Buongiorno! Ho una logorrea primaverile! Solo per iscritto, non crediate che parli davvero; ma tant’è. Ho pensato che se la puntata è lunga può sempre essere una cosa carina da leggere a Pasquetta in caso di pioggia.
Questa settimana ritorna l’appuntamento con Una prosa è una prosa è una prosa; lì dove c’era stato spazio per Calicanto e, prima ancora, per Figure, oggi c’è un vuoto. Ma i vuoti vanno riempiti, per cui da aprile qualcosa arriverà. Vedremo. Per quanto riguarda la Scatola di montaggio, intanto, proseguono gli appuntamenti con le tante variazioni sul sonetto, ed è tempo di parlare del sonetto rinterzato. Ricordo che le altre puntate in tema trattano del sonetto tradizionale (12), di quando il sonetto abbandona l’endecasillabo per metri più brevi (17) e del sonetto caudato (26). Ce ne sarà un’ultima sul sonetto doppio fra un paio di mesi.
Scatola di montaggio: il sonetto rinterzato
Il sonetto rinterzato è una peculiarità di Guittone d’Arezzo, che fu probabilmente il primo a introdurlo. Consiste nel modificare l’abituale struttura in quartine e terzine del sonetto in endecasillabi inserendo dei settenari dopo i versi dispari delle quartine e dopo i primi due versi delle terzine, in modo che il settenario rimi con l’endecasillabo che lo precede. Un classico sonetto di schema ABBA ABBA CDC DCD in tal modo diventerà AaBAaB AaBAaB CcDdC, DdCcD.
È un sonetto che conta 22 versi invece di 14 e che ha un caratteristico effetto di eco interna, dovuta al settenario che ricalca le sonorità dell’endecasillabo presentandosi però più corto.
Sulla tecnica compositiva non c’è molto altro da dire: veniamo allora a tre esempi. I sonetti qui di seguito provengono tutti da Canone accidentale (2019), che è una raccolta di 120 componimenti (quasi tutti sonetti) dedicati ad altrettante opere della letteratura (quasi tutta occidentale). Il titolo fa ovviamente il verso (è il caso di dirlo) al Canone occidentale di Harold Bloom. È disponibile gratuitamente in pdf a questo indirizzo. Se mai voleste una copia cartacea, è in vendita su Amazon insieme al resto della mia produzione.
I sonetti di oggi fanno riferimento a Cecità di J. Saramago, Morte a Venezia di T. Mann e Il giovane Holden di J.D. Salinger.
Cecità - J. Saramago
Succede che si smette di vedere,
e poi non sono nere
le macchie, le infinite prospettive,
ma bianche lancinanti. Non sapere
se sono false o vere
le trame in cui si scalpita e si vive,
è questo che ci tocca. Mantenere
le solite chimere
sotto le palpebre ormai inoffensive,
capire che vuol dire non potere;
son queste le maniere
in cui si viene pazzi. Narrative
complete d’universi rifondati
ci vedono malati
ma noi qui ci sentiamo solo strani,
volatili ed umani,
da qualche verità emancipati.
Ci toccherà vedere con le mani,
con tanti sogni vani
che scontano, sui corpi accomunati,
quello che siamo stati:
malvagi, assurdi, violenti ed urbani.
La morte a Venezia - T. Mann
Eccomi chiuso sull’acque sospese,
smagliate a più riprese
dall’onda piccola della laguna.
E l’arte, che da sempre mi comprese,
non cerca più sorprese,
asciutta come il chiaro della luna
che guarda il mondo con occhio cortese.
Mi muovo, mani tese
tra genti sconosciute e quindi una
famiglia d’inaudibili pretese
uccide le difese
del cuore mio e della sua fortuna,
con la figura incerta d’un ragazzo.
Mi stringe l’imbarazzo
e un puro desiderio d’atmosfera
e quindi vita vera,
amore che non vuole più rimpiazzo.
