Mia nonna era, fin da bambina, molto miope. Dovettero metterle gli occhiali appena cominciata la scuola elementare e, siccome negli anni Trenta la scienza dei materiali era quel che era, gli occhiali altro non erano che due lenti spesse come fondi di bottiglia, pesantissime, tenute insieme da una montatura di metallo sgraziata e altrettanto pesante, che almeno nei primi tempi le provocò una serie di piaghe dietro le orecchie. Andava perciò in giro con i padiglioni incerottati e la cosa faceva talmente impressione ai suoi compagni di classe che svariati anni dopo, quando mia nonna ormai più che adolescente si fidanzò con mio nonno e mio nonno raccontò il lieto evento a uno di quegli antichi compagni di classe, questi proruppe con (traduco dal veneto) “Ah! La Sandra! Quella con le orecchie in cartoccio!”
La storia prese piede e si tramandò immutata fra le leggende familiari per tutto il corso della vita di mia nonna, che è morta l’anno scorso a novant’anni con occhiali infine e già da tempo leggeri e comodi, ma per sempre marchiata dall’essere stata Quella con le orecchie in cartoccio.
Tutto questo per dire che quando vedo i partecipanti alla convention dei Repubblicani incerottarsi l’orecchio destro per solidarietà a Trump mi viene in mente mia nonna e, credetemi, la cosa è molto inquietante.
Ma bando alle ciance e torniamo all’argomento della newsletter, che è il racconto Uno, e che è una storia ambientata in un paese che scivola verso l’autocrazia. Qui i fatti generali e tragici fanno da sfondo, perché ci si concentra sulle piccole e grandi domande di un uomo comune che ha la ventura, o la sventura, di assomigliare al presidente come una goccia d’acqua somiglia a un’altra goccia d’acqua.
Siamo alla terza parte, in cui il protagonista comincia il suo nuovo strano lavoro. Le prime due parti possono essere trovate qui:
prima parte
seconda parte
Uno. Terza parte
Arrivai nella capitale scortato dalla guardia presidenziale. Era successo tutto così in fretta che ero ancora stranito. Da quanto sapevano di me? Ci devono essere occhi che osservano e giudicano l’affidabilità non solo dei volti ma anche dei cuori, mi dicevo, la mia somiglianza con il presidente non poteva, da sola, spiegare ogni cosa. E come facevano, quelle persone, a conoscere la lealtà dei miei sentimenti, il mio attaccamento alla patria? La risposta arrivò da sola, di lì a qualche settimana: non v’era necessità di conoscere i miei sentimenti perché per i miei comportamenti non c’era, né ci sarebbe mai stata, alternativa. Non per uno come me, intendo dire: per un uomo diverso, che avesse la vocazione alla santità o al martirio, probabilmente si sarebbero aperte altre strade, ma sarebbero inevitabilmente finite in breve tempo, e in malo modo, e la mia famiglia ne avrebbe sofferto.
Piovigginava e l’aria era tiepida. Guardavo la città al di là del vetro dell’automobile, seduto dietro. I miei accompagnatori tacevano. Il traffico era lento, ma abbastanza regolare. Di tanto in tanto mi schiarivo la voce, non osando far partire una conversazione perché avevo paura che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata inopportuna. Mi sentivo però inquieto di fronte a tutto quel silenzio, e tossicchiavo. Un’occhiata severa arrivatami dal sedile del conducente attraverso lo specchietto retrovisore mi fece desistere anche da quelle minimali forme di rumore. Tornai allora a concentrarmi su ciò che potevo vedere all’esterno. La vita scorreva. Era sera, ormai. Un sabato sera così anomalo per me, così normale per gli altri, nella loro nuova normalità. Ci fermammo a un semaforo. La capitale, attorno a me, era una città in cui negli ultimi mesi stava subendo il travaso della propria storia secolare e malinconica in un futuro dinamico, come se una nuova inesauribile e inesprimibile grandezza fosse alle porte; mi sentivo orgoglioso. Vidi un mendicante e provai ribrezzo. Prima non mi era mai successo: li vedevo e passavo oltre senza pensarci. Distolsi lo sguardo e azzardai un nuovo respiro rumoroso, ma meno disturbante dei colpetti di tosse.
L’uomo in borghese si voltò verso di me e disse: “Siamo quasi arrivati.” La sua voce era dolce, il suo viso del tutto inespressivo.
Fu così che cominciai a lavorare come sosia del presidente. Mi dissero che il presidente aveva grandi responsabilità, che aveva grandi impegni; e che, in certe occasioni minori, per così dire, lì dove era richiesta solo una sua presenza fugace, o lì dove era sufficiente che la sua immagine taumaturgica fosse soltanto brevemente esposta agli astanti di per ciò stesso soddisfatti e cautelati dalle angosce future, il ricorso a un sosia era l’opzione più efficiente e sicura per tutti. Ebbi il coraggio di chiedere, stavolta, se la mia funzione sarebbe stata anche quella di attirare eventuali pallottole, bombe sotto l’automobile, tentativi di avvelenamento e tutti quei dispiaceri che la malignità umana può disporre per interferire con il volere del destino e con la magnificenza di un presidente come il nostro: e mi dissero che no, non era questo il punto, che sì, certo, c’era la possibilità che la mia figura, il mio corpo, la mia faccia potessero distrarre un possibile nemico, ma erano possibilità teoriche, che dico, metafisiche, puro esercizio di logica applicata, nulla più, e poi fecero un lungo discorso sulla patria, sui privilegi e sui doveri, sulla Storia con la “esse” maiuscola, e questo doveva essere un discorso generico, e poi ne fecero un altro più personale, su di me, sul mio vecchio mestiere di insegnante, e quindi di educatore, e di formatore, e di come anche adesso sarei stato a ben vedere un formatore e un educatore.
