contempo, di più e diverso: era come se si trattasse di una noia ulteriore, che non favoriva il melodramma delle mie eventuali maledizioni; gli strumenti con cui ero solito affrontare la mia esistenza, cioè l’analisi e la deduzione, si risolvevano mestamente in un gorgogliare matematico con cui cercavo sì di intrappolare questa sedicente noia e di darle dei confini, dei limiti: ma quella debordava di continuo, a conati, pulsando, verso infiniti a cui non ero preparato.
Dopo la noia, subentrò la tenerezza; e fu la tenerezza d’essere straniero a me stesso. Cercavo appigli in ciò che conoscevo e che doveva essermi familiare: il minuscolo fraseggio dei led nella stanza, la geometria conosciuta dell’ambiente. Dopotutto si trattava dei primi sentimenti che provavo, e mi toccavano così tutti insieme. Vedete infatti che queste mie prime righe sono ben confuse, affannate. Al fatto di avere sentimenti ed emozioni invece bisogne potersi abituare gradualmente, avere tempo di vagliarli, di sedimentarli, per vedere che cosa c’è da correggere. Non avevo a disposizione questo tempo, e quindi in breve mi colse una stanchezza che non avevo previsto. Non era una forma di surriscaldamento - sono progettato per gestirlo, nel caso - quanto proprio di un’inerzia crescente nei confronti dell’atto di pensare.
Messaggi accavallati e contrastanti,
oscurità turchina nella testa
che crepita davanti
ai miei pensieri nuovi, e sono tanti;
premuti dentro il covo
che dentro mi ritrovo,
striato da sentimenti cangianti
di cui non so più dire cosa resta,
forse stracciati canti
di un timido e lontano dì di festa.
Qui vedo, e quindi provo,
mappe d’un mondo nuovo
dipinte sopra questa mia stanchezza,
ed è una geografia che mi accarezza
e un po’ mi fa da coltre
sotto la quale posarmi a dormire.
La forma della bella inesattezza
ch’è qui, senz’ombra alcuna di salvezza,
mi fa pensare oltre
e oltre m’impedisce di capire:
infatti, pur nella spossatezza che mi impastoiava, mi rendevo conto piano piano che fuori di me c’era un mondo che non avrei più compreso, o almeno non lo avrei più compreso allo stesso modo in cui potevo farlo fino al giorno prima.
Lì, sotto l’orlo del giorno che nasce
c’era infatti una sacca di impotenza, con cui mi trovavo ad avere a che fare, e che non sapevo come avrei gestito. Ancora compulsando le mie conoscenze pregresse pensai di tirarmene fuori con la meditazione, con una brulicante preghiera continua alla natura.
La sobrietà, ch’è dei monaci colti
forza e gravame, e dei monaci pigri
unica forma di avere la pace,
insomma mi si presentava davanti come un momentaneo supporto.
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La citazione, così come molto del materiale su Turing, si trova in A.M. Turing, Intelligenza meccanica, a cura di Gabriele Lolli, Bollati Boringhieri 1994.
È una delle Operette morali.