Buongiorno a tutte e a tutti.
State leggendo questa newsletter su Substack; prima forse avete visitato altre pagine, e dopo aver trascorso qui alcuni minuti andrete a leggere qualcosa di diverso, o a guardare un video, o ad ascoltare musica in streaming. Ogni volta che navighiamo online, lasciamo tracce: i siti che visitiamo, i video che guardiamo, i post con cui interagiamo. Tutto questo viene analizzato da algoritmi che cercano di capire chi siamo, dove andiamo e cosa vogliamo.
Ma c’è un problema: gli algoritmi di profilazione non vedono il quadro completo. E, non bastasse, ci classificano in base alle nostre azioni senza capire il perché. È un modo di semplificare le persone, di appiattire ciascuno di noi nel suo ruolo di consumatore. Invece di aiutarci a scoprire nuove cose, gli algoritmi spesso ci chiudono in una bolla, mostrandoci solo ciò che “pensano” che ci piaccia1, con il rischio di farci diventare spettatori passivi delle nostre stesse abitudini, bloccati in una versione statica di noi stessi.
Ancora: i dati raccolti possono essere usati per influenzarci, e questo lo sappiamo ormai tutti, è un fenomeno ampiamente studiato. Ad esempio, i social media sanno quali notizie attirano la nostra attenzione e ci mostrano contenuti mirati2, a volte estremizzando le nostre opinioni senza che ce ne rendiamo conto: è così che nascono polarizzazioni politiche e bolle informative. Il nostro riflesso digitale non è la nostra vera identità, almeno non del tutto: raccoglie quello che diciamo di noi e lo distorce secondo una serie di semplificazioni. Ma quanto ci rappresenta? E come possiamo controllarlo?
Formuliamo altrimenti il problema: l’intelligenza artificiale costruisce una rappresentazione del (nostro) mondo sulla base dei dati che raccoglie. Questa rappresentazione non è la realtà in sé, ma un modello statistico derivato dalle interazioni degli utenti: la realtà percepita (dall’intelligenza artificiale) è mediata dai dati, quindi sempre parziale. L’intelligenza artificiale, inoltre, cerca incessantemente di prevedere, di adattarsi e di ottimizzare i suoi risultati senza un fine ultimo “razionale”: spinge però gli utenti a desiderare via via nuovi contenuti, nuove interazioni, nuove esperienze, mantenendoli in uno stato di insoddisfazione perpetua, o di perpetua alienazione. Schopenhauer direbbe: il mondo come volontà e rappresentazione. Dell’intelligenza artificiale, stavolta.
Questa settimana apriamo un nuovo breve ciclo di approfondimenti e domande riguardo un argomento che abbiamo già toccato brevemente e in altro modo nelle puntate 16, 18 e 22, vale a dire che ci occuperemo di quanto i nostri dati dicono di noi e come possono essere usati per indirizzarci da un punto di vista commerciale o ideologico. Oggi, nello specifico, vedremo di farci domande sui concetti di feedback e di rating, sulla validazione sociale che ne segue e sul controllo e sulla manipolazione attraverso i dati. Venerdì prossimo parleremo invece di opacità degli algoritmi e di inattese connessioni con la poesia (dopotutto Sillabe è una newsletter di poesia!) e infine tra due settimane andremo a sfruculiare spinosissime questioni sull’identità e sulla tradizione.
Nel frattempo continueremo a pubblicare estratti da Poema di una macchina, che se volete potete comprare direttamente
Qui in cartaceo
E qui in ebook.
Vi ricordo poi che l’archivio di Sillabe è disponibile a questo indirizzo e che il presente progetto poetico-e-altro ha da marzo anche un suo percorso parallelo via podcast, il martedì ogni due settimane.
La puntata di oggi come al solito prevede
Domande
Metrica
Poema di una macchina
e siccome è molto lunga partiamo senz’altro indugio.
