Buongiorno, ed eccoci in agosto. Siamo a metà del racconto estivo. Per chi avesse mancato le puntate precedenti: qui è dove può recuperarle
prima parte
seconda parte
terza parte
quarta parte
Uno. Quinta parte
I primi tre anni furono quelli più densi di cambiamenti, così diranno gli storici e così posso confermare io, come testimone e partecipe degli eventi. Seguivo le notizie per come arrivavano attraverso i media, osservando le persone le poche volte in cui, ben camuffato, uscivo di casa e ascoltando i resoconti che mi faceva mia moglie, che invece poteva uscire molto più di me. Talora dovevo accompagnare il presidente nei suoi viaggi all’estero e nelle riunioni con gli industriali o con i capi dell’esercito. Mi caricavano su un’auto, facevano in modo che venissi intravisto qua e là, in un paio di occasioni fui sollecitato a esibire la mia forma fisica in una corsetta, ma mi dissero che non avrei mai corso rischi reali. E in effetti non ebbi mai la sensazione di essere minacciato. Le riunioni con l’esercito, però, mi innervosivano: sarà perché ho ricordi piuttosto cupi del mio periodo sotto le armi, mesi in cui non imparai mai davvero a sparare per bene e fui vessato da due sottufficiali particolarmente ottusi. Non è che sia un ricordo del tutto negativo, ma mi rendo conto che ero partito con aspettative migliori. Fatto sta che l’esercito era sempre più presente nella vita quotidiana: si affiancò alle forze di polizia, dapprima, e poi non fu più una rarità veder girare soldati che, con affettata distrazione, impartivano ai flussi sociali i loro ritmi e le loro gerarchie. I loro volti si somigliavano tutti. Ogni tanto venivano organizzate lunghe e complicate parate in cui il presidente in tribuna applaudiva con enfasi e distribuiva decorazioni sempre più scintillanti e io venivo di nuovo scarrozzato qua e là come elemento di distrazione per eventuali nemici della patria. Nonostante il gran dispiego di forze armate, però, nessuno manifestava in pubblico la sensazione - così diranno gli storici e così posso confermare io - che ci fosse per le strade un’aria di oscura minaccia, o che l’esercito stesso si abbandonasse, nella certezza quasi totale dell’impunità, ad atti di violenza arbitraria contro qualche emarginato subito tacciato di comportamento antisociale e antipatriottico. Non si manifestava in pubblico la sensazione perché pensavamo di sbagliarci, e lo pensavamo perché ci fidavamo del presidente, e perché all’inizio furono pochi casi, e non gravi, tali da favorire la propensione a minimizzarli e il bisogno di negarli; però io sono convinto che dentro di noi sapessimo. Non potevamo non sapere. Io sapevo, per esempio; e tacevo anche a me stesso.
Il presidente aveva una moglie e questa moglie era giovane e intelligente, ed era anche bella, e questa era una fortuna perché non sarebbe stato ammissibile dire che non era bella o che non era intelligente. Devo ammettere a malincuore che la moglie del presidente era più bella della mia, e anche più intelligente, da che si poteva capire ascoltandone i rari discorsi pubblici; mia moglie, acida, faceva notare che era probabile che i discorsi glieli scrivesse un’altra persona, ma questo fu l’unico suo commento fuori luogo sulla questione. Non pensavo molto alla moglie del presidente: però, vista la somiglianza tra me e lui, capitò che mi sorprendessi a domandarmi se la moglie del presidente, vedendo me, avrebbe colto la differenza; se le sarei piaciuto; se avrebbe ceduto alle mie parole, oltre che ai miei lineamenti così indistinguibili da quelli dell’uomo che amava. Capitò che mi sorprendessi a masturbarmi con delle fantasie sulla moglie del presidente, che era bella e intelligente, e capitò che lo facessi in presenza di mia moglie, e capitò che facessi l’amore con mia moglie pensando alla moglie del presidente, e poi figurandomi di farlo con tutte e due, in contemporanea, mentre il presidente guardava. E non lo dissi mai a nessuno, per carità, perché avrei rischiato la fucilazione, e dopo la fucilazione avrebbero dovuto deturpare il mio cadavere per minimizzare il rischio che qualcuno scattasse una foto della mia faccia da morto e mettesse in giro che era morto l’altro; come se, in questo senso, non ci fossero già stati tanti problemi con i software che creavano immagini!
