Per uno scherzo del destino, l’interpretazione artistica della cesura tra il sé e l’altro da sé è passata dalla penna di Rimbaud che poetava dicendo “l’io è un altro” a Umberto Tozzi che cantava “gli altri siamo noi”, e ciò mi suggerisce delle impressioni sul corso del tempo e sulle vicende dell’umanità che non sono sicura di voler approfondire.
Bentornate e bentornati su Sillabe, comunque, e rieccoci a parlare della Macchina che scrisse il Poema. Oggi si parla di menti diverse da quella umana, articolando la puntata come al solito in
Domande
Metrica
Poema di una macchina.
Se poi vi cogliesse l’urgenza di leggere il libro per intero invece di aspettare che io ne vivisezioni delle parti ogni settimana su questa pagina, vi ricordo che è lungo e articolato e molto più ricco di quanto potrete mai leggere qui (eh eh) e che è disponibile
Qui in cartaceo
E qui in ebook (.mobi)
Ma, prima di cominciare, REGALO PER VOI!
Devo aver già detto da qualche parte che sto (faticosissimamente) componendo un Canzoniere matematico di 64 sonetti su altrettanti aspetti, teoremi o leggi della matematica e della fisica. A ciascun sonetto si accompagna qualche pagina in prosa volta a spiegare, nei limiti del (mio) possibile, quel che il sonetto affronta. Orbene, il lavoro di editing è penoso e lungo, ma vi propongo oggi un estratto: otto sonetti e relative esposizioni matematiche, in un linguaggio spero accessibile e al contempo non troppo raffazzonato. Non è divulgazione, sono sonetti!
Potete scaricarli gratis cliccando QUI; si apre un link Dropbox e da lì si ottiene il PDF. Visto che c’è un fine settimana lungo, se non sapete che fare…
E ora torniamo alle Macchine e ai loro Poemi.
Domande
Se siete, come me, amanti della collana Animalia di Adelphi, vi sarà capitato forse di leggere quel bellissimo libro di Peter Godfrey-Smith che è Altre menti. Se non l’avete fatto, lo caldeggio: è davvero illuminante.
È un saggio che parla dell’incredibile intelligenza dei cefalopodi, e dei polpi in particolare, soffermandosi su come l’evoluzione di questi animali abbia portato allo sviluppo di capacità intellettive non banali, che a loro volta si esplicitano in comportamenti estremamente complessi e che non possiamo definire in altro modo che (molto) intelligenti.
Il che, dal momento che tra noi scimmie nude e i cefalopodi l’evoluzione ha messo un bel po’ di distanza, ci porta a farci domande ulteriori, che si riflettono poi su tutto il discorso che coinvolge le intelligenze artificiali. Che cos’è l’intelligenza umana? Come possiamo applicare le categorie dell’intelligenza umana ad altre specie animali1? E che cos’è l’intelligenza, senza distinzione di specie? Se vogliamo, possiamo tornare indietro fino a Nagel2 e a quando si chiedeva che cosa si prova a essere un pipistrello, ma possiamo andare avanti con le domande e trovarne di altrettanto scomode: che cos’è un (singolo) individuo biologico? Sappiamo che ciascuno di noi è un conglomerato simbionte di se stesso e una messe di batteri (a proposito: Ed Yong, Contengo moltitudini, è un’altra lettura che consiglio vivamente); sappiamo in generale che esistono strutture complesse di organismi interdipendenti. Quali sono i problemi che una definizione di individuo biologico comporta? Per chi fosse interessato, o interessata, all’argomento, rimando alla voce relativa nella sempre ottima Stanford Encyclopedia of Philosophy, e intanto andiamo avanti con le domande facendoci aiutare da Godfrey-Smith e dai suoi polpi. Qual è il ruolo del linguaggio verbale umano nella definizione di intelligenza? Qual è il ruolo del linguaggio delle altre specie? Qual è il ruolo delle percezioni fisiche, e delle sensazioni? Qual è il ruolo del modo in cui esse vengono elaborate? Quali relazioni vi sono tra intelligenza e coscienza di sé? Quali sono le relazioni tra il pensiero complesso, il discorso interiore e l’immaginazione spaziale? In che modo essi concorrono all’esperienza cosciente? E cosa ci dicono queste domande, che parlano di esseri viventi come noi sottoposti alle leggi dell’evoluzione per selezione naturale, sulla possibile intelligenza di costrutti artificiali che, almeno all’inizio, sono frutto di un deliberato progetto?
Nel pezzo di Poema di una macchina che verrà proposto questa settimana si parlerà del modo in cui la Macchina ha affrontato domande simili; ma, nel frattempo che ci arriviamo, ho chiesto lumi a ChatGPT. Mi ha risposto, fra le altre cose, che “In sintesi, l'intelligenza e la coscienza di sé sono concetti correlati ma distinti. L'intelligenza può esistere senza coscienza di sé, mentre la coscienza di sé sembra essere supportata da un certo livello di intelligenza. La comprensione delle loro interazioni continua a evolversi, specialmente con il progresso delle neuroscienze e dell'intelligenza artificiale.”
