Questa è una puntata molto di nicchia - cioè, peggio del solito - in cui Sillabe si dedica a una forma del metro popolare, quello che tradizionalmente trovava spazio nella poesia dei giullari. Parliamo dello strambotto. Prima di addentrarci nella nicchia delle nicchie, però, lasciatemi ricordare che Sillabe è una newsletter completamente gratuita, e tale resterà; se volete supportarmi in qualche modo c’è una panoplia di libri disponibili, trovate il riferimento in fondo alla pagina; se siete abbonati al servizio Kindle unlimited potete leggerli gratis; potete semplicemente poi condividere la newsletter, parlarne, o farmi un semplice pat pat sulla spalla che tanto sono una persona sensibile e apprezzo comunque!
E ora si vada alle rime.
Scatola di montaggio: lo strambotto
Forma metrica e musicale tipica della poesia cortigiana del Trecento e, soprattutto, del Quattrocento, lo strambotto nasce già nella poesia siciliana del Duecento. Benché sia un metro della poesia popolare, è stato usato poi anche da poeti colti come il Poliziano nel Quattrocento fiorentino che di strambotti riempì le sue Rime. Lo strambotto era una forma metrica destinata all’accompagnamento musicale, come lo erano il rispetto (che allo strambotto è molto simile, al punto che non sempre si riesce a distinguere quale forma indichi l’uno e quale l’altro) o il madrigale o l’ode, che abbiamo già visto su Sillabe nei primi tempi e ai cui link rimando nel caso vi pungesse curiosità.
Lo strambotto somiglia all’ottava, anche se probabilmente non ha legami diretti con l’ottava narrativa, quella dell’Orlando furioso per intenderci, la quale, a sua volta, è stata sezionata e sperimentata qui. L’ottava rima, infatti, è uno strumento che serve per raccontare storie avvincenti e, in questo, deve forse molto di più alla prosa del Boccaccio.
Com’è fatto lo strambotto? È un breve componimento in endecasillabi, generalmente una sola strofa di otto versi, secondo la variante siciliana ABABABAB o quella toscana ABABABCC: quest’ultima forma è proprio quella della nostra consueta ottava rima ariostesca, ma il genere letterario è del tutto diverso. Lo strambotto si trova poi anche nella forma ABABCCDD.
Oltre al già menzionato Poliziano, autori di strambotti furono Serafino Aquilano e Leonardo Giustinian. Quanto al nome, strambotto, l’etimo è incerto: c’è chi lo lega all’estribot provenzale, basti pensare alla composizione Un estribot farai, que er mot maïstratz di Peire Cardinal (che ritroveremo a parlare di sirventesi, tra qualche tempo)… se non fosse per il fatto che si tratta di una lassa!
La strofa, si diceva, è in genere una sola, ma è possibile trovare più strambotti uno dietro l’altro, accomunati dallo stesso tema, in una serie che prende il nome di stanze per strambotti.
Dallo strambotto deriverebbe poi un’altra forma di poesia popolare musicata, la villota.
È dunque il momento di comporre un paio di strambotti.
Il primo è classicheggiante, scritto nella variante siciliana, ed è un po’ da Signora mia, che tempi.
L’idea d’intelligenza, che si innerva
nel mondo e lo comprende e lo spariglia
è il lascito sospeso di Minerva,
madre imprudente di questa sua figlia:
e val la pena chiedersi se serva,
se riuscirà a formarsi una famiglia,
scambiata oscenamente per proterva
nel senno umano che ormai si assottiglia.
Il secondo, nella variante toscana, parla d’amore profano.
A piedi uniti, con bianca paura,
di quel d’amore calco infine il regno,
con l’aria nello stomaco, che pura
il cuore fa tremare, a stento degno
di ciò di cui, pur misero, si cura.
Alterno gioia antica e vano sdegno,
e fame d’una vita a cui non so,
con carità e speranza, dir di no.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Quinto appuntamento con Manuale di conversazione, romanzo improbabile che, vi ricordo, potete trovare su Amazon in versione cartacea e digitale. Irene comincia a darsi da fare: per imparare a rapportarsi col mondo eccola dunque muoversi sulle tracce di un professore di ermeneutica, Federico Ganz, dal quale si figura di poter trarre ammonimenti e consigli per una - appunto - decorosa interpretazione dei fatti umani. Da queste pagine si apprende anche dell’importanza filosofica dei biscotti al cioccolato.
Me lo ricordo da giovane, e questa immagine si sovrappone a quella, più consueta, che viene pubblicata qualche volta nelle pagine culturali dei principali quotidiani. Alto, con un ventre piriforme stretto nell’immancabile panciotto, i capelli corti color biondo scuro, gli occhiali dalla montatura leggerissima che gli ingrandivano gli occhi neri, la quasi efebica assenza di barba, il tutto creava in lui l’aria di un putto allungato, nobilmente corrucciato e vestito a festa. Parlava con una voce al tempo stesso biascicante e profonda, si diceva (gli studenti lo dicevano) che fosse completamente asessuato, e all’epoca della scuola viveva con un gatto già piuttosto anziano che aveva chiamato, bontà sua, Georg Wilhelm Friedrich, e che a quest’ora è ovviamente morto stecchito. Si diceva anche della sua biblioteca, che già ai tempi in cui ero a scuola era leggenda, un luogo in cui l’anima tremava d’amore e di freddo, un luogo che era convento e boudoir - casto, per carità, da un punto di vista carnale: era erotismo della mente.
