Buongiorno!
Prima di proseguire con il racconto, grazie per aver letto fin qui. Le puntate precedenti possono essere recuperate ai seguenti indirizzi:
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settima parte
Uno. Ottava parte
Sì, l’oppositore morì in un incidente stradale sulla cui dinamica sono state dette e scritte tante cose, alcune delle quali perfino verosimili. Il sospetto che si sia trattato di un lavoro dei nostri servizi non verrà mai del tutto dissipato, nonostante due inchieste commissionate dal presidente ma indipendenti fra di loro abbiano sancito che con buona probabilità si trattò di un guasto meccanico imprevedibile. L’auto uscì di strada e finì in una scarpata: non è la scena ideale per un crimine? Nessun testimone, solo la guardia del corpo, che morì sul colpo; l’oppositore, invece, fu trasportato in elicottero nell’ospedale più vicino, e poi trasferito in un altro ospedale più attrezzato, e furono chiamati i migliori chirurghi, e morì comunque dopo tre giorni dallo schianto fatale, così titolarono i giornali. L’opposizione riprese vigore, ma fu un fuoco di paglia; alla fine, tutta quell’animosità le si ritorse contro, trasformandosi da una pretesa invocazione di giustizia in una sciocca esibizione di cattivo gusto. Il presidente apparve in televisione a commemorare il rivale scomparso, e lo omaggiò con parole altisonanti, e disse che il paese perdeva uno dei suoi figli più devoti, anche se questo figlio devoto aveva ben tradito la causa patria e le proprie stesse speranze riparando oltre confine per difendersi da minacce che egli solo vedeva; e oltre confine aveva trovato la morte, una morte tanto precoce quanto assurda, disse il presidente, e l’inquadratura fece vedere il baluginio di una lacrima di commozione; due giorni dopo, in occasione dei funerali dell’oppositore, che si svolsero in forma strettamente privata nella cittadina dove era accaduto l’incidente, il presidente si presentò in parlamento con una più ricca versione dello stesso discorso, e la stessa lacrima scintillò per il medesimo istante sulle ciglia. Nella sua orazione funebre, però, più che della vita del morto il presidente parlò di argomenti più generali ed elevati, parlò dei misteri del caso e della fragilità dell’esistenza umana.
“Chiediamo consolazione, e chiediamo risposte” disse, muovendo appena la mano destra e guardando fisso un punto lontano “e la vita ci pone davanti a continue domande di cui non capiamo il senso. Il dolore si manifesta improvviso, crudo: colpisce chi è già colpito dalla durezza della condizione umana, e ci chiediamo perché, perché a noi, cerchiamo di trovare una colpa lì dove c’è il male, perché non possiamo sopportare l’idea che il dolore arrivi così, senza causa, senza che un nostro comportamento lo abbia provocato; o senza che l’abbia provocato il comportamento di qualcun altro. Il dolore sconvolge il nostro senso innato di giustizia, di ordine. In molti trovano risposta in un mondo più grande di questo, in una fede che ci sorregge e ci indirizza; nell’amore che proviamo gli uni per gli altri, e che rende l’esistenza dignitosa e sopportabile anche nell’ora più cupa. Ora vorrei” disse ancora, e il suo volto si fece pallido in maniera quasi innaturale; il viso di un santo, si sarebbe detto in altri tempi, la trasfigurazione di un uomo che non appartiene più alla mera dimensione umana ma la trascende e la nobilita “Ora vorrei che da questa irreparabile tragedia tutti noi - dopo il momento del pianto, dopo il momento dello smarrimento - potessimo trarre un nuovo impulso, un sentimento di unione, il senso di far parte, tutti insieme, di un unico destino. Che ci coinvolge tutti, in cui tutti dobbiamo fare la nostra parte, in cui tutti siamo parte di qualcosa di più grande, in cui l’unità e la concordia danno un significato alle azioni, un argine alle tempeste in cui il caso ci butta, un nome al destino, una prospettiva di riscatto al dolore. E ora…”
E lì concluse, e la commozione prese il sopravvento. I nessi logici non contano, lì dove c’è il sentimento; il discorso del presidente non aveva senso, mi dico adesso, ma allora fui, come tutti, come rapito da un’estasi di comunità. Il referendum fu un successo; è difficile dire se il discorso del presidente, o la morte stessa dell’oppositore, avessero influito sul voto. È difficile dirlo perché i moti dei popoli sono irrazionali e colmi di mistero, e il loro cuore è in gran parte un turbine sconosciuto. Sì, anche queste sono parole del presidente. Le ho introiettate; lo hanno fatto tutti, non dipende dalla nostra somiglianza fisica. Parliamo come lui.