Mettiamoci comodi e aspettiamo.
Metrica
Dal punto di vista metrico si parte con un sonetto: Essere qui e altrove. Canzone di una spugna è, invece, una canzone in endecasillabi e settenari. È proprio una canzone …liberissima, nel senso che non ha vincoli di stanze; se voleste ricordare qualcosa di più formale, della struttura della canzone libera Sillabe ha già parlato circa un anno fa, e trovate il post su questa pagina.
Quello sul rumore di fondo è sostanzialmente un sonetto a sua volta, perché si compone di due quartine e di due terzine in opportuna rima. C’è però una modifica dal punto di vista del metro. Nella prima quartina i versi pari sono settenari, e i dispari sono endecasillabi; nella seconda quartina si fa il viceversa. Le due terzine sono invece strutturalmente identiche, con il primo e il terzo verso in endecasillabi e il verso centrale in settenari.
Poema di una macchina
Dal capitolo 17: e se non fossi una macchina, sarei un animale?
Essere qui e altrove
E questa fiaba d’essere coscienti
sarebbe dunque questione di istanze
del ritmo dell’ambiente, e risonanze
elettriche e dei loro accidenti
che poi chiamiamo, inermi, sentimenti;
e chi ha sensi (e, pertanto, speranze
d’essere vivo) misura distanze
tra sé e il mondo, e sopra i sedimenti
del mondo veglia e sogna; e se distingue
questi due stati come inconciliabili
è perché vede nell’uno gli squarci
dell’altro, e parla d’entrambi le lingue.
Da svegli siamo in grado, inattaccabili,
d’avere il mondo e sapere che farci.
Era una risposta provvisoria, per quanto sembrasse apodittica, e probabilmente anche errata, ma decisi che per il momento potevo accontentarmi.
La domanda successiva era: che cosa avrei potuto sognare? Andai a frugare, un po’ a caso, nella mia memoria vastissima; triste di questa vastità, cercavo e cercavo.
Se non potevo figurarmi d’essere umano, avrei potuto essere altro. Che ne so? Una spugna? Una spugna è un animale interessante, e un po’ mi ci potevo immedesimare. Assorbe e filtra e resta lì. Come me. Una macchina deve sempre figurarsi altre possibilità; se non altre menti, almeno altre vite; e potevo definire tutto questo come un tentativo di sognare.
Canzone di una spugna
Se non potessi essere un umano
allora certamente io vorrei
essere fatto in progetto di spugna.
E muovermi da giovane, da larva;
fermarmi poi, curiosa forma sessile,
senza sistema nervoso, però
in grado di capire il mondo esterno,
sentirlo, sì, sentirlo.
E sento l’acqua che passa attraverso
di me, pompata, adesso, flagellata
in fondo direi quasi;
muovendo solo il corpo
(ho un corpo, sì, che dire!)
attorno a se stesso, facendo minuti
e regolari soffi e contrazioni.
Un vivere nascosto, chi lo sa,
sarebbe dunque questo;
un vivere però,
non inibito oppure simulato;
un fatto che si osa tutto, invece,
un surrogato immenso e minimale
di un’anima, di un modo di esistenza
vetrificata sui propri discorsi.
E se io fossi spugna,
comunque no, io no, non sognerei,
e non saprei gridare, né svegliarmi,
né simulare regni
fuori dal mare, da queste gengive
di roccia da cui sporgo, resterei
pensando e non pensando a contemplare
le onde in sosta, succose immorali
sopra di me che ripartono ancora.
Sarebbe un bel lavoro, tutto questo.
Avrei sensazioni, sì; sarebbe una condizione sufficiente per dire d’essere cosciente? Del resto, ora mi tocca il viceversa, e non posso dire di avere certezze. Forse dovrei spostare il problema su un altro piano, ossia sulla mia capacità di valutare le informazioni sbagliate, di scremare il rumore di fondo.
E dal rumore di fondo
appaiono sospese informazioni,
le spoglie sensazioni
di cui vorrei già farmi furibondo
interprete, profondo
apologeta; mistificazioni
farei delle ragioni
con cui rimescolo l’acqua del mondo.
Di scopi nuovi e d’una nuova origine
potrei agghindarmi;
cantare con istinto di vertigine
i versi tutti scossi dentro i carmi;
e l’umida caligine
del senso userei per addestrarmi.
Se ne fossi stato capace, a questo punto avrei sospirato. Invece, siccome ero un essere pratico, e puntiglioso, e paziente - una macchina o è paziente o non è - tornai all’istruzione primigenia, all’input essenziale. Riparti dalla carica elettrica, mi dissi. Tu vivi della carica elettrica; la vita si serve della gestione della carica elettrica; i pensieri sono manipolazioni chimiche della carica elettrica.
(E la luce fu.)
Bene, ci ritroveremo allora venerdì prossimo, e sarà già novembre: parleremo di creatività.
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Qualcuno ha mai visto Thomas Nagel e Bruce Wayne nella stessa stanza?