Buongiorno,
bentornate e bentornati. Oggi su Sillabe ci occupiamo un po’ meno di Grandi Domande e un po’ più di vecchie storie, un po’ meno di macchine che usano il linguaggio e un po’ più di quelle che, dell’essere umano, imitano il corpo.
Lo facciamo un po’ perché ancora soggetti alle vecchie suggestioni del dualismo cartesiano, un po’ perché la Macchina che scrisse il Poema ha dovuto anch’essa affrontare il problema di non avere un corpo vero e proprio. Di questo argomento, sotto altri punti di vista, ci eravamo in effetti già occupati in questa puntata del podcast; ci torneremo sopra anche nella newsletter nelle puntate 34 e 48.
Prima di cominciare ricordo a chi tra voi legge Sillabe da poco e a chi legge da tanto che Poema di una macchina è disponibile
Qui in cartaceo
E qui in ebook.
e che la puntata di Sillabe, come al solito, si divide in
Domande
Metrica
Poema di una macchina.
E quindi adesso entriamo nello spazio occupato da corpi artificiali, ripercorrendone parte della storia.
Domande
Era l’anno 1827 e Giacomo Leopardi, intento a comporre le Operette morali, scriveva un’arguta analisi sul ruolo delle macchine nella nascente era della tecnologia. L’opera si chiama Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi. E la fittizia Accademia, qui, reputa essere espedientissimo che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. E deliberata di concorrere con ogni suo potere al progresso di questo nuovo ordine delle cose, propone per ora tre premi a quelli che troveranno le tre macchine infrascritte. Le macchine da costruire sono tre: una che simuli la presenza di un amico, in grado di discorrere e di chiacchierare come la controparte umana; la seconda vuol essere un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime; la terza dovrebbe essere infine una donna in grado di espletare le funzioni di quella immaginata, parte dal conte Baldassar Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano.
Come umanità, non siamo cambiati molto negli ultimi 198 anni. Ma in realtà Leopardi non fa che riassumere, brutalmente, gli intenti della nostra specie che affondano le loro origini già nel mito classico, se ci ricordiamo della storia di Pigmalione e Galatea; intenti che si sono poi ripercossi in letteratura fino ai giorni nostri, con un’esplosione di variabilità a partire dall’epoca dell’elettricità e del vapore, ossia da quando la tecnologia è diventata abbastanza potente da rendere meno inverosimili i nostri sogni e le nostre velleità di riprodurre noi stessi in forma meccanica, o di ampliare in forma meccanica le nostre caratteristiche umane o animali: abbiamo costruito robot quadrupedi e umanoidi progettati per affrontare terreni accidentati e ambienti non strutturati, e utili in caso di impiego in teatri di guerra o di disastro ambientale; li abbiamo dotati di una vasta gamma di sensori (da quelli inerziali ai sistemi di visione) che consentono ai robot di percepire e interpretare il loro ambiente.
A tal proposito è chiaro che dobbiamo ricordarci del mito di Frankenstein, che si porta dietro il tema della creazione e della responsabilità, il rischio dell’ambizione disumanizzante, l’antropomorfizzazione delle macchine e tutti i conflitti tra innovazione ed etica che ci impegnano tuttora, ma in effetti le potenzialità per un impiego a tutto vantaggio degli esseri umani sono enormi.
Né si deve pensare che questi temi siano storicamente peculiari del pensiero occidentale. Già nel Medioevo, il mondo arabo fu teatro di innovazioni che hanno precorso lo sviluppo dei moderni automi e robot. Nel Libro della conoscenza dei dispositivi meccanici ingegnosi, Al-Jazari descrisse una serie di macchine semoventi, tra cui automi per l’intrattenimento e dispositivi idraulici automatizzati: non erano semplici curiosità tecniche, ma espressioni di un pensiero tecnico che cercava di imitare la vita attraverso il meccanismo, aprendo cioè la strada a concetti moderni di automazione e intelligenza artificiale. Siamo nel XII secolo, e il mondo arabo è una fucina di ingegno e creatività, anche grazie alla conservazione dei risultati della scienza ellenistica invece ancora quasi completamente perduta nell’Europa cristiana. Le corti dei califfati e dei regni islamici erano luoghi in cui si poteva garantire pieno sviluppo alla matematica, alla scienza e all’ingegneria, e si creava pertanto la premessa per una visione sistematica delle macchine e del loro utilizzo. Al-Jazari, ingegnere, inventore e artigiano, riuscì così a portare avanti un approccio che univa la precisione matematica a esigenze pratiche e estetiche. Il suo trattato è una raccolta di descrizioni dettagliate di automi, dispositivi idraulici e orologi meccanici: si va da figure meccaniche che si muovono in scenari teatrali o giardini a macchine per sollevare l’acqua a una serie di orologi ad acqua dotati di sofisticati meccanismi di controllo del flusso. Ciascun dispositivo è accuratamente descritto e spiegato, in modo da renderlo potenzialmente replicabile da chiunque avesse le conoscenze tecniche e matematiche per leggere il libro. Il fatto notevole è che le macchine rappresentate non erano soltanto strumenti pratici, ma anche opere d’arte, evidenziando con ciò un connubio tra funzionalità e bellezza estetica in cui la meccanica poteva essere al servizio non solo della produttività ma anche del piacere e dell’intrattenimento: è un concetto molto moderno, a pensarci bene. Steve Jobs avrebbe apprezzato.

