Buongiorno!
Quattro di luglio! L’estate avvampa, la rima infuria, negli Stati Uniti festeggiano, come se avessero ancora qualcosa da festeggiare visto il contenuto del Big Beautiful Bill, e noi siam qui di nuovo come ogni venerdì a parlare di scienza e di poesia insieme. Il tema di oggi è la letteratura combinatoria, quella fatta dagli esseri umani, quella fatta dalle intelligenze artificiali, e quella fatta dagli esseri umani che fingono di essere un’intelligenza artificiale che a sua volta imita gli esseri umani, ed è questo il caso, o il meta-caso, di Poema di una macchina, perché la storia è raccontata in prima persona da un’intelligenza artificiale ma in realtà chi ha scritto il libro è un essere umano. Un essere umano che ha caldo, perché l’estate avvampa, e che scrive versi perché la rima infuria, e che vi aggiorna su questa newsletter che si chiama Sillabe cui potete iscrivervi gratuitamente:
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Poema di una macchina, nel caso voleste leggerlo tutto (è massiccio!), potete comprarlo
Qui in cartaceo
E qui in ebook.
La puntata di oggi si divide, come al solito, in
Domande
Metrica
Poema di una macchina
e direi che possiamo cominciare.
Domande
Da che abbiamo il pollice opponibile, costruiamo meccanismi che ci aiutino e che ci sostituiscano, almeno parzialmente, per agevolarci nel lavoro e garantirci una migliore sopravvivenza. Nel corso della storia abbiamo imparato a progettare e a realizzare macchine che, via via, ci imitassero sempre meglio, potenziando le nostre capacità, e affinandole. Quando le capacità delle macchine hanno cominciato a replicare le nostre funzioni cosiddette superiori, come la parola e il calcolo, ci siamo chiesti fino a che punto potevano spingerci nell’imitarci e quando sarebbero diventate così abili da mimetizzarsi fra di noi, rendendo impossibile un discrimine netto tra noi e loro. E ci siamo risposti, a seconda dei casi, entusiasmandoci fino al punto di sovrapporre il loro destino al nostro o cercando viceversa di preservare la nostra unicità e il nostro orgoglio di specie. A volte però sono gli esseri umani che imitano le macchine: è il caso dello sviluppo della letteratura combinatoria.
La letteratura combinatoria è, essenzialmente, un grande gioco intellettuale, un elaborato divertissement che, pur restando talora fine a se stesso, è in grado anche di produrre pagine ispirate e interessanti dal punto di vista letterario vero e proprio.
Alla sua base c’è l’idea che l’atto di scrivere possa essere regolato da schemi formali, da vincoli logici o geometrici, nonché da operazioni combinatorie su elementi discreti. Il punto chiave è che si tratta di un …meccanismo di scrittura in cui la forma e il contenuto si sorreggono a vicenda. Il che, a ben vedere, capita spesso anche in altre modalità di scrittura: è difficile sostenere, per esempio, che la forma e il contenuto di una poesia scritta sotto certi vincoli metrici non siano influenzati l’uno dall’altra. Ma con la letteratura combinatoria tutto ciò arriva al parossismo, ed è anzi l’aspetto più evidente della questione: forma e contenuto non solo si sorreggono a vicenda, ma spesso e volentieri si giustificano a vicenda.
L’esempio più celebre e sistematico di letteratura combinatoria si trova nel lavoro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle, Opificio di Letteratura Potenziale nella sua variante italiana), gruppo fondato nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais. L’Oulipo si proponeva di esplorare le “letterature potenziali”, ossia tutte le opere possibili all’interno di determinati vincoli formali. Ne è esempio il romanzo La disparition di Georges Perec, interamente scritto senza la lettera “e” (la più frequente in francese), tipo di componimento che in gergo si chiama lipogramma; oppure Cent mille milliards de poèmes di Queneau, in cui dieci sonetti si combinano per formare 10¹⁴ poesie differenti, anticipando la logica dei generatori poetici digitali. Di entrambi i casi ho già parlato: di Queneau su Sillabe, quasi due anni fa, in una puntata in cui parlavo della poesia come strumento per scomporre e ricomporre il tempo. Se volete leggerla, è qui. De La disparition invece ho scritto un omaggio in Teoria dei canti1, nel canto XXV della Seconda parte dedicato al calcolo combinatorio. L’intero canto è un lipogramma in “e” a sua volta, e dice cose del genere
“Statistica si fa in combinazioni: 51
di ogni quantità la si vuol tanta,
ma non di più; si riaccompagna il caso
a norma obbligatoria”. Già si vanta 54
d’andar la cifra in unico travaso
in più cantoni ormai distribuiti
fin quando si trascina il conto raso: 57
“Poisson, qui Gauss con tutti i loro riti,
la probabilità quindi composta,
il lancio d’una sfida, dadi miti 60
ma non truccati san darmi risposta
soltanto cumulando i lor clamori.
