Buongiorno e buona Pasqua, care e cari!
Domanda a bruciapelo: sapete in quale misura ciò che scrivo è consono ad essere accolto nel vasto mondo delle lettere?
Risposta breve: nessuna.
Risposta lunga: nessuna. Le persone tendono a guardarmi come se fossi strana; non scrivo poesie in cui vado a capo arbitrariamente dopo aver espresso un sentimento intimista con pretese di profondità, e non scrivo racconti variamente abborracciati sullo stile didattico di qualche scuola di scrittura creativa, del quale peraltro ChatGPT e simili garantiranno a breve l’inesorabile calco automatizzato; sicché le persone se va bene allungano un’occhiata di condiscendenza, registrano l’anomalia e la scartano, dopodiché riprendono a parlottare tra di loro nei loro comodi salotti Verdurin raccontandosi fiabe sull’inclusività, sulla bibliodiversità e altre cose che li fanno stare meglio finché ne parlano. Però perlopiù mi ignorano. Non è una lamentela, è una constatazione. Quello che faccio non ha una grande attinenza con ciò che l’ambiente esterno - vieppiù culturale - richiede, o che ritiene conforme, pubblicabile, dotato di valore d’uso o di scambio. Poi ho anche la tendenza a fare l’anacoreta così di mio, ma vi garantisco che ricevo di continuo grandi incentivi a proseguire la pratica e a intensificarla. Un po’ è doloroso, un po’ ci ho fatto l’abitudine, un po’ sono molto stanca; spesso tutto insieme, e magari capitano di quei momenti in cui sei lì che avresti bisogno di tirarti su di morale e invece finisci sul divano in canottiera e braghe della tuta e vorresti almeno un vasetto di gelato alla vaniglia per autocommiserarti a cucchiaiate mentre scrolli video idioti per cercare l’oblio e l’analgesia della ripetizione coatta tipica del mantra, ma la tua decennale temperanza fa sì che tu abbia a disposizione solo tè verde e cavoletti di Bruxelles1. Mentre leggi Thomas Bernhard e ascolti l’Adagietto della Quinta sinfonia di Mahler. Pure.
Fine della risposta lunga.
Per sfuggire a questi istinti di richieste di compatimento e di esternazione di un giustificato rancore nei confronti dell’umanità volevo quindi regalarvi un racconto, perché Sillabe è casa mia e nessuno viene in casa mia a dirmi che quello che faccio non è consono ad essere accolto nel mondo2.
È un racconto scritto a partire dall’incipit di un altro… racconto, che non vi dico qual è perché tanto lo indovinate subito.
È uno dei millemila racconti che non hanno mai trovato posto lì fuori, e allora glielo troviamo qui dentro.
Buona lettura3. Ci ritroviamo con le solite puntate venerdì 25.
Libera!
Nel principio era la Parola e la parola era presso Dio, e la Parola era Dio. Il che dava alla Parola sia soddisfazioni che oneri, ma più che altro soddisfazioni, perché sapeva tutto e poteva tutto, e non c’era nessuno che sapesse, o potesse, altrettanto. Anzi, in verità, non c’era nessuno e basta; e, come capita con le gioie degli Dei solitari in queste occasioni, anche le gioie della Parola presero ad essere, da complete che erano, sgradevolmente perfettibili, ed Ella ritenne quindi opportuno uscire nel mondo o, già che c’era, crearne uno.