Non avrei lavorato solo come sosia, questo no, perché si trattava comunque di un impiego che mi avrebbe portato via poco tempo; avrei lavorato per il governo, da casa, sbrigando non so quali pratiche al computer, mi avrebbero insegnato, e avrei imparato facilmente, mi garantirono, perché ero un uomo intelligente, si vedeva; avrei cambiato nome, e non avrei più dovuto avere rapporti con le persone che conoscevo prima, i parenti sì, che domande, non siamo bestie, non vogliamo strappare un uomo alla sua famiglia; i rapporti con i parenti sarebbero stati supervisionati, ma non vietati né sconsigliati, solo si raccomandava cautela. Mia moglie avrebbe continuato a vivere con me, anche a lei sarebbe stato dato un nuovo lavoro, e un nuovo nome, e per quel che riguardava l’uscire di casa per sbrigare le commissioni quotidiane era meglio che se ne occupasse lei e non io, e se dovevo uscire era opportuno che lo facessi con un dato travestimento, ma per il resto avremmo avuto una casa, un buon appartamento, e un’auto, e ogni agio e comodità, e avremmo potuto condurre un’esistenza normale, per quanto potesse essere normale la vita di uno che assomigliava al presidente così tanto, disse l’uomo in borghese, che si sarebbe ingannata perfino sua madre.
Io non sono lui, mi dicevo. Io sono la parte di lui che si può vedere. Sono il suo corpo senza la sua sacralità, la sua faccia senza i suoi pensieri. È un’arte, questa che devo imparare. E devo impararla perché la patria, il destino, lui, io, insomma, devo perché devo. Non devo mettermi in posa. La mia vita in quanto me stesso diventa uno spazio alieno, e la mia vita in quanto sosia diventa spazio pubblico. Come il teatro greco, mi dissi. Io sono un rituale. La trama dello spettacolo non è rilevante: è la Storia, la stessa storia, lo stesso mito già scritto tante volte prima di me e di lui; io e lui siamo l’interpretazione dell’esperienza umana, non la creazione di una nuova storia. Lui è l’eroe: soggetto al destino dei mortali pur essendolo solo in parte, divino e umano, lui è al di là della morale, a lui solo è concessa questa ambivalenza, la ferocia e la giustizia gli pertengono ugualmente, e la follia e la mansuetudine; lui è la dismisura, e la colpa inconsapevole, lui è l’eccesso; e quindi in lui vi sono la scelta e il dolore, il limite e la libertà, e io lo aiuto, io sono l’altro pur non essendolo del tutto, siamo entrambi al margine della declinazione delle possibilità d’essere uomini, ma in modo diverso, lui in quanto eccezione, io n quanto replica di un’eccezione. E sopra di noi c’è soltanto il destino, e il destino non ha la nostra morale, la nostra morale è cieca e impotente e incompleta di fronte al destino, e per questo siamo parte di una tragedia, perché le nostre scelte conducono inevitabilmente a una sofferenza, a un tormento; e se qualcuno pensa che la follia potrà salvarci, non tiene conto che anch’essa è parte della dismisura a cui lui è soggetto, e del dolore che prova. Lui non può vincere, non può smettere di essere se stesso, mi dicevo, e io adesso sono parte di questo dolore, e di questo destino.
Mi raccontai queste parole, lo feci un po’ per volta, in modo da costruire un sostrato convincente a quel che sarebbe stata la mia vita per un lungo periodo - così congetturavo, e a ragione. Mia moglie mi raggiunse a metà della settimana seguente: anche a lei avevano spiegato tutto, come a me, e sembrava molto contenta e convinta dell’importanza del ruolo minimo e curioso che ci era toccato in sorte nella grande Storia. Se nutrisse dubbi, o se avesse paura, non seppi dire all’epoca e non so dire neppure adesso. Mia moglie è una persona risoluta, una di quelle persone che non faticano a trovare pace col proprio passato una volta che le decisioni, giuste o sbagliate, sono state prese. L’appartamento in cui fummo collocati era ampio, con un mobilio di buona qualità anche se non di lusso. Nel giro di un mese, su nostra indicazione, ci furono recapitati anche tutti gli oggetti della vecchia casa cui eravamo affezionati, quei minimi dettagli che rendono particolare e umana la vita, insomma. Nel frattempo telefonai a mia madre. Sapevo che la chiamata era registrata, ma cercai ugualmente di essere spontaneo, cordiale: il solito figlio. Le dissi che avevo trovato un impiego governativo di grande responsabilità, il che, senza dover scendere nei dettagli, era anche vero, e che ci eravamo dovuti trasferire in tutta fretta.
Pensai ai bambini della mia classe, e poi mi sforzai di non pensarci più. Pensai ai miei amici e alle parole con cui avrei dovuto diradare e troncare poi i nostri legami senza dare sospetti. L’uomo in borghese - non ho mai conosciuto il suo nome - veniva da me, nei primi tempi, a controllare che mia moglie e io ci comportassimo secondo le direttive. Dopo alcuni mesi prese a venire meno spesso. Avevo la sua fiducia.
[3. Continua. ©ElenaTosato2024]
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