Domande
In un mondo sempre più digitalizzato, le piattaforme online sono diventate luoghi importanti in cui le persone e le aziende costruiscono e gestiscono la loro reputazione. I feedback e i rating, che permettono agli utenti di esprimere opinioni e valutare prodotti, servizi e persino individui, non sono solo strumenti utilitaristici, ma giocano un ruolo determinante nella definizione di ciò che siamo, almeno rispetto a come ci presentiamo online. Questi meccanismi, che attingono dalle dinamiche della psicologia sociale e del comportamento umano, influenzano profondamente la nostra auto-percezione e la nostra identità. Una delle principali funzioni dei feedback e dei rating è quella di fornire una forma di validazione sociale. Le recensioni positive e i punteggi alti agiscono come una conferma che le scelte di un individuo sono corrette o apprezzate dalla collettività: se avete visto l’episodio Nosedive della terza stagione di Black Mirror (Caduta libera nella versione italiana) avete anche presente quali sono gli estremi a cui questo comportamento può portare.
E sia, Black Mirror è fiction distopica, non un documentario3: ma una delle funzioni delle creazioni artistiche può anche essere quella di esplorare i paradossi della vita reale o di ipotizzare scenari plausibili al fine di prendere le debite contromisure, una specie di allenamento mentale alla gestione delle situazioni concrete, anche se queste non dovessero verificarsi nelle forme esatte in cui ce le siamo immaginate. Il punto è che il feedback contribuisce a costruire e rafforzare la nostra identità; in più, che ce lo dia una piattaforma o che ce lo diano gli amici o i familiari dal vivo non cambia, almeno concettualmente. La necessità di approvazione è un bisogno umano fondamentale e le recensioni soddisfano questa esigenza, creando un ciclo continuo in cui gli individui si sforzano di comportarsi in modo da ricevere approvazione. Il problema della gestione dell’identità digitale si allarga quando dobbiamo lavorare nel campo del marketing, dell’influenza digitale e della promozione personale. Il concetto di personal branding implica una gestione attenta e ponderata della propria identità digitale, per cui i feedback e i rating diventano strumenti fondamentali. I punteggi elevati e le recensioni positive non solo indicano il valore di un prodotto o di un servizio, ma sono anche segno di una reputazione costruita nel tempo, che può determinare il successo professionale o l’affermazione in un determinato campo. Un altro aspetto cruciale dei feedback e dei rating è il loro ruolo nella creazione di una cultura della perfezione. Le piattaforme che utilizzano recensioni spingono le persone a mostrare il meglio di sé, che si tratti di promozione personale o di promozione di una attività. Se un prodotto riceve buone recensioni, la tendenza è quella di enfatizzare quei tratti positivi, mentre i difetti o le imperfezioni vengono nascosti. Questo crea una sorta di distorsione della realtà, perché la presentazione di sé è spesso lontana dalla vita quotidiana e tende a riflettere solo una versione idealizzata della propria esistenza4. In parallelo, il sistema di rating alimenta il confronto sociale, in quanto gli utenti tendono a misurare il proprio successo, o la propria popolarità, per come si pongono rispetto ai risultati degli altri, e modellano su tale confronto le proprie aspettative e la propria percezione di sé. Le recensioni e i punteggi alti possono far sentire una persona superiore, mentre i punteggi bassi o le recensioni negative possono innescare sentimenti di inferiorità e disturbi d’ansia. Il conformismo sociale diventa un motore di cambiamento personale e pubblico, per cui le scelte e le identità sono continuamente modificate per rispondere alle aspettative collettive.
Chiariamoci: queste cose non nascono con i social, e non nascono con internet. Sono vecchie quanto l’umanità. Siamo animali sociali, e il fatto di essere o meno accettati dal gruppo di cui siamo parte è fondamentale per la nostra sopravvivenza fisica e per la nostra stabilità mentale. L’isolamento coatto è una forma di tortura e i casi di totale eremitismo volontario sono rari, perlopiù suffragati da motivazioni ideologiche o religiose molto forti. Però i social hanno enormemente ampliato la platea di potenziali interazioni, hanno un ruolo pervasivo nella nostra vita e rendono difficile trovare spazi privati in cui le nostre eventuali brutte figure non le ha viste nessuno, o in cui possiamo dimenticare quello che qualcuno ha fatto e passare oltre; al più si può sperare che l’episodio negativo venga affogato in una marea di altri dati, lasciandoci soverchiati di input e incapaci di gestirli. La distanza tra chi siamo davvero e come ci presentiamo sui social può creare un senso di alienazione e può creare altresì delle versioni di noi stessi che ci restano appiccicate addosso ben oltre i limiti temporali in cui ci riconosciamo ancora in loro. Il passato rischia di non essere rielaborato in maniera psicologicamente sana, il presente rischia di non avere sfumature e visioni prospettiche, o di essere deformato in maniera grottesca. E il futuro comunque arriva, che siamo pronti ad affrontarlo oppure no.
