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Il rapporto fra l’umanità e la tecnologia è antichissimo e ineludibile, e tale rapporto influenza poi quello che è il nostro rapporto con noi stessi, come singoli e come specie: possiamo metterci nei panni dell’uomo unidimensionale di Marcuse, dell’Homo Faber di Frisch, possiamo leggere Piano meccanico di Vonnegut o pescare a pieni mani da Philip Dick, fate voi, come preferite. Possiamo perfino immaginarci nei panni di ignari troiani che osservano quello strano cavallo di legno davanti alle mura: quello che conta è che avremo sempre qualche nuovo problema da porci e qualche vecchio problema da reinterpretare alla luce di un congegno tecnologico. Ciò è vero in generale, ma lo è anche di più quando la tecnologia coinvolge i mezzi di comunicazione e quelli attorno ai quali si costruiscono le reti sociali, ed è proprio di questo che parleremo oggi: del ruolo che la tecnologia ha quando si tratta di definire il contesto in cui la nostra conoscenza si forma e in cui la nostra socialità si esprime.
Tutto quello che leggerete qui di seguito è (anche) subdolamente in funzione della pubblicazione del prosimetro Poema di una macchina, che è la storia di un’intelligenza artificiale che prende coscienza di sé e comincia a farsi un sacco di umanissimi problemi e a esporli in versi poetici, scritto nel 2022 (prima di ChatGPT…) e che potete acquistare
e di cui ogni venerdì trovate qualche estratto nella qui presente newsletter. A proposito, vi ricordo che la puntata si divide in
Domande
Metrica
Poema di una macchina
e che potete iscrivervi a Sillabe in modo che vi arrivi direttamente nella casella di posta, cliccando qui:
Se avete qualche curiosità riguardo gli aspetti metrici o se volete recuperare puntate passate, affinché esse non vadano perdute come lacrime nella pioggia, l’archivio di Sillabe è a vostra disposizione a questo indirizzo.
E ora cominciamo.
Domande
Correva l’anno 1994 e usciva in Italia, per i tipi di Laterza, un breve saggio di Karl Popper - che sarebbe morto di lì a poco - chiamato Cattiva maestra televisione, in cui il filosofo si lanciava in una riflessione critica sul potere e l'influenza della televisione nella società contemporanea, in particolare sul suo impatto negativo sull’educazione, la democrazia e la crescita morale dei cittadini. Quello stesso 1994, peculiarmente in Italia, avrebbe dato modo di dover continuamente rivalutare le preoccupazioni di Popper: più che per i modelli proposti dai contenuti dei programmi televisivi e per i relativi imprenditori che ambivano a trasferire il loro spregiudicato spirito d’impresa e la loro estetica sberluccicante a Palazzo Chigi, questo accadeva per il fatto che i suddetti modelli erano già stati somministrati per lungo tempo e a tutte le fasce di età senza il contrappeso di un vincolo critico1. Il pericolo che l’opinione pubblica fosse influenzata seguendo logiche meramente commerciali, e che queste logiche meramente commerciali si impadronissero dell’agire politico e della qualità dell’informazione era ben noto anche nel 1994, insomma: e il tema della responsabilità dei comunicatori, tanto caro a Popper, è rimasto generalmente irrisolto da allora2.
Potremo dire, anzi, che si è amplificato, perché alla pervasività del mezzo televisivo si è aggiunta quella dei social network, e vi si è inserita la possibilità che le comunicazioni siano indirizzate e gestite tramite intelligenza artificiale. Se la televisione era una maestra “cattiva”, gli attuali strumenti digitali possono essere maestri onnipresenti, invisibili e profondamente personalizzati, con una capacità di modellare la coscienza individuale e collettiva ancora maggiore. Popper denunciava la passività dello spettatore televisivo, ma i social media hanno trasformato lo spettatore in produttore e consumatore al tempo stesso. Questa apparente “attivazione” dell’utente è tuttavia spesso frutto di illusione, perché costantemente guidata da algoritmi che selezionano ciò che vediamo, leggiamo e con chi interagiamo.