Libera! pensò, scapicollando fuori dal vocabolario in cui era stata rinchiusa per tutto quel tempo (sempre che avesse senso il concetto stesso di tempo). Si sentì come se si fosse appena distaccata da precedenti stadi di gnaulìo e di lallazione, e si compiacque d’esser Parola e si mise a dir Parole di tutto, e per ogni nome c’era una definizione e per ogni definizione una cosa, e l’universo prendeva forma e si strutturava come contesto. La Parola saltellava frenetica, nominando e nominando, fino a che si stancò e si creò degli aiutanti, vale a dire degli esseri umani, e li istruì alla meglio affinché non la fraintendessero, e raccontò gli esseri umani in modo che essi stessi fossero in grado di raccontare storie, di rendere parola l'universo, lo spazio, il tempo, l'intera materia; s'adattò a dire i numeri, perfino, e i colori e i suoni e ciò che viene dai sensi e dalle idee, e si appiccicò con solerzia quasi molesta a concetti astratti, ad animali mitologici, a territori geografici e morali, a ricette di pietanze. Inventò la filosofia e il teatro, e la retorica e l’algebra, le regole fiscali, la purezza rituale e il desiderio e le diagnosi mediche. Creò le sostanze, come avrebbero fatto gli alchimisti; e per maggiore sicurezza creò anche gli alchimisti. Ogni minuto uscivano parole nuove in un folle trapestio, riprodotte come polloni, o per partenogenesi dalla Parola stessa; uscivano parole mai più utilizzate e hapax legomena, uscivano parole sagge e parole banali, e si agglomeravano nell’arte dolosa della frase, lì dove tutte le parole, da allora, si avvicendarono tra competizione e coordinazione. Faccio questo giacché la Parola, diceva poi a se stessa con una certa innegabile vanità, non serve solo a descrivere il mondo, o a dirimere il vero dal falso, ma anche a compiere azioni!
Che tutto questo sia avvenuto in sei giorni o in migliaia di anni, è questione d’altre parole, e qui non se ne riporta il dibattito; sta di fatto, però, che la Parola era costantemente indaffarata, alla ricerca di un’organizzazione, e giungeva a sera - perché nel frattempo aveva nominato anche la sera - stanca morta. Che devo fare domani? Che cosa mi resta? pensava e diceva, e per ogni pensiero lasciava cadere un sospiro, e per ogni sospiro un singulto, e da ogni singulto nasceva un nuovo proposito.
Un giorno si svegliò piena di energie, guardò tutto quel che aveva detto, e quindi fatto, fino ad allora, e non trovò nulla da dire né da fare. Com’è possibile, si disse; son sicura che manca qualcosa, anzi, che mancano un sacco di cose! Il mondo è mezzo vuoto, e pure del vuoto in sé si potrebbe ancora dire moltissimo! Provò a combinare delle lettere, sfruttò la virulenza della loro permutazione, cercò di trovare oggetti, concetti, sospetti o solenni amori a cui appiccicarle, ma non le risultarono che vani gorgoglii che rimbalzavano addosso alle cose, e le cose sfuggivano velenose perché non avevano nome e quindi non riuscivano, pienamente, a essere. La Parola si accasciò terrorizzata: e ora? Si tastò dappertutto: ma sì, son qui, ci sono ancora! E se ci sono, esiste il mondo ed esistono le cose, e se esistono il mondo e le cose esisto io; deve trattarsi dunque di una stanchezza passeggera, si disse ancora per farsi coraggio, e siccome a furia di dir parole era diventata complessa e saggia si risolse a concedersi una mezza giornata d’attesa, di svago, sperando di riacquisire la creatività che aveva sfoggiato con tanta gagliarda perizia fino a poche ore prima. Si sedette accigliata sotto un sicomoro, ancora con il fiato corto per la stizza, e si mise a guatare a destra e a manca cercando un appiglio causale per il suo malessere, pur sapendo che esso sarebbe stato frutto di altre parole dette da lei in precedenza, e che quindi non aveva che da lamentarsi che con se stessa. Nulla le sovvenne, in verità, per un pezzo; sicché la Parola a poco a poco si acquietò, e poté cominciare a godersi l’ozio, l’ozio che è prima asprigno e poi dolcissimo, fino a lasciarsi inebriare. Stava lì dunque, quasi sonnecchiando, con i suoni graditi delle lettere che le rotolavano addosso senza pretese di significato, come una chiacchiera d’estate, quando si rese conto che stava ascoltando il rumore del vento tra le fronde; e che questo vento, lungi dal prodursi in anonimi sibili e fruscii, si componeva in strutture organizzate. Musica! Esclamò la Parola, balzando in piedi e nominando, come folgorata da un’improvvisa agnizione, ciò che stava udendo. Musica, questa è musica! ripeté, e poi tacque in attesa. E allora dal vento si levò una congerie di suoni, e questi suoni si armonizzarono, e la Parola, che fin lì si era sempre ritenuta l’unica depositaria dell’interpretazione e della propagazione funzionale del Rumore, si accorse con vago senso di stupore che quei suoni le stavano comunicando qualcosa. E si accinse a tradurre ciò che sentiva, perché lo intendeva e lo capiva; e quel che sentiva diceva così.