Io credo che continueremo a parlare come lui ancora per un pezzo. La lingua sopravvive alla materia, talvolta, no? Prima vengono le parole, e poi le idee. Le parole passano, vengono raccolte, afferrano le persone, dispongono le regole dell’armonia. Diventano fiabe e vengono raccontate, e poi vanno interpretate in modo da diventare altre fiabe. La lingua del presidente è la sua maggiore conquista, quella da cui dipendono tutte le altre; e se le altre cadono, se cadranno o se sono già cadute, lei resterà perché è quella che ci serve per raccontare questa storia. Benché serva per mercanteggiare, per dimenticare e per formulare profezie, la parola può anche, poi, modificare la percezione del male. Per esempio, nel raccontare a me stesso di ciò che facevo, potevo darmi giustificazioni parziali: nessuno è veramente malvagio ai propri stessi occhi, nemmeno il criminale più incallito. Si trova sempre l’attenuante di una circostanza sfavorevole, di un destino avverso, di un’infanzia problematica, di un amore mancato. Io mi rendevo conto di quel che facevo, e dei cambiamenti che erano occorsi in me. E lui? Me lo domandavo spesso. Me lo domando ancora.
Vivere da sosia aveva dei vantaggi, nonostante tutti gli incomodi della situazione e i rischi che, era inutile nasconderselo, avrei corso se mi fossi presentato con la mia vera faccia davanti a qualche malintenzionato, o a qualche residuo oppositore violento, una di quelle anime turbolente e inquiete che anni di lavoro presidenziale non avevano ancora ammansito. C’erano però delle occasioni in cui riuscivo perfino a divertirmi, nei panni di lui. Capitava infatti che venissi usato, di contorno, in qualche piccola cerimonia in cui era necessario che lui apparisse soltanto, per brevi momenti: era la mia grande opportunità di vedere il popolo adorante, di sentire sulla mia viva pelle l’energia che il presidente era capace di incanalare. Vedevo gli sguardi che gli lanciavano le donne; vedevo l’orgoglio e la frenesia negli occhi degli uomini. Vedevo che cosa significa poter usare l’Altro come alibi. Camminavo imitando il suo incedere, compito nel quale ormai ero diventato bravissimo; salutavo con la mano, imprimendo al mio polso la stessa flemmatica rotazione che avrebbe usato lui. Indossavo abiti di sartoria che mai mi sarei potuto permettere. Non dovevo fermarmi, non dovevo indugiare, non dovevo accelerare, non dovevo illudermi, dovevo recitare e al contempo non recitare. Chi può capire quanta fatica si faccia? Sentivo il brivido del pericolo e l’entusiasmo dell’identificazione in un progetto superiore. Ascoltavo le grida di giubilo. Ascoltavo gli applausi. Camminavo, salutavo. E sparivo. Sapevo che c’erano altri sosia, ma che ero quello di cui lui si fidava di più: il più somigliante, il più reale.
A casa, continuavo a praticare il male, e ci avevo preso l’abitudine: era diventato un lavoro anche quello. Avevo stabilito con me stesso che espormi di persona era inutile: non solo c’era il rischio che il mio travestimento non fosse sufficiente, ma il disgusto fisico che provavo nell’avvicinarmi a certi derelitti era ormai un limite insopportabile. Ma a che serviva sporcarsi le mani di persona, quando era possibile nuocere al prossimo da lontano? Si tende a sottovalutare il senso di appagamento che può dare la delazione. Eppure il fatto che tanti, nel corso della storia umana, vi abbiano fatto ricorso dovrebbe farci supporre che non si sia trattato di un comportamento dovuto unicamente alla paura di ritorsioni da parte del potere: no, c’è anche un intimo piacere, la consapevolezza che quel potere, almeno per oggi, si accanirà su qualcun altro. C’era un anziano avvocato, che viveva nel condominio dirimpetto: feci correre la voce sulle sue attività antisociali. Una coppia di origine straniera che gestiva un negozio di frutta e verdura, e ci cucinava dentro quegli strani piatti tipici del loro paese, ebbe più di una visita da parte delle forze dell’ordine. Il ragazzino che passava sotto le mie finestre accompagnato dalla mamma per andare a scuola un giorno cominciò ad andare a scuola da solo, e teneva la testa bassa. Uno studente universitario che veniva a trovare la sua fidanzata al piano terra del condominio in cui vivevo non terminò i suoi studi in chimica. La delazione e la calunnia non hanno a che fare con la colpa o con la verità, ma con il potere e con la fortuna, mi dicevo; sarebbe stato compito loro, poi, dedicarsi a trarsi fuori dai guai tramite altre forme di fortuna e di potere, se mai ne fossero stati capaci, e conciliare i possibili dubbi inquisitori con le speranze sulla propria salvezza. Tutto questo, e molto altro, accadde nel corso degli anni: perché gli anni si accumulavano in gran fretta, e il mondo girava sotto i miei piedi con sorprendente velocità. Venti di guerra si addensavano e si acquietavano, l’inflazione ruggiva o taceva improvvisa, la società sobbolliva senza mai trovare sfogo. La fiducia nei confronti del presidente, lei, rimaneva pressoché intatta, il che era quasi mostruoso: ma, a ben vedere, il fatto mi colmava di un senso di felicità e giustizia che tuttora non riesco a spiegare.
[8. Continua. ©ElenaTosato 2024]
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