Vado, ritorno; luce della sera,
che vive e poi dispera,
che scivola sull’ombra d’un palazzo
m’ottieni morto e pazzo,
ossessionato da questa chimera.
Il giovane Holden - J. D. Salinger
Come guardare l’ultima partita
e una quasi-vita
mi porta a divagare sopra il mondo
e la tua morte, trascorsa, finita,
atavica, scolpita
sopra i ricordi che stanno sul fondo!
È questo che ti dico: dell’uscita
di un cuore parassita
che non dovrebbe piangere, rotondo
nei bruschi balzi, sai, della salita;
che sceglie la ferita
di darsi adesso solo e vagabondo.
La notte non esiste; la paura
non vive, si struttura
dentro le case e i vani della mente,
rincorsa dalla gente,
è solo il volto di letteratura
riscritta e senza fiato. Non si sente
in questa notte niente,
è giusto un viaggio, quest’arte che dura
dell’esser senza cura
ed andar via incontro all’esistente.
Una prosa è una prosa è una prosa: Manuale di conversazione
Dove eravamo rimasti? Irene Cardin sta ancora cercando di imparare i crismi dell’interazione sociale; si è rivolta a un filosofo, il professore Federico Ganz, e a un giornalista, l’amico di famiglia Sergio Bettini. Tocca ora a una ricerca storica su un famoso politico locale, esempio quasi mitologico di ingenuità di intenti (la si sarebbe detta purezza) supportata però da possenti capacità oratorie e da un senso sociale fuori dall’ordinario. Lo chiamavano Il Picenin, e questa è la sua storia.
L’immagine di lui con cui intendo aprire la sua storia è la scena del suo primo grande comizio; tralascio cioè tutta la fase per così dire propedeutica in cui aveva imparato a parlare davanti a poche persone e a convincerle del proprio magnetismo, il che a ben vedere mi sarebbe stato più utile, perché si comincia sempre dalle cose più semplici e piccole, ma il mio scopo non era quello di scrivere un manuale su come si parla in pubblico (compito con ogni evidenza al di là della mia portata gnoseologica e pratica) bensì un manuale di conversazione, e per questo motivo dovevo ricavare dei principi generali, per esempio, sui confini tra parresia e retorica politica, e fra dramma e ostensione di sé, tutte discipline in cui il soggetto in questione era stato in grado di dire la sua. La prima scena dunque è questa: lui è ancora giovane, poco più o poco meno che universitario, già però non gli tremano più le gambe, e sale sul palco, io mi immagino di vederlo di spalle, secco e scuro, mentre viene introdotto dal Vecchio, che è come dire il padre padrone della piazza, il Vecchio che ha fatto comizi sin da quando era illegale, che ha nelle scarpe la ghiaia delle montagne da cui è sceso alla fine della guerra, e lui non si fa intimidire dal confronto perché si capisce - e lo vedremo meglio tra poco - che ha l’aura del figliol prodigo, anzi del prescelto, un concentrato di simbologie classiche e bibliche sul ruolo del figlio; ma non si fa irretire dal ruolo dei padri e dei figli, sa esattamente quello che vuole dire, parola per parola, e infatti si avvicina al microfono e parla a braccio e la voce non s’inceppa.