Trovare il suo indirizzo email è stato facile: era riportato sul sito dell’Università in cui insegna adesso, sotto la fotografia e la breve introduzione alla sua opera. Uomo di ottima famiglia, d’aspetto austero per nascita e ora anche per età, in realtà infatuato della propria ambizione e dei propri vizi intellettuali al punto di essere profondamente indulgente nei confronti di quelli degli altri, fossero pure filosofi analitici, il professor Ganz, apologeta della parola, non dava segno di essere inaccessibile; mostrava comunque di trovarsi ad un livello più elevato rispetto a quello comunemente riservato ai mortali, un livello fatto di argomenti sospetti e metamorfici come riconcezione, iterabilità del segno, materialità del sé, critica del crisma noemico, oggettivismo del futile, e il suo cavallo di battaglia che era la grammatica organica del poi: ho studiato a fondo la sua opera, e l’ho rispolverata prima di scrivergli, per tirar via dalla mia istruzione l’eventuale patina di incuria degli anni e non fare brutta figura.
È stato con mia grande sorpresa, data la mole di impegni di cui immaginavo fosse gravato, che la risposta è arrivata solerte e benevolente.
“Gentile Irene” scriveva “sono molto lusingato del fatto che abbia pensato a me; che mi consideri, come ha detto, un riferimento così vicino, anche se le nostre strade non si sono mai incrociate, mancandosi per una manciata di mesi. Ho letto con attenzione il problema che mi sottopone e debbo innanzitutto ringraziarla per averlo esposto senza tutto l’autocompiacimento che mi capita spesso, purtroppo, di riscontrare in casi simili. C’è chi usa il pensiero come vendetta degli anni che passano: vedo che non è il Suo caso, e non posso non dire che ne ho provato sollievo.”
A queste parole, l’agitazione che mi aveva colto quando era arrivata la risposta del professore mi ha abbandonato di colpo, e ho seguitato a leggere con uno spirito di curiosità riconoscente.
“Il problema che espone mi sembra del tutto ragionevole, per quanto possa capire che Le crei un disagio. Dunque, da quanto ho capito, si tratta di un problema di comunicazione orale: giacché Lei mi assicura che non ha difficoltà a comprendere la parola scritta. Se mi concede un riferimento alla situazione attuale, Irene, si tenga stretta questa capacità! Ma veniamo all’oralità in sé. Mi racconta di una difficoltà a comprendere le domande che, invece, se fossero scritte non le creerebbero sforzi di interpretazione; e attribuisce questa angustia al non saper discernere la parola dal linguaggio del corpo, dall’intonazione, in breve è impossibilitata a capire cosa l’interlocutore si aspetta esattamente da Lei, e ciò le provoca un senso di affanno e distacco dalla realtà, al punto che il più delle volte balbetta o tace. Non dubito che abbia già parlato - o meglio, fatto in qualche modo menzione - ad alcuni specialisti di questa interessante vicenda. Sono comunque contento di poterle offrire anche il mio parere.
C’è chi scambia il riserbo per fierezza: coltivi questo equivoco, se le garba. In aggiunta, La invito a considerare una serie di concetti filosofici che potrebbero aiutarla a venire a capo intellettualmente del problema; o, come la filosofia è tenuta a proporsi, almeno ad inquadrarlo da un punto di vista formale e rigoroso.
Vede, cara Irene: v’è al mondo la sciocca tendenza di provare o refutare delle idee sulla base dei fatti, a causa di un’esigenza ormai secolare di vivere in una realtà quantificabile, quando a noi - noi che amiamo il pensiero, intendo - tocca cercare l’origine delle cose, delle idee, da un punto di vista della loro essenza. Non è affatto facile, in special modo quando si è attorniati da persone che confondono i fatti con ciò che è sperimentabile, empirico! E tuttavia bisogna pur provare.
Come una folla che non può essere contenuta, il discorso è ovunque. E, come diceva il mio maestro, niente è al di fuori del testo: la parola è un balsamo che lenisce la nostalgia dell’Essere”
Qui mi sono dovuta sedere, perché la storia cominciava a farsi complicata. Sono andata in cucina a prendere quattro biscotti al cioccolato e ho addentato sommessamente il primo, facendo attenzione a non riempire di briciole la tastiera del computer. Ganz faceva una breve digressione sulla necessità di Babele come struttura umana, scriveva due righe sulla nascita della lingua, menzionava i tentativi di lingua universale, faceva i nomi di Lullo e di Mersenne. E poi riprendeva così: […]
Calicanto
Settenari ed endecasillabi.
Del tempo
Disse mio nonno, ch’è morto di guerra
e pur sopravvissuto a quegli eventi,
che la vendetta è come la speranza,
perché già tutt’e due ben presuppongono
l’esistere futuro.
E sono logoranti, disse ancora,
quasi allo stesso modo;
questo mio nonno disse, lo dissero
insieme le macerie,
lo confermarono ancora gli Dei;
invece per il resto
il mondo è solo adesso.
Libri miei
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