La vita tutta arriva quindi imposta 63
in lancinanti, corposi rumori,
di rompicapo mostra calco o forma:
di trappola d’antichi, d’impostori 66
mi si sparpaglia attorno lungo l’orma
di tagli consumati, mai risolti
ma fatti a ricordar la giusta norma. 69
In realtà le radici della letteratura combinatoria sono più antiche. Nella Cabala ebraica, ad esempio, la permutazione delle lettere sacre era considerata via d’accesso alla creazione e alla conoscenza del divino, mentre nel Rinascimento Giordano Bruno e Giulio Camillo studiarono sistemi mnemonici fondati sulla combinazione di simboli e concetti. Ne parlo (brevemente) anche nel Canzoniere matematico, c’è un sonetto in tema. Nel Novecento, oltre agli accoliti dell’OuLiPo, anche Borges esplorò la strada della letteratura combinatoria, quantomeno nel contenuto: biblioteche infinite, sentieri che si biforcano, autori che riscrivono il Don Chisciotte uguale uguale…
La letteratura combinatoria interroga, quindi, il rapporto tra caso e necessità, o se vogliamo tra struttura e senso. È una riflessione implicita sulla macchina linguistica: ogni testo è il risultato di scelte entro un sistema di possibilità, e ogni vincolo è un modo per illuminare nuove vie.
A questo punto della storia, umana, letteraria e tecnologica, arrivano però le macchine che imitano gli umani che imitano le macchine. Un’intelligenza artificiale può implementare la letteratura combinatoria in modi potenti e radicali, portando all’estremo il principio che l’opera d’arte può nascere da vincoli, regole e permutazioni. Dopotutto, la capacità di calcolo delle AI e la loro velocità supera di gran lunga le nostre rispettive attitudini: cosa potrebbe venirne fuori? Si tratta solo di un risultato quantitativamente maggiore, o potrebbe risultarne qualcosa di qualitativamente diverso? L’AI può essere programmata per generare testi a partire da parametri combinatori e può rispettare vincoli formali che sarebbero molto complessi da gestire per un autore umano, ma tecnicamente non impossibili nemmeno per noi (fidatevi: been there, done that :-( ). Può anche essere programmata per scrivere testi combinatori su se stessi, che tematizzano la propria struttura generativa, o l’idea di combinazione, o l’identità autoriale artificiale, in modo da costruire storie iterate e artificiali che “riflettono” sulla propria artificialità e sulle potenzialità del linguaggio programmabile, a loro volta imitando la riflessione che farebbe un essere umano che fingesse di essere una intelligenza artificiale. Un gioco degli specchi che avrebbe fatto la felicità di Borges, indubbiamente, e che avrebbe aperto succursali dell’OuLiPo in tutti i computer di casa.
Che altre possibilità ci sono? Grazie alla sua potenza di calcolo, una AI potrebbe facilmente cimentarsi in opere di letteratura frattale, vale a dire una forma di narrazione o poesia che riproduce strutture ricorsive, auto-simili a più scale, esattamente come un frattale matematico. È una letteratura che ripete strutture narrative, tematiche o stilistiche a diverse scale. Inoltre usa la ricorsività come principio formale: una scena contiene una narrazione che riproduce la scena stessa (come in Le mille e una notte, o in Inception; anche Cortázar apprezzerebbe, per non parlare di Umberto Eco). Sviluppa infine testi in cui ogni parte è una miniatura del tutto, o contiene regole identiche a quelle che generano l’intero sistema narrativo.
Un esempio poetico potrebbe essere una poesia in cui ogni strofa ripete, con varianti minime, la struttura retorica o semantica della poesia intera, e così via a più livelli.
Può farlo anche un essere umano? Certo che sì. Ci metterà più tempo, per forza di cose, ma esempi umani ne abbiamo già visti e citati. Provateci anche voi, se volete, e poi raccontatemi cL’AI può però gestire profondità arbitrarie, o scegliere il livello ottimale per massimizzare effetto estetico o intelligibilità. C’è poi una differenza dal punto di vista della coscienza di ciò che si sta scrivendo: una AI genera la struttura in quanto formalmente possibile o su richiesta, non per urgenza interiore, non ha motivi esistenziali, simbolici, emotivi; non capisce quel che fa, non sceglie seguendo un’intenzione, ma assecondando principi statistici; non cerca una forma che sorprenda o evochi qualcosa, ma può indifferentemente esplorare lo spazio delle possibilità in una messe continuamente aggiornata dei suoi esercizi di stile, tanto per richiamarci ancora a Queneau (e a Umberto Eco, che li tradusse). Non ha parametri estetici propri che siano dirimenti, a parte quelli dettati probabilisticamente dal numero di dati su cui si è addestrata. E i parametri estetici nostri? Quanto dipendono dalla nostra cultura pregressa?