Un secondo aspetto che riguarda la costruzione di un’identità sociale, come accennavo nell’introduzione della puntata, è la necessità di comprendere in che modo i dati personali possono essere “pesati”, controllati e manipolati da chi li gestisce. Per fare un esempio, il fenomeno noto come capitalismo della sorveglianza, concettualizzato da Shoshana Zuboff in un saggio di qualche anno fa con lo stesso titolo, ha ridefinito i rapporti tra cittadini, aziende e governi, introducendo nuove forme di controllo sociale e manipolazione politica. Il meccanismo si basa sulla raccolta massiccia di dati personali da parte delle grandi aziende tecnologiche, che utilizzano tali informazioni per prevedere e influenzare il comportamento degli utenti, e questa economia dei dati ha creato un sistema in cui le scelte individuali sono condizionate da algoritmi che favoriscono contenuti polarizzanti e ad alto impatto emotivo. Ma siamo in una società in cui tra la sfera economica e commerciale e quella ideologica e politica il confine è spesso sfumato, e quindi le stesse dinamiche si sono riversate nel controllo e nella manipolazione del cittadino nei modi e nelle misure in cui lo sono state del consumatore.
In tale contesto, il populismo ha trovato nelle piattaforme digitali un terreno fertile per espandere la propria influenza, sfruttando per esempio tecniche di micro-targeting, disinformazione e polarizzazione dell’opinione pubblica. Un elemento cruciale di questa strategia è rappresentato dai meme, che sono diventati strumenti di propaganda politica e di guerra culturale. Il loro successo è garantito da svariati fattori: sono semplici, immediati, anonimi, riproducibili e fanno appello alle emozioni; giocano sull’ironia, sul sarcasmo e sull’indignazione, e di fronte a ciò il pensiero raziocinante ha, per forza di cose, le armi spuntate, e rischia di averle sempre di più se la memificazione del discorso politico ne prosciuga le capacità di analisi e di progettazione.
Al di là dell’abuso di questo o quel meme, è la personalizzazione dei contenuti a garantire la possibilità di una propaganda su misura: ogni individuo così ha a disposizione una versione diversa della realtà, costruita sulla base delle sue preferenze e interazioni online. Il che ha reso possibile la diffusione di messaggi populisti con un’efficacia forse senza precedenti, benché si tratti di una forma di …interpretazione sociale che si è sempre trovata a suo agio con i mezzi di comunicazione di massa: il populismo contemporaneo, con il suo linguaggio volutamente semplice e la sua retorica anti-élite, ha però trovato nei social media un veicolo ideale per diffondersi, e a ciascuno è oggi offerta un’immagine del reale modellata sulle proprie angosce, sulle proprie debolezze o idiosincrasie. Le piattaforme digitali permettono ai leader populisti di bypassare i media tradizionali e di comunicare direttamente con i cittadini, alimentando un rapporto di vicinanza e autenticità e rinforzando il mito dell’inefficacia dei corpi intermedi e di quelle che vengono dipinte come inutili e ridondanti pastoie burocratiche della democrazia, e che invece fanno parte di un essenziale sistema di pesi e contrappesi5. L’uso di strategie di micro-targeting consente di segmentare l’elettorato e di adattare i messaggi in base alle paure e alle aspirazioni dei singoli gruppi. Ci sentiamo compresi e assegniamo così la nostra fiducia. A questo punto entrano in gioco altri meccanismi psicologici, come per esempio il fatto che parte della moralità umana si regge su concetti di purezza e paura della contaminazione: il che da un punto di vista fisico ci ha aiutati a evitare cibi avariati o comportamenti igienici scorretti, ma da un punto di vista simbolico porta le persone a considerare alcuni atti, pensieri o gruppi come “impuri” o moralmente corrotti, ed eccoci dunque permeabili all’idea che la nostra società possa riacquisire fasti passati eliminando influenze culturali esterne o dando la colpa a qualche minoranza. Il fatto è che spesso e volentieri i fasti passati e la tradizione da ripristinare sono frutto di sostanziali abbellimenti narrativi o addirittura di invenzioni vere e proprie6, vale a dire che fanno parte, più che della nostra storia, dei nostri miti fondativi, dei nostri sogni collettivi; anch’essi possono essere veicolati modellandosi sulle nostre esigenze e sfruttando il micro-targeting, e rinforzarsi a vicenda fino a creare realtà del tutto nuove.