Così smisi di pensare alla moglie del presidente, almeno fino a quando non partorì un bambino, nel terzo anno della presidenza, e ci furono grandi feste per tutto il paese; allora mi chiesi se mai quel bambino avrebbe potuto riconoscere in me suo padre, ma fu una domanda del tutto innocente e malinconica, banalmente ispirata dal fatto che mia moglie e io, invece, non eravamo riusciti fino ad allora ad avere figli, e non vi saremmo riusciti nemmeno in seguito. Tornai a concentrarmi sul lavoro e sulla mia vita familiare. Tornai anche a pensare al mio corpo, a come il presidente e io cambiavamo allo stesso modo, e pensai ai rapporti che un essere umano può avere con il proprio corpo, perché poi uno è quasi sempre convinto che il corpo sia qualcosa che si ha, e non qualcosa (o qualcuno) che si è, perché abbiamo questa atavica tendenza a considerare il corpo e la mente, o l’anima, come due entità distinte. Pensai alle relazioni tra il mio aspetto e la mia memoria, al fatto che mi vedevo e mi riconoscevo perché mi ricordavo di me. La memoria, dicevo, dipendeva da una serie di riti, la mia identità dipendeva dalla rievocazione e dal ricordo e il fatto che l’immagine di me, prima che diventassi il sosia del presidente, era costituita da parole più che dall’aspetto. Così passavo un sacco di tempo a riflettere e a ragionare su argomenti difficili, e se temevo che tutta questa attività mi facesse venire le rughe sulla fronte e le borse sotto gli occhi mi consolavo dicendomi che anche il volto del presidente subiva la stessa sorte, dal momento che il presidente era costretto a ragionare di continuo su argomenti ancora più difficili, come la salvezza del paese e la sua prosperità futura.
È indubbio che il presidente abbia goduto, per la maggior parte degli anni in cui conservò il potere, di un’enorme fiducia da parte della popolazione; e, almeno all’inizio, anche da parte degli altri paesi e dei mercati. Tutto al mondo dipende dalla fiducia. Del resto, era stato eletto proprio per quello: perché lui, un uomo giovane e all’apparenza anonimo - non per niente mi somigliava! - con poca esperienza politica, con qualche retaggio accademico appena accennato per via dell’età e comunque di non eccelsa caratura, provvisto però di un magnetismo peculiare e rarissimo e, ora possiamo dirlo, della capacità di far convergere interessi sociali ed economici tanto potenti quanto sottaciuti da parte di ambienti consolidati che in principio credevano di poterlo governare e invece ne furono rapidamente soggiogati e assorbiti, fu scelto dall’elettorato e dalla Storia - mi si perdoni la retorica - perché ispirava una fiducia maniacale, quasi divina. Erano i tempi, ricorderete, in cui il paese - non solo il nostro, ma anche tanti altri, invero - era scosso fin nelle fondamenta da un’ansia pervasiva tale per cui moltissimi temevano di perdere il poco che avevano guadagnato, risparmiato, o accumulato durante tutta la vita; e non si trattava solo di denaro, ma anche e forse soprattutto di status sociale, di prospettive per il futuro. Era una febbre che mordeva le carni e ne sentivo il dolore perfino io, che pure avevo uno stipendio sicuro: ma erano pochi soldi, e per giunta colmi del disprezzo che la comunità riversava sugli impiegati pubblici. Il presidente ebbe il coraggio, o l’intuizione, o la saggezza, o la spregiudicatezza, non so, giudicatelo voi, di far leva non sugli ultimi, il che l’avrebbe trasformato in un patetico emulo di un Cristo fuori tempo, ma sui penultimi: e i penultimi erano tanti, e impauriti, e sempre di più, e gli ultimi erano invece l’occasione perfetta affinché i penultimi trovassero un nome alla colpa che affliggeva la società. E fu così che ai penultimi spettò in dono un presidente, e agli ultimi non rimase alcun Cristo da invocare, nemmeno quello originale, la cui rappresentanza era stata infine incanalata dal clero, con dovuta circospezione, nei comodi alloggi morali della corte presidenziale.
[5. Continua. ©ElenaTosato 2024]
Voglia di un poema? Ecco la proposta della settimana.
Tempo notturno
Poema scritto “in diretta” durante la seconda ondata di Covid, mentre attendevo (im)paziente che arrivasse il mio turno per la vaccinazione. Qui si toccano, in terza rima, i percorsi di pipistrelli, vaccini ed ecosistemi compromessi: ma è principalmente la storia di una musica, di un’eredità da rispettare e della vita di alcune persone che cercano di tirare avanti nonostante le limitazioni e il pericolo del contagio. È una storia che parla di odori e di sapori perduti, di contatti che non ci sono più, e del modo in cui si tenta di porvi rimedio.