[…]Il Picenin veniva da una famiglia poverissima ed era l’unico sano di quattro figli maschi, nonché l’ultimo nato, il che dal principio gli era valso in casa il soprannome che poi lo avrebbe contraddistinto anche in pubblico: dei tre fratelli maggiori il primo era morto per difterite a due anni e mezzo (questo fratello il Picenin non lo aveva conosciuto), il secondo era storpio e il terzo scemo, per cui quando era nato il Picenin, al secolo Antonio, e i suoi genitori avevano visto che cresceva dritto, sveglio e in salute, avevano tirato un sospiro di sollievo che si era articolato secondo le diverse caratteristiche dei due: la madre del Picenin aveva ringraziato il Signore e anche sant’Antonio, complimentandosi con se stessa per aver pensato di dare all’ultimo figlio il nome del santo di riferimento, giacché è noto che i santi hanno dei potentati locali su cui regnano come sovrani indiscussi, e in Veneto Antonio ha mansioni e prebende che rischiano un’interferenza sostanziale con la Trinità e propendono addirittura verso le rivendicazioni di autonomia cultuale; il padre del Picenin aveva tirato giù una bestemmia liberatoria e, siccome aveva la quinta elementare ma era incline alle considerazioni statistiche, per quanto empiriche e ingenue e a volte errate e non supportate da modelli matematici, aveva detto “Eh, dai e dai, su quattro, vuoi che andassero tutti male” e si era cresciuto il Picenin tenendoselo in palmo di mano, dicendo a se stesso e alla moglie e a tutti i parenti e agli amici, e infine anche al Picenin stesso, quando era stato abbastanza grande per capire, che di quel figlio bisognava fare qualcosa di speciale, e pazienza se sarebbe costato, bisognava farlo diventare ragioniere, o addirittura medico o professore.
Il Picenin, di par suo, cresceva nel solco delle aspirazioni paterne. Non dava problemi a casa, si picchiava con i coetanei solo quanto bastava a non prenderle, a scuola dimostrava un’intelligenza sopra la media, si occupava del fratello scemo e del fratello storpio quando sua madre era stanca, “ma solo dopo che hai finito di studiare” si raccomandava lei, che aveva assorbito i desideri del marito, o forse li condivideva già dall’inizio, e ci teneva che il Picenin non perdesse tempo e riscattasse da solo la miseria di generazioni, e poteva farlo solo studiando. “Che anche lo studio è un mestiere nobile e faticoso, lo diceva Gransi” si vantava di sapere il padre del Picenin, che intendeva Gramsci, detto in veneto, il quale Gramsci per buona misura si chiamava Antonio pure lui, come il Picenin, e Gramsci, non gliene volesse la moglie, era molto meglio di sant’Antonio; e il padre del Picenin sarà stato sì un ignorante e un umile operaio, ma frequentava la sezione assiduamente, e voleva bene al Partito, e d’estate andava a fare il volontario alle feste dell’Unità e si portava appresso il Picenin, che così aveva imparato come si arrostiscono le costine di maiale e aveva conosciuto il Vecchio, che all’epoca non era ancora così vecchio ma già si chiamava il Vecchio, così come il Picenin sarebbe stato Picenin per tutta la vita, solo che il Vecchio lo chiamavano in italiano e non in dialetto perché veniva da Firenze.
Il Vecchio si era trovato d’accordo con l’opinione comune, e con l’opinione dei genitori del ragazzo, che il Picenin dovesse studiare e farsi strada nella vita; e siccome il Vecchio era professore universitario e conosceva il greco, il padre del Picenin era stato ben felice di affidargli il ragazzo come se fosse una specie di tutore, e il Picenin era cresciuto un po’ con la sua famiglia e un po’ con il Vecchio, e aveva cominciato a imbastire discorsi, e a studiare seriamente, e insomma era venuto su che era una meraviglia, secondo i suoi genitori; e quando erano morti sia il fratello scemo che il fratello storpio, tutti e due giovani, e il Picenin si stava laureando, il padre e la madre del Picenin avevano evocato nella memoria i due rispettivi Antonii e avevano visto nel Picenin il compimento di un disegno, e se ne era infine un po’ convinto anche lui stesso, e soprattutto iniziava a convincersene anche chi lo ascoltava quando parlava, cioè il gruppo sociale e di multiforme ingegno che chiameremo, con poco scialo di fantasia e molta aderenza ai dettami culturali del Picenin, il popolo.
E qui concludo. La settimana prossima sarò più breve, prometto: sarà il tempo di scrivere qualche barbarie.
A presto!
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