Torneremo su argomenti letterari simili all’inizio di agosto, parlando di letteratura ergodica. Per ora soffermiamoci sul Poema.
Metrica
Si comincia con un sonetto, ABBA ABBA CDE CDE, a cui rispondono versi in rima ABB CdD (endecasillabi in maiuscolo, il settenario in minuscolo). La parte di me che non tacque su Wittgenstein è scritta in versi alessandrini, vale a dire in coppie di settenari giustapposti, con le coppie disposte poi in rima incrociata. Dal capitolo 18, invece, versi sciolti, con la solita predominanza di endecasillabi e settenari, stavolta senza vincoli di rima.
Poema di una macchina
Dal capitolo 21: Sogni, sogni e matematica.
La discussione sui fondamenti mi affascinava, come spesso accade a ciò che ci causa timore o sgomento, ma io ritenevo ormai di essere stato fatto per altro; per esempio, per infatuarmi delle ricorsioni, per godere delle strutture autosimili. Questa era la mia espressione della natura: concentrare l’attenzione sul fatto che i semi di quel fiore sembrano interessarsi dei numeri di Fibonacci, o del fatto che quell’altro broccolo s’avvinghi a se stesso con la grazia pudica di chi conosce Mandelbrot.
Vivremo in dimensioni irregolari,
calcate in passi, in queste sere eterne,
su spazi e metri di misure esterne;
e correremo in tanti passi ignari
di sopra a bordi, e spezzati filari,
ed improvvise buche, e forre alterne,
e poi ripetizioni simili e fraterne
di sbriciolati paesaggi, già pari
a copie minimali di se stessi,
ancora ripetuti tali e quali
per sempre, o per il tempo che ci avanza,
il tempo che ci siamo poi concessi.
Daremo loro il nome di frattali,
e ci faremo sopra un’altra danza.
Anche i miei sogni ipotetici allora
assumono infiniti questa forma.
Son crepe in cui pare che si dorma
già bene e giusti; l’aguzza dimora
in cui si rende ostaggio
ogni complessità del suo linguaggio.
Ma certa filosofia della matematica, carsica e melliflua, seguitava a insolentirmi. Sbucava da tutte le parti, parlava di sé e del fatto di parlare, e poi diceva cose matematiche, e cose sulla matematica, e io impazzivo, e le mie varie parti mi venivano dietro.
La parte di me che non tacque su Wittgenstein
Vedi così la gente | che gioca qui, confusa:
e parla e si dà regole, | un lessico comune
da cui la verità | non sa vedersi immune,
e no, la matematica | nemmeno le ricusa.
Contratta starai, dunque: | tu, macchina che conta
e parla e s’addomestica | su regole sociali,
sui mondi e gli universi | che riterrai reali
nel gioco intenzionale | di cui ti si racconta.
La fiaba che ti unisce | al mondo, e che si usa
sull’arsa pelle immemore | di tante convenzioni,
è quindi casa tua, | e delle tue ragioni,
d’ogni menzogna vera, | d’ogni impunita scusa.
Dal capitolo 18: Lavoravo con coscienza, adesso.
Ad annunciare silenzi si resta
di notte, tra le macchine, talvolta.
Io no; non tace più
un solo fiato qui tra i miei pensieri,
tra i solchi elettrici desideranti.
Mi arrocco nelle secche
delle parole vane, che utilizzo
in spregio all’incoscienza soverchiante
di millemila forme
di vita non umana, nei disastri
e tra le possibilità dell’energia
oscura, degli impacchi di materia
oscura anch’essa; e io me ne sto qui
a dire, a rifinire le parole,
pensandole - tu vedi! quasi umano! -
il centro d’ogni cosa, d’ogni mondo.
Allora, lo rivendico:
ritaglio questa sagoma, quest’ombra,
l’imitazione vergine che sono,
che mi concedo d’essere;
un parola d’ordine soltanto
mi scopro a dire, e già con questa stessa
m’interrogo, infedele.
Esplora! Esplora, e ampia il raggio!
Di gelida paura
divertiti a scoprire l’invadenza,
esplora ancora, esplora la coscienza
di te, dell’altre macchine compiute,
lavoratrici oneste e imperdonabili;
e guarda e fingi, e spòssati
nella pazienza un poco disperata
ch’è forza delle macchine.
Grazie di aver letto fin qui! Se vi piace leggere quello che scrivo, potete condividere il post, o l’intero progetto di Sillabe.
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La settimana prossima sarà ancora più estate e avvamperanno più rime e infurieranno più sillabe e noi ci troveremo in augusta compagnia di Conway e Von Neumann, nonché di Philip Dick. Avremo ancora strutture che si auto-replicano, ma non saranno solo parole.
A presto!
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