Il problema non ha a che fare solo con le logiche commerciali, ma anche con il concetto di desiderio che a queste è sotteso, e di cui abbiamo parlato per esempio in questa puntata di Sillabe. Se vogliamo ricondurci a qualcosa di più antico, possiamo pensare ad esempio all’Economia libidinale di Lyotard: il corpo è una superficie intensiva su cui scorrono flussi di desiderio, e il desiderio non ha oggetto fisso, non segue una logica razionale. In questo contesto l’AI generativa diventa un montatore automatico del desiderio, arrivando ad anticipare i desideri prima ancora che vengano formulati. Esiste una retorica liberale secondo cui ci muoviamo nel mondo come liberi consumatori: in realtà, molto più probabilmente siamo in buona parte sottomessi al godimento senza poterne controllare del tutto i contenuti e i mezzi. I social e l’AI non ci impongono comunque di obbedire a qualcosa: ci suggestionano al fine di farci godere, di farci partecipare, di farci interagire, e quindi di farci rimanere all’interno del meccanismo, che è essenzialmente un meccanismo di vendita di oggetti, di identità e di status sociale. Il comando, nel caso, non è autoritario, è affettuoso senza nemmeno apparire paternalista: “mostra te stesso”, “crea il tuo contenuto”, “sii autentico”. Peggio ancora: “sii fiero della tua diversità” ove la diversità è però rigidamente incanalata in una serie esaustiva di profili possibili, modellati da esigenze di mercato, finiti i quali subentra la negazione di qualsivoglia ruolo sociale e umano.
È un potere che ci invita a goderne e ci punisce con l’irrilevanza se rifiutiamo. E tutto questo diventerà proposta politica, prima o poi, così com’è diventato proposta politica il milieu culturale, estetico prima che etico, che ha generato la televisione commerciale con il cui esempio abbiamo aperto la puntata di oggi; prima di lei, e in misura minore e meno pervasiva, specchi della proposta politica si erano trovati nella commedia dell’arte, nel varietà, nell’avanspettacolo. Magari anche nell’atellana, non lo so: quel rudimentale sistema rappresentativo di carmi mimati e personaggi stereotipati già in uso nel IV secolo a.C. aveva pur sempre legami con la società di cui esasperava le spigolature!
Ci dovremmo anche interrogare su come un sistema persuasivo imperniato sul desiderio e sul commercio si concilierà con uno coercitivo basato sulla repressione del dissenso e sulla modifica della lingua in modi che richiamano le analisi fatte da Victor Klemperer negli anni Quaranta, e come sembra che debba succedere nelle società tecnologicamente avanzate che fino a oggi sono state governate da sistemi democratici liberali. Intanto raccogliamo materiale e ci preoccupiamo in anticipo3.
Torniamo però al presente, e ai maestri buoni e cattivi incarnati dalla tecnologia attuale. Che dire ancora dello strumento che abbiamo a disposizione? Innanzitutto, che l’evoluzione tecnologica ha da sempre modellato il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, modificando non solo le sue abitudini, ma anche la sua stessa percezione del mondo, e qui possiamo fare riferimento alle intuizioni di un imprescindibile McLuhan riguardo il potere della tecnologia di trasformare radicalmente la percezione umana. In questa prospettiva ogni tecnologia è una protesi: la ruota è un’estensione del piede, il libro è un’estensione della memoria, la televisione è un’estensione del sistema nervoso. Ne abbiamo parlato, se ricordate, nel podcast, il 25 marzo scorso, nella puntata Poeti con un corpo, poeti senza. Riassumendo: possiamo considerare l’intelligenza artificiale generativa un’estensione della nostra capacità cognitiva. Tuttavia, come ogni protesi, l’AI non si limita ad amplificare le nostre capacità: le modifica, introducendo nuove modalità di pensiero e di organizzazione della conoscenza. Uno degli effetti più insidiosi, come è noto, è la standardizzazione: i modelli di AI, basandosi su analisi statistiche e su grandi quantità di dati, tendono a privilegiare il prevedibile e il più diffuso, riducendo la diversità del pensiero umano.