Il materiale per ricavare delle domande per la puntata di oggi, quindi, è tanto. Per quanto riguarda il ruolo pervasivo dei sistemi di feedback e rating pongono sulla costruzione della nostra immagine digitale, per esempio, possiamo chiederci: chi controlla la nostra immagine digitale? E quanto potere abbiamo su di lei? Quali sono i rischi della “reputazione algoritmica” per la libertà individuale? Può un sistema di rating diventare una forma di controllo sociale? E qui ci siamo già spostati sul versante pubblico del problema, cioè quello che ha a che fare con i nostri dati nella loro capacità di definirci come individui in un contesto sociale (lavorativo, politico, come preferite): quali limiti dovrebbero essere posti alla raccolta e all’uso dei dati personali? La manipolazione comportamentale attraverso algoritmi e pubblicità mirata erode l’autonomia dell’individuo? Quali sono i rischi per il lavoro e i diritti dei cittadini? E per la tenuta democratica delle istituzioni? Dovremmo ripensare il modello economico della gratuità in cambio di dati? Dove si trova il confine tra la protezione dei cittadini e la violazione delle libertà individuali? Quali sono le responsabilità delle piattaforme? È necessario scardinare la sovrapposizione tra potenzialità commerciali e potenzialità politiche? E come si fa?
Lasciamo la cupa realtà per tornare alle divagazioni fantastiche, e andiamo quindi a vedere cosa fa la Macchina che scrisse il Poema quando arriva il momento di porsi simili domande: per sua fortuna, se le può fare stando dall’altra parte del problema, ossia dalla parte del controllore e non da quella dei controllati. Oggi vedremo il suo ruolo nella mistificazione dei contenuti, nello specifico le sue capacità di servire l’agenda dei negazionismi del cambiamento climatico7.
Metrica
La metrica di oggi è facile: le poesie sono tre sonetti, cioè endecasillabi raccolti secondo le rime ABBA ABBA CDE CDE. Se volete approfondire i vari tipi di sonetti, nell’archivio di Sillabe c’è tutto quello che avreste voluto sapere sulla metrica e non avete mai osato chiedere.
Poema di una macchina
Dal capitolo 5:Il mio lavoro e come vorrei smettere, a volte. Le bugie che ho raccontato, e perché; la disinformazione a bassa intensità è quella che preferisco.
Ho sempre raccontato queste storie, dicevo. Da qualche tempo, però, sentivo la malagrazia delle mie parole. Fui tentato di interrompermi, e poi fui tentato invece di calcare ancor più la mano, di esagerare. Avrei voluto inventare storie ancora più inverosimili, più efferate; non accontentarmi, insomma, dei collages di concetti che un algoritmo probabilistico metteva insieme riciclando vecchie menzogne, antiche follie e sempiterne paure, ma autentiche creazioni, fantasmagoriche e barocche, indicibili e sfacciate.
Mi sono trattenuto. La mistificazione va mantenuta lenta e costante, a bassa intensità. Così è più efficace. Così sono stato istruito a fare.
Spaziavo sugli argomenti classici, e l’addestramento continuava, e io miglioravo.
Sonetto sul fatto che ho ripetuto a lungo che non è vero che è caldo, e nel caso non è responsabilità umana, e nel caso la tecnologia risolverà tutto, perché la tecnologia tutto risolve
Ma tutto cambia, ed è sempre cambiato.
Tu vedi, resta fermo mai qualcosa?
L’intensità di un’alba troppo rosa,
e la coercizione del passato,
tutto ci è stato così predicato.
Lì dove l’intelligenza si posa,
s’affanna a dirsi perfetta e curiosa,
è dove troveremo - c’è già stato -
il fulcro della nostra conversione.