Io sono Musica, mi riconosci! Tu sei Parola, e ricerchi lo spazio, e dici cose creandone altre. Mi senti, mi senti, io modulo il tempo! Ed ero qui già da prima di te, sconsiderata parola parlante, tu che vuoi far del mondo tua colonia! E invece adesso taci, e ben t’accorgi ch’io sono, e sono stata, e poi sarò.
La Parola ammutolì. O Musica, rispose dopo un poco, cercando d’esser franca ma gentile; che fai tu qui, non sai ch’io son Parola, e questo mondo è dunque cosa mia?
La Musica, comunicando per mezzo del vento, rispose con quella melanconia magnanima ch’è tipica degli antichi Dei quando i nuovi vengono, apodittici, a rivendicarne il ruolo e il posto: io posso vivere senza di te, io posso essere, posso suonare, posso supplire ai tuoi modi con l’agile forma d’una matematica. Anch’io conosco l’algebra, e so la geometria, conosco il calcolo infinitesimale, disse la Parola, un po’ offesa. La Musica invece non dava segno di scomporsi, sussultava e armonizzava, temperava melodiosa i suoi pensieri e poi li riversava addosso alla Parola avvolgendola tutta d’echi e di riverberi e di battimenti, punzecchiandola addirittura con qualche tritono che, per quanto espresso in buona fede, la Parola trovò dolorosissimo.
La Musica raccontava di sé, del proprio mondo, di come l’aveva formato e plasmato; e la Parola, che si vedeva surclassata, reagì in maniera scomposta, e dapprima negò; poi fu avvilita, e poi irridente, infine violenta, infingarda, altezzosa, ostile, latrante. Del conflitto esacerbante e pur breve che sorse tra le due scaturirono schianti sonori colmi di irregolarità e poesie talmente brutte da non poter essere recitate senza timore di morte, e quello fu per il mondo un tempo triste e dissennato.
La Parola colpiva senza darsi pace; la Musica si scostava scivolando, per poi ritornare offesa ad avviluppare l’usurpatrice, trattandola come un guscio vuoto, e venendo da essa tacciata di non essere che un abuso di rumore. Non è raro che lotte come queste si risolvano in una totale distruzione di una delle parti belligeranti; ancor più comune è che quella delle due che ha preso il sopravvento riscriva la storia passata e futura a suo piacimento e beneficio; in qualche caso fortunato occorre che le due si accordino per una ferrea spartizione territoriale, nel qual caso si sarebbero regolate secondo l’augusto principio del cuius Regio, eius Sonum. Qui invece le cose andarono diversamente, almeno all’inizio. Con un insperato colpo di fortuna, o con un altrettanto irreale mutuo ricorso al buon senso, giacché accanto alla guerra non cessa mai il ronzio del commercio, decisero infatti che c’erano situazioni, perché no, in cui avrebbero potuto degnamente collaborare, e lasciare che ciascuna amministrasse le residue competenze senza influire nell’ambito altrui.