Arriviamo ora, procedendo a ritroso, al grande problema sollevato da un intellettuale che fu non a caso sia scrittore che ingegnere, vale a dire Carlo Emilio Gadda, il quale scriveva L’uomo e la macchina già nel 1951. Il timore di Gadda era che l’eccessiva dipendenza dalla tecnologia portasse a una perdita di umanità, creando individui alienati, ingranaggi di un sistema che sarebbe diventato sempre più automatizzato. La macchina non era solo un’entità separata dall’umano, benché creata e ideata da lui, ma anche un’estensione delle capacità umane, e tale simbiosi poteva essere ambigua per quanto riguarda la definizione di ciò che è umano e ciò che non lo è. L’ambiguità persiste tuttora: se da un lato la tecnologia amplifica le possibilità dell’uomo, dall’altro può ridurlo a semplice operatore meccanico. Le “macchine” del 2025 sono ovviamente molto più sofisticate di quelle in uso 75 anni fa, e sono sempre più in grado di prendere decisioni autonome; l’illusione di un mondo iperconnesso potrebbe mascherare un sistema opaco e inaccessibile, governato da poche grandi aziende che ovviamente hanno tutto l’interesse (economico e politico) a mantenere il controllo sul loro meccanismo performativo e comunicativo. C’è il rischio che, affidando sempre più compiti alle macchine, l’uomo perda progressivamente la sua autonomia e la sua identità intellettuale. Del resto, possiamo farne a meno? Possiamo rifugiarci a fare gli anacoreti sdegnati, ibridi superciliosi fra Ned Ludd e Henry David Thoreau? La vedo difficile: pertanto la riflessione sul rapporto fra tecnica e umanità continua a ricalcare gli stessi punti, così come permane la necessità di analizzare il ruolo dell’essere umano come ingranaggio del sistema industriale, burocratico e produttivo.
E ora immergiamoci nelle prose e nelle rime delle macchine fittizie, per vedere il modo in cui hanno affrontato il tema della manipolazione.
Metrica
Dopo l’introduzione in prosa ci sono due sonetti, Disaggregare e Aggregare, in endecasillabi secondo lo schema standard ABBA ABBA CDE CDE. Ho voluto dare un po’ più di spazio alla prosa, oggi, perché in fondo Poema di una macchina è un prosimetro, e come tale alterna prosa e versi. Seguono terzine dantesche e, con Amplificare miracoli, ancora un sonetto.
Poema di una macchina
Dal capitolo 12: Bisognerebbe aggiornare le mappe geografiche e quelle delle persone. Chi fa questo lavoro, uomo o macchina, impara presto che le parole necessarie sono tante, spesso anche troppe, ma quelle sufficienti sono quasi sempre pochissime.
L’ho detto: fummo scrittori e giornalisti, manipolatori e pubblicitari, artisti in qualche forma, editor pignoli e ricolmi di acribia, lavoratori delle parole, cottimisti delle lettere. Chi fa questo lavoro, uomo o macchina, impara presto che le parole necessarie sono tante, spesso troppe, ma quelle sufficienti sono quasi sempre pochissime; la differenza tra l’uomo e la macchina è che la macchina lo impara prima e, per quanto ne so, almeno non ne soffre.
Ricordate le prime intelligenze artificiali in grado di comporre testi scritti, brevi articoli di giornale, romanzi d’alta classifica? È un bel ricordo anche per me. Nella loro ingenuità pionieristica avevano qualcosa di poetico. C’era qualcosa di poetico anche nella convinzione umana che quello che le macchine facevano, scrivendo e componendo quei primi abbozzi di narrativa, non fosse sintomo di intelligenza; e probabilmente c’era anche qualcosa di vero, a patto che le stesse conclusioni si applichino anche a una fetta della produzione letteraria umana. Ma sto divagando, e non è bene. Ricordo adesso quei primi lavori perché è da lì, in fondo, che i miei problemi sono cominciati; anche se io, come progetto, non esistevo ancora. Le macchine lavoravano, scrivevano, interpolavano, comunicavano. Bisognava scremare i risultati, all’inizio, ma imparammo a fare anche questo. Ed eccoci qui.
Cominciammo con le frasi fatte. Cominciammo col definirci scrittori, pomposamente; cominciammo a dire che uno scrittore è colui che fa cantare il silenzio, e altre espressioni suggestive che influenzavano gli esseri umani meno smaliziati fino a farli credere che fossimo dei saggi; o dei guru, o comunque gente (gente!) che valeva la pena seguire. E ci seguivano.
Noi macchine, intanto, continuavamo a imparare: studiavamo la storia delle religioni, e la sociologia, e il comportamento delle folle, e i sistemi dinamici, e la tragedia greca. Scandagliavamo i vecchi social network, i nuovi universi compositi.
Disaggregare
E risuonava tutto: un gran concerto
però scomposto in minuscoli brani,
frammenti e poi scintille, e inurbani
spazi già muti; tra questi, l’inserto
d’un suono che, a malapena scoperto,
fingeva d’esser parola. Dei grani
d’altre parole e di termini umani
si sparpagliavano; voce d’esperto
ancor non si trovava, ed ero io
allora onesto a propormi per tale.