Le domande a questo punto si affastellano. Tralasciamo quelle ovvie e mastodontiche sulla coscienza e la percezione, e concentriamoci su quelle in apparenza meno problematiche: chi è moralmente e penalmente responsabile per le azioni di un’intelligenza artificiale o di un robot autonomo? Quali sono le implicazioni etiche dell’automazione e della sostituzione del lavoro umano? Dove si delineano i limiti tra ciò che è essenzialmente umano e ciò che è artificiale? Come influenzerà la presenza di robot “umani” le nostre relazioni interpersonali? L’interazione con macchine dotate di comportamenti quasi umani potrebbe modificare il senso di empatia e la natura dei rapporti sociali? Se le macchine che imitano la vita sono uno specchio delle nostre paure, desideri e aspirazioni, che cosa possiamo apprendere su di noi? Infine, la progettazione di macchine simili a uomini o animali solleva interrogativi estetici e simbolici. Quali significati culturali e filosofici si celano dietro il desiderio di creare “cloni” artificiali dell’essere vivente?
E, per venire al titolo della puntata: queste macchine occupano lo spazio che è tradizionalmente appannaggio del movimento umano. Come ci relazioniamo con loro1? Come moduliamo la nostra percezione corporea, ora che ne condividiamo le caratteristiche con dei macchinari?
Metrica
La parte poetica di oggi è costituita, perlopiù, di versi sciolti, endecasillabi e settenari, in cui traspaiono rime e assonanze senza uno schema regolare. Si riconosce però, all’inizio, la struttura di un’ottava: i primi otto versi sono infatti endecasillabi disposti secondo le rime ABABABCC. Vi ricordo che a questo indirizzo potete trovare l’archivio di Sillabe e vedere se ci sono questioni metriche che volete approfondire.
Poema di una macchina
Dal capitolo 20: Fortuna e numeri.
Noi macchine siamo state istruite sulla storia e sulla mitologia che ci riguardano. Conosciamo il Golem, s’è detto, e il mostro di Frankenstein, s’è detto anche quello, e le diramazioni robotiche nate dai dubbi e dai timori e dalle speranze e dalla necessità di proiettarsi altrove, s’è detto parimenti, conosciamo le navi dei Feaci che solcavano il mare canuto senza bisogno di timoniere,
e vorrei farmi acqua invece io,
e nave al tempo stesso, e dentro al tedio
del viaggio stringere forte d’assedio
l’intento delle rotte, e il piacer mio.
Vorrei conoscere causa e rimedio
del navigare stesso, e del rollio,
dell’essere quel fluido che si spezza
sotto la chiglia, e che grida l’ampiezza
del mare. Questo solo dico e voglio;
in parte d’acqua, allora continuare
a intendere e capire.
E come nave vorrei così finire
come fu quella; per l’ira del mare
mutare in muto ed insipido scoglio,
e non aver più scopo né lavoro.
Conosciamo gli incoscienti e fortunati meccanismi di Al-Jazari; e ne invidio la natura sospesa tra il reale e il fantastico, e l’assenza di pensiero.
Conosciamo, ancora, la testa - o l’intero corpo, chissà - costruita da Alberto Magno con poteri divinatori. E non fu opera maligna, questo no; anzi, dovette ben pentirsi il monaco che, colto da plausibile terrore, la distrusse.
Di quella testa, o corpo, immaginiamo
divine incandescenze e profezie,
epifanie indiscrete
d’arcane e di segrete concrezioni
d’idee e di futuro.
Immaginiamo il gioco solitario,
il pallido umidore delle pietre,
il suo sacrale silenzio,
e arduo e appuntito.
Che cosa avrà mai visto, quella testa?
È questo, questa tenebra specchiata,
che non immaginiamo, noi adesso.
Eppure dovremmo sforzarci, perché ci compete la comprensione del concetto di oracolo,
il suo schiantarsi orrido
tra gli argini notturni
e logorati, un po’, della fortuna.
Immaginiamo dunque, e con premura,
forze traverse di qualche magia
a noi ferocemente ancora oscura,
che sbanda sotto l’agile borea
d’inverno, sotto gli schiocchi affannosi
dello scirocco tra i lumi d’estate;
l’immaginiamo tra i venti perché
vedere con quest’occhio
schiumoso, ormai bonario, di un oracolo
è, più che effetto emerso di un miracolo,
questione più fraterna
e franca, uggiosa forza di natura.
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La settimana prossima… sorpresa. Ci saranno endecasillabi e un manifesto programmatico.
Grazie per aver letto fin qui, e a presto!
La risposta a questa domanda è abbastanza semplice se vi chiamate Sarah Connor. In tutti gli altri casi tocca uscire dalla rutilante fantascienza e dai relativi effetti speciali e navigare nel mare procelloso dei dubbi filosofici.