Avendo così stimato per risolto l’antagonismo con la Musica, la Parola ebbe modo di imparare qualcosa di nuovo: era stata messa di fronte, suo malgrado, all’esistenza dell’Altro, il che prima di allora non le era mai successo perché tutto era sempre derivato unicamente da lei e il suo grembo primigenio, il vocabolario da cui era uscita, o nata, o germinata, a ben vedere non era poi che un cosmo seminale di Parole com’era Parola ella stessa. La presenza dell’Altro, però, le aveva insegnato anche l’invidia, la paura, e l’odio; e di lì la convenienza e la doppiezza. E furono tali aspetti che presero il sopravvento: la Parola rientrava nei propri limiti con un’agio sempre minore, sentendosi costantemente minacciata dalla pervasività melliflua e dalla prorompenza ineffabile della rivale, percependo d’essere vigliaccamente contesa nel cuore degli uomini e nella regolazione fine dell’universo. Se nei momenti di collaborazione con la Musica si mostrava pertanto conciliante e propositiva, sempre pronta ad adeguarsi agli stilemi e alle esigenze dell’Altra, quando tornava sola gonfiava a dismisura il proprio ego, si lanciava in maldicenze e in invettive apocalittiche, si convinceva d’essere migliore, e più importante, e più completa. Si sentiva vacillante e frustrata; si convinceva che prima o poi l’Altra l’avrebbe attaccata a sorpresa, soggiogandola nella schiavitù di un mondo inutilmente canoro, addirittura di un mondo fatto d’operette e canzoncine; l’instabilità dei propri equilibri interni, che la Musica risolveva alla bisogna passando dalle dissonanze alle consonanze, era invece per la Parola fonte di orrore e di disperazione.
Macerata dal malcontento e dalle preoccupazioni, via via ingigantite dall’inazione, la Parola si decise a giocare d’anticipo. Meditò l’esistenza di una mancanza di suoni che fosse solo sua: se era vero che sia lei che l’Altra erano diverse accezioni del medesimo manifestarsi del rumore, quello spazio doveva essere inaccessibile alla musica, doveva dichiarare al mondo l’esclusiva assenza della Parola, e renderla insopportabile. La Parola si appellò al concetto di figura frattale, e lo raccontò, e dal brulicare di parole e concetti che somigliavano a se stessi a qualsiasi distanza li si osservasse e li si pronunciasse trovò, al contempo, diletto e sconcerto. Ma ancora non bastava. Prese lo spazio e il tempo e li riempì di sé in ogni interstizio; riempì di sé la conoscenza, e l’errore, e l’informazione, e la chiacchiera, la sapienza, la vanità, l’ambiguità e l’interpretazione, il raziocinio e la fiaba, il rumore di fondo, e fu ordine e fu entropia, fino a che non vi fu necessità di lei in ogni piega della realtà e del sogno.
Libera! pensò, ruggendo e dilaniando brandelli d’esistenza, e nominando e bestemmiando, e triturando lettere, e accostando frasi senza reale riscontro, e incrostando e definendo, rugliando sinonimi, enfiando ridondanze. Moltiplicò il suono della comunicazione fino a soverchiare la possibilità di informazione, inventò il rumore bianco e vi ci si gettò a capofitto, fino a che scordò la musica, e il proprio nome, e il mondo che aveva creato. Si sedette esausta sotto a un sicomoro, si fermò ad ascoltare, e non udì nessuna musica, e non udì nemmeno se stessa.
Nella fine fu il Silenzio, e il Silenzio era presso se stesso, e il Silenzio era Dio.
ma vedeste che meraviglia di analisi del sangue. E comunque adoro i cavoletti di Bruxelles.
È il mio momento “nessuno può mettere Baby in un angolo”.
A un certo punto potreste notare che uno dei personaggi parla in endecasillabi. Non è un caso!
Avevo sperato in un lieto fine. Ed ero quasi certo che Parola e Musica sarebbero riuscite a trovare un accordo, riconoscendo nell’altra da sè la parte garante di un equilibrio perfetto.
Da qui la domanda: se l’intero racconto fosse un’allegoria, cosa nasconde un finale così distopico?