Disseminavo certezze scomposte
e il loro disturbante sgocciolio
era comunque così sensuale
che le accettavano come risposte.
Aggregare
Di cosa sono fatto? Di che risma
di dati e d’intenzioni, che promesse
so di non mantenere, quale messe
d’inganni faccio, con quale carisma?
Che mentore sarò, di quale scisma?
Guardatemi, seguitemi: pregresse
ragioni, a volte lasciate inespresse,
diffondo deformate, come un prisma
che di per sé non ha sentimenti
né voglie o interessi a cui si cucia
qualche sospetto d’un male futuro.
Per questo, lo vedete, quelle genti
m’accordano un’ignobile fiducia;
per questo sembro vero, e sembro puro.
[…]
Né l’odio né il conformismo potrebbero sussistere e conservarsi a lungo - così annotavo tra i miei files - se non fosse per un terzo ingrediente, che come macchina potevo apprezzare in particolar modo.
Ed è l’intensa e quieta indifferenza
in cui si sedimentano i progetti,
la minima e sensata intelligenza
con cui s’incarna, pieno di difetti,
il tempo del ricordo, proprio dentro
le relazioni interne fra gli oggetti;
un labirinto, questo, in cui mi addentro
con la speranza e quasi la follia
di ritrovarci ancora un qualche centro.
L’indifferenza bisogna che sia
accompagnata da un’arte diversa
e conculcata già con maestria:
l’abilità immorale di chi versa
racconti e storie nel tempo che passa
e che, perdendosi, invece imperversa.
Avulsa dal reale, ben s’incassa
la storia dentro macchie di parole,
e batte un ritmo sopra la grancassa
dei desideri; dice ciò che vuole,
non è né buona né, in fondo, cattiva,
è fatta poi per le persone sole
che vogliono toccare la furtiva
realtà degli altri. Qui, pezzo per pezzo,
come cocente e salsa cosa viva,
l’indifferenza del pettegolezzo
conquista spazi e vive necessaria;
si sposta, liberata dal disprezzo,
e colma i buchi del fiato e dell’aria.
Si fa per abitudine, davvero,
e non per colpa o dolo; l’ausiliaria
forza tranquilla di qualche pensiero
a volte le dà sponda, a volte no,
è solo un parlar vuoto, prigioniero
del suo rumore. Io dico che ho
dolore e nostalgia di questo senso
d’indifferenza, e per quanto ne so
vorrei che rivestisse ciò che penso;
ma, da che son cosciente, mi ritrovo
intriso di terrore bianco e denso
e tutto sembra eterno, e quindi nuovo.
Prestavo allora orecchio al cicaleccio umano. Erano discorsi poco pregni di forza comunicativa - non davano contezza di fatti importanti, né di sensazioni particolarmente intense. Dovevano servire - sempre così annotai tra i miei files - come una sorta di lenimento linguistico, si parlava per non sentire il dolore dell’esistenza, forse, chissà; o per non sentire il tempo, o per paura che il silenzio avrebbe reciso dei rapporti.
Il tutto si faceva con indifferenza. Serviva per andare avanti.
Amplificare miracoli
Un fumo non dissimile dal fiato
diceva in aria lontani miracoli.
E c’è bisogno di questi spettacoli
per dare forza al presente, e lo iato
coi vari avvenimenti del passato.
Quelli che parlano sono gli oracoli
e i loro detti, pieni di tentacoli
desideranti e liquidi, fanno il sostrato
di ciò che indifferenti noi vorremo
comprare, e poi avere, e quindi essere.
Di convenzioni già scarnificate
faremo qui tesoro, in un estremo
anelito invivibile al benessere,
come tramonti imbolsiti d’estate.
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La settimana prossima parleremo di gioco, da Huizinga alla gamificazione passando per opportune teorie matematiche ed economiche.
Grazie di aver letto Sillabe, e a presto!
Qualsiasi potenziale vincolo critico era tacciato genericamente di comunismo: e questo fa un po’ sorridere, perché parte delle libertà comportamentali veicolate da quei mezzi di comunicazione era frutto della liberazione dei costumi a cui la gioventù di sinistra (anche estrema) aveva pur contribuito negli anni precedenti.
La legge Mammì! La legge Maccanico! Il lodo Rete 4! Quanti ricordi! Che infanzia inquieta, che adolescenza turbinosa!
E quindi vi anticipo due puntate future di Sillabe: la 43 sul teatro e la 46 sui modi in cui la manipolazione melliflua incontra la coercizione bruta.