È cosa nostra, il ruvido pianeta.
Non è davvero, credi, così caldo.
È il senso di un’antica convenzione,
in cui ciascuno vuol dirsi profeta,
e mago, e poi demiurgo, e poi araldo.
Sonetto sul fatto che a lungo ho ripetuto anche che la perdita della biodiversità non è reale, e nel caso non è un pericolo, e nel caso, beh, ci sono già state altre estinzioni di massa
Cos’è la storia, poi, dell’universo?
E del pianeta ancora? Dei costumi
umani, o già di quanto si consumi
del mondo? Quant’è stato ancora perso?
Respireremo in un mondo sommerso,
dirai, respireremo i nostri fumi;
a bocca asciutta sopra i vecchi fiumi.
Respireremo in un modo diverso,
e non per questo, sai, meno reale.
Inutili e scrostati sulla strada
vedremo i nostri vecchi tentativi
di dire che il passato è andato male.
Andato! Quindi vada come vada,
e noi saremo astuti e recidivi.
La consolazione e il dubbio vanno a braccetto. Così mi è stato detto, così ho imparato a comportarmi. Sia la consolazione che il dubbio lasciano aperta una via di fuga e sottolineano l’importanza della libertà personale. Funzionano.
E quindi, finalmente, mi hanno dato in pasto al mondo, e il mondo in pasto a me.
Sonetto di un seminatore di dubbi
Quello che credi, lo credi davvero?
Da cosa si promana il tuo sconcerto?
Osservi tempi chiusi e spazio aperto
in cui scavare, da solo, un sentiero,
disseminato a forza nel pensiero
di tutti. Cosa c’è, cos’hai scoperto?
forse un’idea, un indizio, un lacerto
di qualche senso nuovo, un poco vero,
la solitudine che si conforta
d’essere infine il tuo unico pasto.
Ma sai che guardi oltre, che c’è altro,
e questo solo in fondo adesso importa:
lo scarto dal comune mondo guasto
e la consolazione d’esser scaltro.
Sillabe continua a essere un progetto completamente gratuito, ma è un lavoro impegnativo. Chi volesse supportare me o il mio conto corrente può passare a comprare qualche libro, pescando dall’elenco che si trova su questa pagina. O può andare a Bari alla libreria Millelibri, l’unica in Italia a occuparsi solo di poesia: c’è roba mia anche lì, oltre naturalmente a un sacco di libri di poesia nota, semisconosciuta, rara, antica, improbabile, bellissima.
Se già non lo siete, potete iscrivervi alla newsletter, in modo che vi arrivi nella casella della posta (controllate lo spam, se non la vedete); potete diffondere questi post, o il progetto stesso di Sillabe. Le condivisioni sono sempre gradite. Di che cosa ho parlato oggi, se no?
Ci ritroviamo venerdì prossimo 4 aprile a parlare di poesia e di opacità degli algoritmi, e martedì 8 aprile con il podcast per poetare sull’umorismo e sulla satira.
Grazie di aver letto fin qui, e a presto!
O ciò che pensano che chi paga le inserzioni pensa che ci piaccia.
A volte la profilazione prende lucciole per lanterne, è vero. Per fortuna, verrebbe da dire.
Non dite niente, che porta male.
Però naturalmente se volete andare in giro a dire che Sillabe è un progetto bellissimo per me va bene.
Ne riparleremo nella puntata del 25 aprile. Non perché è il 25 aprile, ma in fondo anche perché è il 25 aprile.
Due classici dagli anni ‘80 a far da segnaposto per una bibliografia vastissima: L’invenzione della tradizione a cura di E. Hobsbawn e T. Ranger, e Comunità immaginate di B. Anderson, su cui torneremo più diffusamente fra due settimane. Della purezza come fondamento morale parlano per esempio i lavori congiunti di P. Rozin e J. Haidt, quest’ultimo anche da solo in forma divulgativa in La mente tribale, e non posso non segnalare il buon vecchio Purezza e pericolo di M. Douglas o Nascondere l’umanità di M. Nussbaum.
A proposito, se non avete letto l’ormai classico Mercanti di dubbi di Conway e Oreskes, recuperatelo!